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Ancora e Ancora
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E-book390 pagine6 ore

Ancora e Ancora

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Info su questo ebook

Gavino è un uomo con barba e capelli brizzolati di quasi 70 anni con alle spalle tante esperienze di lavoro, di cucina, di viaggi e di piacere. Il personaggio è sempre l’alter ego dell’autore. Questo secondo libro descrive molte città in cui è ritornato negli anni e pure questi ritorni anarchici rappresentano il testamento spirituale di un biologo curioso che, spostandosi per il mondo, offre sempre atipiche testimonianze di ottimismo, di successo e di gioia di vivere. Dunque non geografia o storie classiche ma evocazione di lievi emozioni sempre ricorrenti nel viaggiatore allenato e scanzonato… Non ci sono segreti, la vita deve essere semplicemente vissuta al meglio e senza paure. Il titolo evoca il bis in francese cioè la richiesta dello spettatore rivolta al direttore d’orchesta o al solista per gustare ancora e ripetere provando di nuovo altre e forse più intese emozioni, a significare che sono le singole gocce che scavano la pietra.
LinguaItaliano
Data di uscita2 nov 2016
ISBN9788822861504
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    Anteprima del libro

    Ancora e Ancora - Giorgio Calaresu Barberis

    Giorgio Calaresu Barberis

    ANCORA E ANCORA

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    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    INDICE

    I. Lisbona e a ritroso

    II. Dubai, Cairo, Luxor e un regime

    III. Tokyo e Kyoto

    IV. New York, Washington e Hong Kong

    V. Londra e Sydney

    VI. Parigi o cara

    VII. Copenaghen e la Superba

    VIII. Atene, Cannes, Praga e Vienna

    IX. L’Eterna e Firenze

    X. Pechino, Suzhou, Shanghai e Canton

    XI. Città del Messico e Mosca

    XII. Marrakech e Istanbul

    XIII. La Serenissima, Napoli e Marsiglia

    XIV. Johannesburg, Canberra e Berlino

    XV. Madrid e Barcellona

    XVI. Bruxelles e Amsterdam

    XVII. Bangkok, Mumbai, Delhi e Kuala Lumpur

    XVIII. San Francisco, Phoenix, Miami e Boston

    XIX. Bogotà, Caracas e Quito

    Ringraziamenti

    A mia madre e mio padre che mi diedero la vita e poi mi sopportarono…

    … le tigre ne se pavane pas en criant sa tigritude…

    I. Lisbona e a ritroso

    Non sono io che scrivo ma Gavino, il mio alter ego che racconta a me e io trascrivo. L’artificio è semplice: non voglio essere ritenuto responsabile di certe omissioni. E ciò a significare che scrivere, almeno come lo faccio io non è proprio una cosa seria… Mi ero sentito proprio come un pollo quando fui borseggiato sulla metropolitana la prima sera del nostro soggiorno a Lisbona e ovviamente, rientrati in albergo, non riuscii a dormire per tutta la notte. Mi tormentai, come al solito, per non voler accettare il fatto. Fantasticai invece su come avrei potuto resistere alla quella abile predazione di veri professionisti. Mi ero girato e rigirato in quel bel lettone della suite che ero riuscito a farmi assegnare all’arrivo nel pomeriggio. Naturalmente l’avevo ottenuta allo stesso prezzo della camera normale, solo perché avremmo alloggiato per sette notti. Non accettavo quindi la dolorosa idea di essere stato una facile preda in una capitale europea, in un contesto apparentemente così normale e poco pericoloso. Era stato difficile rassegnarsi in quelle ore notturne. E pensare che avevo sempre cercato di scoraggiare questi atti non apparendo proprio un turista. Certo nei miei viaggi del passato ero stato forse più prudente e meno spavaldo. L’orologio Rolex, anche se solo di acciaio, e i mocassini bicolore avevano forse attirato l’attenzione della banda, tre o quattro.

    Mi chiamo Gavino e sono nato per caso in uno sperduto paesino della Lomellina. Arrivai a Milano a tre anni perché la famiglia al completo si trasferì nella città ambrosiana. La mia base è tuttora la capitale lombarda dove ho vissuto la maggior parte dei miei anni. Biologo per formazione italiana e australiana e viaggiatore per passione sono stato in centinaia di paesi in transito e non. Mi sono occupato per oltre trent’anni di commercio estero in varie società italiane.  Il mio interesse per il mare eguaglia quello per il cibo, il cinema, la letteratura, la ceramica, la musica e i vini. Sono l’ultimo di sei che un padre sardo e una madre piemontese ebbero il coraggio di procreare. Come scriveva Bertrand Russell, nonostante l’invenzione di tante macchine per risparmiare tempo, mi piace correre lentamente e gustare anche la gioia dell’ozio. Sempre più spesso la minore disponibilità di tempo induce in genere alla superficialità e io mi difendo da quella con una certa vigile malizia. Credo veramente che il lavoro sia un mestiere mentre l’ozio possa diventare un’arte. Molti, incluso mia moglie, considerano l’ozio come un’attività negativa. Penso comunque che non si dovrebbe proprio  confonderlo con uno dei peccati capitali: l’accidia non intenzionale.

