Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Ego sum Nemo
Ego sum Nemo
Ego sum Nemo
E-book352 pagine4 ore

Ego sum Nemo

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Da dove veniamo? Chi siamo? Dove siamo diretti? Nemo, figlio di due immigrati balcanici mai conosciuti e cresciuto in una comunità nella città di Bari, vive ossessionato da questi tre quesiti e dalla ricerca delle sue origini. Questo lo porterà ad intraprendere un viaggio lungo le vecchie e nuove popolazioni dell'Est Europa, scoprendo così, quanto le distanze culturali balcaniche siano in realtà prossimità alla cultura che lo caratterizza. Inoltre, come in ogni viaggio itinerante, Nemo affronterà le viscere del proprio inconscio, caratterizzato da traumi infantili, fobie adolescenziali e paure tipiche di chi varca il mezzo cammin della propria vita. 
LinguaItaliano
Data di uscita17 ago 2019
ISBN9788834172131
Ego sum Nemo

Leggi altro di Nicholas Faina

Correlato a Ego sum Nemo

Ebook correlati

Narrativa psicologica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Ego sum Nemo

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Ego sum Nemo - Nicholas Faina

    Nemo

    Copertina

    IMMAGINI DELL'INSERTO: copyright © Nicholas Faina

    Libro pubblicato a cura dell'autore

    Ego sum Nemo

    ANNO 2019

    A chi non ha paese, bandiera .

    Il dottor Michelis ha detto che devo annotare tutto. Ho sempre odiato scrivere, lo trovo come dire, troppo profondo. Cosa dovrei poi annotare? Un diario stupido e senza senso da rileggere al mio ritorno? Non sarò mai famoso per questo, né lo voglio essere. Lui dice che potrà aiutarmi a trovare le mie radici: patetico. Questi dottori vogliono curare ciò che non hanno mai provato sulla propria pelle, povero Michelis, in fondo è sempre stato bravo e disponibile con me. Certo anche io non sono stato un cattivo paziente, ce ne sono certi che urlano, gridano, insultano, ho sentito di alcuni che lanciavano oggetti o mordevano, poveri psicologi, sopportare tutto questo.

    Dovrei cominciare a scrivere quindi.

    Da dove iniziare? La mia vita? La mia storia? Uhm, forse no, troppo complessa. Non ho mai capito l'autobiografia, quella scritta dalla persona stessa: che senso ha ricordare il proprio passato? Io non vorrei mai rispolverare eventi di venti o trenta anni fa, che senso avrebbe? È un po' come ammettere a se stessi di aver vissuto una vita impropria, incerta, incompleta. Dovrei evitare di iniziare dagli albori, dalla mia nascita, ma alla fine è proprio questo lo scopo del mio viaggio e forse della scrittura. Da dove vengo? Chi sono? Ecco, dovrei iniziare da qui, ogni cosa ha un nome certo, proprio, l'identità.

    Mi chiamo..O forse sono? La prima sembra un po' scolastica, la seconda presuntuosa. Cosa mi consiglierebbe il dottor Michelis?

    " Per tutto il suo viaggio scriva, annoti o semplicemente scarabocchi un quaderno, un foglio, degli scontrini, così da ricordarsi pian piano le mete che tocca, il tragitto che fa ed infine chi realmente è; sembra un'attività stupida lo so, ma vedrà che i risultati si vedranno strada facendo, abbia fede e buon viaggio".

    Avrà ragione? Iniziamo.

    Dunque, non so se dovrei fare una prefazione o salutare il mio pubblico, sarebbe come parlare con me stesso ed accentuare il mio status di pazzo, ma se proprio devo essere galante, molto piacere! Chi mi conosce -intendo i miei pochi amici e il dottor Michelis- sono soliti chiamarmi Nemo: forse è il mio vero nome, forse mi è stato assegnato da qualche famiglia affidataria dalla grande fantasia o cultura, può darsi che ce lo avevo stampato in faccia o attaccato al primo vestito con un'etichetta, fatto sta che questo ho avuto e questo devo tenermi. In nomen omen, i latini avevano sempre ragione. Ora che tutti sanno il mio nome dovrei presentarmi fisicamente, ma questo lo evito perché non sarebbe di buon gusto descrivermi con molto disprezzo, anche se lo penso, meglio tenerselo per se stessi. Mi limito a dire che sono giunto all'età modica dei quaranta e non so se sono nel mezzo del cammin della mia vita, potrei vivere fino a domani o morire a cent'anni, quello che per il momento mi interessa è non aver malattie rilevanti o grandi fastidi dovuti alla vecchiaia, diciamo che non sono un uomo di bell'aspetto -non mi reputo tale- ma perlomeno sono in buona salute.

    Ed ora le note dolenti.

    Mi ricordo di aver studiato un pittore francese, forse era espressionista, forse no. Aveva passato un tempo enorme a Tahiti credo per conoscere non so cosa, non aveva niente da fare. Ciò che mi ricordo del tipo è questo quadro molto intrinseco e particolare, visibilmente ambientato nei luoghi in cui viveva; quel titolo, fu il titolo dell'opera che mi sconvolse, fu come rivedersi immerso in quelle piccole frasi. Chi darebbe una frase come titolo di un'opera? Un espressionista per l'appunto, la manifestazione dell'interiorità umana, devastante, toccante, diretta. Alla prima domanda ho cercato di dare una risposta soddisfacente seppur il mio nome rappresenti di per sé un paradosso geniale, un significato latino particolare: nessuno. Sarebbe quindi giunto il momento di dichiarare da dove vengo e qui il racconto si interrompe.