    Negli anni mi sono reso conto che il potere corrompe soprattutto quelli che pensano di meritarlo. Non so bene se io non sia stato sfiorato da quello per merito, e dunque per modestia. Ho quindi la strana sensazione di non meritarlo. Forse non l’ho mai avuto perché non sono mai stato apicale in nessuna gerarchia. Bisognerebbe forse dare ragione al nostro memorabile patriarca politico Giulio Andreotti che sosteneva che quello logora chi non ce l’ha. Io mi sento davvero poco logorato. C’è poi un ulteriore interrogativo retorico che recita che il privilegio attira il corruttibile. Non essendo dunque mai stato un individuo alfa, ma beta, me la sono cavata con la mediocrità rimanendo per natura poco arrogante. Mio padre mi aveva inconsapevolmente instillato una cultura di non avente diritto accompagnata forse da una relativa modestia, non proprio sottomissione e piuttosto ironia. Poi mi è sempre parso interessante il rapporto tra potere e privilegio...

    Ho alle spalle oltre che esperienze di lavoro, di cucina e di viaggi anche di intense emozioni che aiutano crescere ed esprimono intenzionalità. Non ci sono segreti, la vita deve essere vissuta al meglio, anche nelle difficoltà. Con mia moglie quindi, grazie alle sue carte di credito, facemmo tutto quanto dovevamo fare in quella settimana di ferragosto, così maldestramente cominciata. Avevo perso con il portafoglio le carte di credito cioè tutte quelle sicurezze di plastica che ha solitamente un maschio con il petto coperto da vello argentato. Ormai siamo più o meno esplicitamente valutati per quanto possiamo spendere. Ovviamente non solo dalle persone che ci sono vicine ma da eventuali mariuoli, che devono, per professionalità, sempre avere un occhio clinico.  Ricordo anche un episodio occorso alla fine degli anni settanta a una donna che aveva viaggiato accanto a me su un volo Alitalia proveniente da Buenos Aires. Il mio robusto direttore commerciale, un sanguigno modenese, mi aveva raggiunto per firmare un accordo importante alla fine del solito viaggio circolare dei paesi dell’America latina. Atterrati a Fiumicino la passeggera sui cinquanta fu borseggiata e alleggerita di ben trentamila dollari in contanti. 

    Erano probabilmente il risparmio di una vita, in un periodo in cui la moneta argentina si svalutava giorno per giorno e perdeva drammaticamente di valore tanto che nostri listini erano in valuta statunitense.  Il denaro argentino dunque circolava solo localmente e i prezzi di quanto importato erano in valuta forte. Tutto quello, ovviamente, lo apprendemmo successivamente dalla signora in lacrime. Completamente stravolta aveva pensato bene di accusare me dell’alleggerimento. Teneva le banconote in una busta di carta dentro la sua borsetta che teneva ben stretta, aveva spiegato. Forse quello era stato il segnale per i falchi. Io compresi il dramma e dissi alla signora che ero disposto, dopo aver ritirato il mio bagaglio ad andare dalla polizia per accertamenti. Fu a questo punto che il mio direttore sbottò e disse alla signora che garantiva per me. Dichiarò alzando la voce che ero un suo collaboratore e che non avrei certo pensato di derubarla. Aveva viaggiato accanto a me e si sarebbe accorto di eventuali azioni di sciacallaggio. Concluse che probabilmente era stata borseggiata all’arrivo da abili delinquenti. Eravamo dispiaciuti ma non potevamo proprio aiutarla. Lasciammo quindi la donna nella sua disperazione.

    A sessantanove anni ho, come spesso affermavo ironicamente, capito soltanto alcune faccende cartesiane, cioè quelle che definirei chiare e distinte. Erano più i dubbi che le certezze ad affollare la mia mente. Quelli erano stati inconsapevolmente coltivati e divenuti negli anni la sola possibilità. Forse quell'atteggiamento mi consentiva di essere veramente indipendente dalle ovvietà e dal conformismo. Avevo sempre fatto attenzione sia ai miei documenti che alle banconote. Razionalmente mi rendevo conto che non dovevo provocare e ostentare benessere nei confronti di chi aveva meno  e che soprattutto, nei luoghi affollati, dovevo passare inosservato. Anche nel mondo animale i predatori sanno riconoscere gli individui più deboli e più facilmente attaccabili. Alla fine accettai la perdita riclassificando l’evento e riconoscendo la mia impotenza dinanzi al nucleo organizzato, esattamente come un branco. Se vuoi goderti la vita preparati alla deprivazione, mi era venuto di pensare, anche quella estrema. Si apprezza quello che si ha spesso dopo esserne stato privato anche solo parzialmente. Non avevo provato rancore verso gli assalitori: avevo cercato di inquadrare l’evento criminale in un contesto sociologico. Non serviva negarlo, bisognava semplicemente buttarselo alle spalle, magari consolandosi di non aver subito danni laterali, quali ferite o altro. Gli anni dunque non erano serviti solo a invecchiare ma anche a rendermi più saggio.

    Mi sentivo abbastanza in forze anche mentalmente e potevo persino essere considerato giovanile. Quest’aggettivo buffo suonava quasi offensivo ricordando quanto diceva mio fratello fisiologo: quando lo useranno per te significherà che sei diventato vecchio, mi aveva detto abbastanza seriamente. Non sono mai stato propriamente marxista, neppure in gioventù. Tuttavia non sono insensibile alla povertà e ai disagi della gente. Semplicemente ho accettato benevolmente le mie molte  contraddizioni proprio come Carlo Marx, figlio di un avvocato ebreo cristianizzato, che aveva sposato una aristocratica tedesca e conduceva una vita relativamente borghese. L’autore de Il Capitale doveva molta riconoscenza infatti all’amico e benefattore Frederick che divise con lui per vent’anni lo stipendio guadagnato nel cotonificio di famiglia a Manchester. Quel denaro dunque gli permise di concludere almeno il primo volume. Engels, che in tedesco assomiglia alla parola angelo, fu molto generoso e curò, dopo la sua morte, l’edizione del secondo e del terzo volume. Introdusse in quelli idee forse ancor più radicali, grazie alle sue esperienze dirette nella cotonopoli, allora un paradiso per gli industriali e un inferno per i lavoratori.

    Io debbo la mia riconoscenza a varie persone della mia adolescenza e della vita in genere che con la loro magnanimità mi hanno fatto apprezzare certi lussi intellettuali e non. Come diceva mio fratello Franco prima di morire, ho condotto una vita da ricco, pur non avendo avuto grandi disponibilità economiche. Gli atteggiamenti verso la vita di noi fratelli si intrecciarono quasi rendendosi complementari, proprio come quelli dei due citati amici e non sempre con reciproche coerenze. Ho almeno avuto quella capacità di apprezzare molto tutto quello che ho potuto sperimentare a 360 gradi. Engels alla morte di Marx disse generosamente di lui che era un genio e che gli altri erano al massimo dotati di talento. Il primo si era forse più goduto la vita del serioso quanto geniale amico. Engels non aveva avuto figli ma aveva adottato quello illegittimo di Marx. Aveva vissuto prima con Mary Burns, una proletaria irlandese, appena alfabetizzata, e poi alla morte di quella con la sorella Lizzy. Sembrava non aver avuto sensi di colpa: amava la buona vita, le donne e il vino. Era molto meno convenzionale del più colto amico che aveva studiato legge e filosofia. Entrambi erano di cultura tedesca ma Engels aveva cominciato a lavorare a 17 anni nella filale dell’azienda familiare Ermen & Engels. A 24, divenuto un capitalista di successo, incontrò Marx a Parigi, poco prima della pubblicazione de Il Manifesto, e insieme a lui aveva girato l’Europa alla ricerca di movimenti rivoluzionari.

    Quella sera, ritornato nella città dopo quasi cinque lustri, mi ero sentito del posto, come spesso mi accadeva in contesti rivisitati e non particolarmente difficili. Eravamo arrivati al Corinthya in taxi con un onesto professionista che aveva preteso solo l’importo del tassametro. Le prime impressioni erano state dunque positive e avevano contribuito a farmi abbassare la guardia. La cena di mare all’aperto, in un ristorante centrale, era stata decente e pagata in contanti. Almeno quella somma aveva diminuito il bottino degli assalitori che comunque mi apportarono un danno considerevole. Non mi era sembrato di apparire proprio un turista o un pellegrino, come da anni definivo i viaggiatori distratti e persi, dentro o fuori dai gruppi. Evidentemente ero stato adocchiato da esperti che avevano fiutato il bottino. Tutto era avvenuto così velocemente nella carrozza del treno sotterraneo, rincorso insieme a mia moglie sul marciapiede della fermata. Il convoglio notturno aveva meno carrozze e per salire sulla ultima carrozza avevo dovuto fare una breve corsa con gli altri che attendevano nella parte distale del marciapiede.

    Nella carrozza ero stato circondato e spintonato violentemente alla chiusura delle porte e alleggerito del portafoglio che tenevo nella tasca anteriore sinistra. Me ne resi conto solo al riaprirsi delle porte ma ormai era tardi: mi avevano sopraffatto. Oltre al fastidio per il borseggio era subito sopraggiunta la tristezza di essere stato oggetto di predazione. Perdevo parte della mia intimità oltre al denaro. Eppure mi ero così ben difeso nel passato nascondendo, come prassi, documenti, carte e patente nelle casseforti o nella mia valigetta con chiusura a combinazione. Solitamente alla sera portavo con me l’essenziale: una carta di credito e una o due banconote. Mi ero lasciato inconsapevolmente influenzare dall’esigenza di apparire più che di essere. Avevo stupidamente portato tutto quanto possedevo, quasi non avessi mai lasciato il mio territorio. L’etologia avrebbe dovuto insegnarmi che nel territorio degli altri si è sempre più deboli. E poi mi chiedevo perché avevo dovuto cedere alla vanità dei mocassini bicolore, anziché attenermi al collaudato atteggiamento di basso profilo.

    L’indomani la Polizia turistica, vicino a alla stessa stazione Restauradores, dove avevo subito il furto, aveva gentilmente accolto la mia denuncia in inglese, convertita poi in un rapporto bilingue, italiano e portoghese. Mi dissero che nei giorni successivi avrei forse potuto recuperare portafoglio e documenti… Io fui quasi sicuro che non gli avrei più trovati perché a così abili professionisti conveniva distruggere con calma il corpo del reato piuttosto che disfarsene frettolosamente. Dopo il furto serale subito e la conseguente notte insonne in albergo, ho recuperato l’entusiasmo anche con il fondamentale aiuto di mia moglie. Sono convinto che il vero viaggiare sia quello individuale per quanto piacevole sia a volte il condividere l’esperienza. Quando uno viaggia da solo è disponibile a tutto campo e recepisce l’ambiente senza distrazioni. Forse è più duro ma certamente più educativo. E poi pur amando il lusso penso che le migliori esperienze emotive siano quelle realizzate con comodità essenziali e quindi essere più vicini alla realtà.

    In un grande albergo si capisce poco di quanto effettivamente succede in un paese. Comunque ill privilegio si apprezza proprio perché non è frequente. In conclusione penso che leggere o ascoltare una esperienza rispetto a viverla abbia una valenza più debole. L’agio filtra la realtà e non lascia passare preziose informazioni omologando le situazioni. Per questo i peggiori viaggiatori sono quelli che non riescono a rinunciare alle comodità e paradossalmente anche alla propria cultura. Allora riuscimmo comunque a fare molte cose in quella settimana a Lisbona, ovviamente accettando i ritmi di mia moglie, che sono diversi dai miei. Questo succede a tutte le coppie, quindi anche a quelle in movimento. Affermo ciò non per lamentarmi per la perduta libertà ma come dato di fatto. Viaggiando in sua compagnia in genere vengo un poco distratto e non solo in quel caso.  Mia moglie ha poi svolto egregiamente il ruolo di ufficiale pagatore. Ho cercato poi di ricompensarla per quella funzione svolta in regime straordinario.

    Tutto a Lisbona trasmette saudade, e ancor di più di fronte al fiume, aspirando la brezza che increspa il Tago appunto, cioè il Tejo. Si intuisce vagamente con il riflesso del cielo sull’acqua cosa sia questa inesplicabile sensazione di nostalgia e rimpianto di un passato glorioso. Forse anche di mancanza e al tempo stesso desiderio di raggiungere l'inaccessibile, un malinconico bisogno di utopia che è poi l'orizzonte stesso, un sentimento che i trovatori medievali incominciarono a definire come saudade e da allora in nessuna lingua si è trovato un termine appropriato per tradurlo. La saudade trova espressione in una forma musicale: il fado, con le sue struggenti melodie. Quello rende esplicita una malinconia interiore intesa come accettazione del proprio destino. Nella poesia portoghese e brasiliana la saudade si trasforma a volte nella venerazione mistica per la natura e in una certa inclinazione alla solitudine. La capitale era anche la città più grande del paese, con oltre 500 mila lisboetas, mentre l'area metropolitana ospitava più di 3 milioni di abitanti, pari a circa un terzo della popolazione portoghese.

    Nel periodo di Augusto furono erette delle mura difensive, un grande teatro, delle belle terme, numerosi templi, una necropoli, un grande foro e numerose abitazioni nella zona tra il Castello di San Giorgio e l'attuale centro cittadino. La città fu da sempre economicamente forte grazie al commercio di sale, di vino, di cavalli e di garum, quella sapida salsa di pesce molto apprezzata dai Romani. Fu tuttavia con la sconfitta della pirateria e con le innovazioni tecnologiche che quella assunse grande importanza come punto strategico per il commercio con la Cornovaglia, la zona del Reno e con l'interno della penisola iberica. Nel 711 la città fu conquistata dai Mori, che le cambiarono nome in al Isbunah. Sotto la loro dominazione la città fiorì. I Mori erano popolazioni provenienti dal Nord Africa e dal Medio Oriente. Costruirono nuove abitazioni e molte moschee, oltre ad una nuova cinta muraria. La popolazione divenne estremamente eterogenea: comprendeva cristiani, berberi, arabi, ebrei e slavi. L'arabo fu imposto come lingua ufficiale e la religione dominante divenne l'islamismo ma ai cristiani fu concesso di mantenere la loro religione.

    L'influenza araba era ancora visibile nelle strade della città e in particolare nel quartiere dell'Alfama, il più antico e l'unico rimasto in piedi dopo il terremoto del 1755. Durante il periodo arabo Lisbona fu per breve tempo sotto il controllo del Taifa di Badajoz, in qualità di città centrale per il Regulo Eslavo e in seguito fu indipendente. Con il termine di Taifa si intendeva un piccolo stato nato nella penisola iberica a seguito della dissoluzione e conseguente abolizione del califfato. Il 25 ottobre 1147 Alfonso I di Portogallo, al comando di un esercito di crociati, dopo un assedio durato mesi, conquistò Lisbona segnando un passo fondamentale nella riconquista della penisola iberica. Questo evento fu senza dubbio uno dei più importanti nella storia della città. Immediatamente dopo la violenta riconquista l'arabo fu abolito come lingua ufficiale e andò ben presto in disuso. Gli arabi sopravvissuti furono convertiti o esiliati e le moschee trasformate in chiese. Lisbona ebbe i primi documenti ufficiali di città nel 1179. Nel 1255 divenne capitale del regno del Portogallo in virtù della sua posizione centrale.

    Nel 1290 fu fondata la prima università del Portogallo e fu chiamata Estudo Geral, nel XVI secolo tuttavia fu trasferita a Coimbra.  Oggi infatti è conosciuta come Università di Coimbra. Tra il XV ed il XVII secolo da Lisbona partirono moltissimi viaggi di esplorazione, tra questi il più importante fu quello che permise a Vasco da Gama di arrivare in India. Il Portogallo dunque avviò le sue conquiste d’oltremare trasformando la sua immagine anche rispetto alla Spagna. Inizialmente i suoi navigatori cercarono di indebolire il potere dell’Islam sulle sue rotte commerciali e convertire al cristianesimo tutti i popoli incontrati. Alcuni addirittura pensano che Cristoforo Colombo fosse un ebreo portoghese convertito, marrano appunto. Quel navigatore sarebbe stato un agente segreto e avrebbe adottato la falsa identità italiana come copertura per entrare al servizio degli spagnoli e depistarli spingendoli verso terre inospitali e permettere ai portoghesi di raggiungere India e Cina.

    Il XVI secolo segna l'epoca d'oro per Lisbona. La città divenne il centro del commercio europeo con l'Africa, l'India, l'Estremo Oriente e, più tardi, il Brasile. Alcuni storici ritengono che gli esploratori portoghesi abbiano raggiunto le coste dell’Australia 250 anni prima del capitano James Cook. Depone a favore di questa tesi il ritrovamento di una moneta portoghese lungo la costa dello stato di Victoria. La città divenne anche il punto di partenza per esplorare e impadronirsi di varie risorse: spezie, schiavi, zucchero, tessuti o altri prodotti. Quello era stato il momento dell'esuberante stile manuelino con nodi da marinaio, pesci, carciofi, piante tropicali e foglie di tè che ha lasciato il suo segno in due dei monumenti più importanti di Lisbona: la Torre di Belém, costruita come una caravella nella pietra, e il solenne Mosteiro dos Jerónimos, abbastanza deludente purtroppo per il perenne affollamento. La città era dunque situata alla foce del fiume Tago. Le due sponde sono collegate da due grandi ponti, il ponte 25 aprile inaugurato nel 1966 e il ponte Vasco da Gama, inaugurato nel 1998 in occasione dell’esposizione universale. In quella si sono celebrati i 500 anni della scoperta del passaggio marittimo per l'India da parte del navigatore Vasco da Gama.

    Nel 1580 il Portogallo perse la sua indipendenza in favore della Spagna in seguito a una guerra di successione e l'indipendenza fu riconquistata solo nel 1640. All'inizio del XVIII secolo, la sua popolazione stimata era di 250 mila abitanti, quindi una delle città più grandi d'Europa. Nel corso dei secoli precedenti la città aveva già sperimentato alcuni importanti terremoti che avevano causato però danni contenuti. La mattina del 1° novembre del 1755, quando molte persone assistevano alla messa, si verificò una scossa di terremoto di magnitudo stimata attorno al nono grado della scala Richter con epicentro in mare a circa 200 chilometri al largo di Cabo de São Vicente. La scossa di terremoto provocò il crollo di molti edifici e numerosi incendi che si propagarono a macchia d'olio. I sopravvissuti, per sfuggire al fuoco, si radunarono nella Baixa, vicino al fiume. Circa 40 minuti dopo uno tsunami, generato dalla scossa, colpì Lisbona distruggendo tutta la parte bassa della città.

    Secondo le stime ufficiali ci furono tra 30 e 40 mila morti e fu distrutto circa l’ottanta per cento della città. Tra gli edifici più importanti che andarono distrutti ci sono il Paço da Ribeira, dimora della famiglia reale che però quel giorno era fuori città, e l'Hospital Real de Todos os Santos, il più grande palazzo pubblico del tempo. L'unico quartiere di Lisbona che superò praticamente indenne il terremoto fu l'Alfama. Lisbona riemerse dalle ceneri, ma molti dei suoi gloriosi monumenti e opere d’arte erano andati perduti per sempre, così come era finito il suo ruolo di primo porto e e anche quello di più bella città d’Europa, la principessa davanti alla quale persino l’oceano si sarebbe inchinato. Dopo il terremoto il Primo Ministro del tempo, Sebastião José de Carvalho e Melo, il primo Marchese di Pombal prese in mano la situazione e guidò la ricostruzione. Invece di riproporre lo stile della precedente città medievale, Pombal decise di abbattere i resti del terremoto e costruire un centro cittadino in conformità con le moderne regole urbanistiche dettate dall'Illuminismo. Per questo motivo la parte ricostruita di Lisbona prese il nome di Baixa Pombalina.

    Nei primi anni del XIX secolo il Portogallo fu invaso dalle truppe di Napoleone Bonaparte, che costrinsero la Regina Maria I e Principe Reggente João, futuro Giovanni VI, a fuggire temporaneamente in Brasile. In quella occasione moltissime proprietà furono saccheggiate dagli invasori francesi. La città sentiva tutta la forza del nascente movimento liberale portoghese, con la sua crescente tradizione di caffè e teatri. Nel 1879 fu inaugurata l’Avenida da Liberdade, in sostituzione di un precedente giardino pubblico, che divenne ben presto il salotto di Lisbona. Il 1° febbraio 1908, mentre attraversava il Terreiro do Paço, l'attuale Praça do Comércio, accompagnato dalla sua famiglia, il re Carlo I di Portogallo fu assassinato con due colpi di pistola da una coppia di attivisti repubblicani. In seguito la città fu teatro della la rivolta repubblicana del 5 ottobre 1910 che depose il principe reggente ed instaurò la repubblica in Portogallo. Dopo quella rivoluzione tuttavia il Portogallo rimase in una situazione politicamente molto confusa, sostanzialmente una guerra civile. Tra il 1910 ed il 1926 si succedettero 45 governi, quasi tutti di origine militare, e due presidenti furono assassinati.

    Nel 1926 prese il comando il generale Antonio Óscar Carmona che rimase al potere fino al 1951. Poi nel 1932, dopo aver ricoperto l'incarico di ministro delle finanze, Antonio de Oliveira Salazar venne nominato Primo Ministro. Iniziò così una politica incentrata sul pieno potere del primo ministro, sostenuto dalla Chiesa e dall'alta borghesia: fu la fine della libertà di stampa e dei sindacati. Iniziò l'epoca dell'Estado Novo: il fascismo portoghese, ispirato a quello italiano. L’espressione più inquietante del regime, la temibile PIDE, ossia la polizia segreta, non esitava a ricorrere ad arresti e torture pur di sopprimere l’opposizione. Durante la seconda guerra mondiale il Portogallo rimase neutrale, rendendo quindi Lisbona il maggior porto di partenza per i profughi che andavano a rifugiarsi negli Stati Uniti. Salazar condusse un doppio gioco evitando di schierarsi con le forze dell’asse e concedendo ai britannici una base nelle Azzorre. Negli anni cinquanta e sessanta il settore industriale fece registrare una ragionevole crescita. Poi Salazar, non volendo rinunciare alle colonie, si trovò ad affrontare spedizioni militari sempre più dispendiose e disapprovate a livello internazionale. Nel 1961 Goa venne occupata dall’India e in Angola scoppiò un’insurrezione nazionalista. Nel 1968 Salazar fu colpito da infarto e morì due anni più tardi. Il suo successore, Marcelo Caetano, non riuscì a contenere il malcontento generale. Stranamente anche i militari simpatizzavano ormai per i colonizzati. Il 25 aprile 1974 Lisbona fu teatro della Rivoluzione dei Garofani che mise fine all'Estado Novo instaurando la nuova democrazia.

    Il rivestimento di molti marciapiedi, a mosaico, fu realizzato a Lisbona inizialmente da carcerati nel XIX secolo e poi sempre restaurato o risistemato. Ancora nel periodo della nostra visita era comune e diffuso in molte aree urbane con tipici motivi di decorazione, incluso quelli a onde che ricordavano il mare. I mosaici sono formati da lucidi cubetti di calcare bianco e basalto grigio tagliati a mano e giustapposti su un letto di sabbia. Questa essendo permeabile all’acqua piovana, rendeva la superficie soggetta a piccoli cedimenti e quindi meno perfetta. A ragione mio fratello Franco esaltava la capacità di lavorare la pietra dei portoghesi quando aveva impiegato degli operai per il rifacimento della sua casa vicina al bosco, in Canada. Mi aveva confidato che due degli operai erano abili scalpellini portoghesi che maneggiavano le pietre con grande destrezza. Aveva aggiunto che si fermava spesso a osservarli mentre erano intenti al loro lavoro, non solo per curiosità, pensai, ma forse per controllarli.

    La città di Cascais di 30 mila abitanti era situata nel Portogallo centrale, nella costa di Estoril, ed era situata non lontano da Sintra. Cascais sembrava essere uno dei posti di mare e di turismo tra i più celebri del Portogallo. Lo spettacolo era entusiasmante, tipico dei soleggiati centri balneari europei. Caffetterie, bar e ristorantini facevano da cornice a splendide spiagge dorate che insieme alla costa panoramica rendevano Cascais il luogo ideale di vacanza. Storicamente la baia di Cascais fu già conosciuta sin dai tempi più antichi e l’insediamento umano costiero ebbe origine nel XII secolo e fu costituito sotto le dipendenze della bella località di Sintra. Nasceva come villaggio di pescatori riuscendo a servire la capitale Lisbona dei prodotti del mare e ben presto di verdura e frutta grazie al fertile entroterra. La sua prosperità commerciale la portò alla indipendenza dalla vicina Sintra nel 1364, mentre la vicinanza del fiume Tago la investì di importanza strategica nella difesa della capitale Lisbona, così che verso la metà del XV secolo ne venne costruita una fortezza. La fortezza venne poi ingrandita nel XVI secolo rendendola una vera e propria cittadella rinascimentale.

    Durante il XIX secolo che Cascais divenne luogo di villeggiatura alla moda, ricercata anche fuori dal Portogallo dalla nobiltà europea. Fu infatti con il re Luigi I che la cittadella nella parte sud ovest venne convertita in un palazzo di villeggiatura estiva. Da allora furono costruite infrastrutture varie e anche portata la luce elettrica nel 1878, poi costruite nuove strade, un casino, un'arena, la ferrovia e bellissime ville. Nel dopoguerra Cascais divenne inoltre luogo di privilegio per le famiglie reali in esilio come quelle di Spagna, Italia e Bulgaria. La piccola cittadina dunque era  conosciuta come luogo del jetset internazionale, oltre per essere ammirata per le varie bellezze. Apprezzammo in particolare il Parco Gandarinha, un tempo parte della residenza dei Conti Castro Guimaràes. La villa accanto, ora museo, era superbamente posizionata sulla scogliera e sembrava essere uno dei luoghi maggiormente visitati del Portogallo. Nel museo si potevano ammirare la bella collezione indo-portoghese di mobili, dipinti, azulejos, porcellane e libri, tutti collezionati dai conti filantropi.

    Mentre eravamo nella capitale non siamo riusciti invece a presenziare a una taurada, la corrida portoghese che credevo non comportasse l’uccisione del toro, erroneamente. Ne avevo vista una nel 1982 in Algarve. Mi era parso allora che ci volesse una buona dose di autolesionismo per affrontare il toro per le corna, pur foderate di cuoio, per renderle meno offensive. Una squadra di quattro o cinque giovani non armati bloccava in quella maniera la sua carica, cioè ricevendolo sullo sterno del primo, seguito dagli altri in fila per attutire l’urto. Il loro segreto dunque era di rendere la rincorsa dell’animale più breve possibile. Durante la visita dello scorso agosto lessi che il toro veniva ucciso dietro le quinte, dopo l’esibizione, e da biologo  comportamentista quale sono capisco il motivo di tale crudeltà. Il toro con le esperienze di combattimento perderebbe molta della sua naturale ingenuità e apprenderebbe molti trucchi. Per toreare bisogna eccellere, secondo i ruoli, nell’equitazione o dimostrare abilità ginnica, creatività e coraggio. Comunque come tutti gli animali anche il toro può apprendere e, come accennato, acquisirebbe troppa esperienza... Diventerebbe più difficile da ingannare e da prendere in giro. Nel finale arrivano persino ad afferrarlo saldamente per la coda e farsi trascinare opponendo resistenza con i piedi sulla superficie dell’arena. Non ho potuto quindi rivedere l’esibizione con occhi nuovi e alla luce delle nuove informazioni.

    Siamo stati anche a Sintra, piacevole e fresca cittadina, a circa 30 chilometri dalla capitale, un poco più a nord di Cascais. Abbiamo visitato un palazzo reale e i ruderi di un castello arabo più che il nucleo vecchio dell’abitato. Sintra era stata un importante centro della regione dell'Estremadura all'estremo nord della sierra con lo stesso nome, in un paesaggio che comprende pareti rocciose e lussureggianti giardini. Già insediamento arabo fu faticosamente ripresa nella prima fase della Reconquista. Divenne anche residenza estiva dei re portoghesi. Il Palácio da Pena invece era un eterogeneo complesso architettonico costruito intorno al 1840 su progetto dell'architetto Ludwig von Eschwege per il principe consorte Ferdinando di Coburgo Gotha, marito di Maria II, Regina del Portogallo. Nelle sue parti si mescolavano tutti gli stili: arabo, gotico, manuelino, rinascimentale e barocco ma la visita, per il grande affollamento, non fu proprio godibile. Il grande parco all'inglese intorno al castello era ricchissimo e fu celebrato persino dal musicista Richard Strauss. Anche la visita del Castelo dos Mouros non fu particolarmente gratificante per la moltitudine di pellegrini interessati solo in fotografie ricordo. I ruderi del castello e delle mura erano sopra la Vila Velha e si stagliavano fra le rocce e le querce della sierra. Il tutto costruito nel VII secolo dagli Arabi, come evoca il suo nome, è stato poi più volte rimaneggiato. Passando poi per il castello si giungeva al Palácio, la residenza estiva dei regnanti.

    A Cascais, dove visse in esilio il nostro ultimo re, visitammo la sua residenza reale, Villa Italia, convertita alcuni anni fa in un magnifico e prestigioso albergo internazionale.  Tale albergo non era lontano da una preziosa villa liberty dei primi del novecento, di proprietà del Conti Castro Guimaràes, che pure si affaccia sull’oceano. I generosi nobiluomini lasciarono i loro averi alla municipalità che decise di separare il giardino dalla villa facendone due entità contigue: giardino pubblico e museo. La condizione del lascito era che venisse creata una esposizione a nome dei benefattori. L’altro museo che ci entusiasmò quella settimana di ferragosto era invece a Lisbona e pure lascito di un filantropo, ma questa volta non nobile, solo un abile e facoltoso uomo di affari di origine armena. Interessante notare che entrambi ci piacquero perché creati grazie a. loro lasciti. Per me è sempre facile e quasi automatico identificarmi con loro, magari presuntuosamente. Gulbenkian era certamente un mecenate delle arti e forse il maggiore filantropo del nostro secolo. Aveva gusti raffinati e generoso ancor prima di fare fortuna, grazie al petrolio iracheno. L’uomo mise a segno il suo colpo magistrale quando acquistò parecchie opere dall’Hermitage di Leningrado intorno agli anni trenta quando l’Unione Sovietica aveva bisogno di valuta forte.

    Nella sezione egiziana apprezzai la bellissima ciotola di alabastro che risaliva a circa 2700 anni

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