    Non conosco la mia provenienza, so solo che la mia radice non è italiana, lo urlano i miei capelli, il colore dei miei occhi e la mia carnagione particolarmente scura. Il mio accento però potrebbe ingannare quasi tutti, parlo davvero male ma un nazionalista salentino potrebbe ammettere il contrario. L'unica cosa che per certo so è che il traghetto attraccato a Bari veniva da Durazzo, Albania, ma non credo di essere albanese: ne ho visti alcuni muoversi in città e da come parlano, da come si vestono e da come pensano non credo di appartenere a quella etnia.

    La mia prima mamma adottiva, barese come quel calciatore matto che prendeva in giro tutti, mi diceva sempre che l'unica foto presente nel centro di accoglienza immigrati era quella di un piccolo fagotto avvolto in molte coperte e protetto da quasi tutto l'equipaggio, fu amore a prima vista. Non era una persona cattiva, l'ignoranza influiva un po' sulle sue scelte, ma seppe volermi bene, forse mi rivelò la verità troppo tardi, nell'età adolescenziale, si sa, tutti vanno in crisi.

    Credo che la mia sfortuna fu non avere ancora diciotto anni e ovviamente, scappare di casa senza motivo e senza meta: dove siamo diretti? Quel pittore aveva capito già tutto. Bene, se c'è una fuga c'è chi insegue ed è ben immaginabile che le forze dello Stato non siano state cosi sorprese dell'incarico, fatto sta che alla vigilia del mio compleanno cominciarono i guai o per meglio dire, il naufragio. Assistenti sociali, volti nuovi, volti sorridenti. La mia vecchia madre, un volto ferito colmo di vendetta, si credeva davvero la mia madre biologica. Mi rincuorava il fatto di non essere il solo, c'erano ragazzi della mia età ed anche belle donne più grandi di me, ebbi l'opportunità di conoscerle e fare nuove esperienze, farmi degli amici, sentirmi un po' in famiglia in piccoli termini, diciamo. Comunità è un nome molto brutto e la maggior parte degli italiani lo connota a persone -ragazzi- cattivi senza sani principi, eppure lì sono cresciuto, lì ho scelto di vivere la mia vita ed è stato proprio lì che ho incontrato i pochi amici che oggi mi chiamano col mio vecchio nome, l'originale.

    Il fatto di sentirmi parte di una famiglia derivava dall'etnia che risaltava nella comunità, sembravamo tutti parenti, tutti fratelli o cugini ed era come se un unico barcone ci avesse scaricati tutti nello stesso porto, eppure avevamo storie diverse e completamente discordanti tra loro: c'era Florin che sapeva di essere rumeno ed era arrivato con un camion nascosto non so dove, aveva il mio stesso colore di carnagione ma un accento tipico settentrionale, non indagai mai il perché. Vania invece era bionda, alta, occhi color ghiacciaio, sapeva benissimo di essere nata in Ucraina ma era cresciuta in Russia, per poi essere trascinata in Italia per la prostituzione. Sognavo di fare l'amore con lei tutte le notti, aveva la camera vicino alla mia e certe volte lasciava la porta socchiusa, forse era una forma elegante di invito, ma non ne approfittai mai. Avrei dovuto. Pijatam, uno dei migliori amici che abbia mai avuto veniva dall'Albania, e fu grazie a lui che capii di non essere albanese: aveva dei tratti somatici simili ai miei ma il suo sguardo era più profondo, più penetrante. Veniva da Tirana e si ricordava ancora il nome del traghetto che lo aveva spinto fino ai confini italiani. Fu lui che mi raccontò l'atrocità di quella tratta e la famosa leggenda delle anime parlanti nel mezzo dell'Adriatico.

    Potrei continuare all'infinito nella descrizione dei particolari della mia infanzia, ma il dottore mi ha detto di non soffermarmi troppo. Io mi chiedo come faccio a scrivere dell'oggi se non racconto il passato? Quel pittore faceva precedere la domanda da dove veniamo a dove siamo diretti ed anche in quel caso, senza la prima -fatidica domanda- nulla avrebbe avuto senso.

    Chi siamo? Chi sono? Tutti in quella comunità conoscevano a memoria o comunque con abbastanza ricordi la loro etnia e il loro trascorso; erano arrivati in Italia con le proprie gambe camminando senza sostegni ed erano ancora legati alla propria lingua. Io no. Ero quello che parlava italiano come un madrelingua, pur non essendolo, ero quello che da più tempo soggiornava nello stivale e l'unico tra l'altro ad essere stato convinto della propria italianità. Non c'era peccato in questo, tutti sentivano la propria nazionalità tranne me, chi ero io? Da dove venivo?

    Qualcosa mi legava a quei luoghi, sempre lo seppi. Comprendevo il rumeno, ma non sapevo parlarlo, riuscivo a intendere il significato dell'albanese una delle lingue più misteriose e complicate dell'Europa, tuttavia nessuno me l'aveva mai insegnata. Uno dei tanti assistenti sociali del centro diceva sempre che avevo un dono, che Dio mi aveva dato questo dono, ma per quanto mi riguarda, se proprio si doveva disturbare il sommo capo, credo che l'unico dono che mi abbia dato fu quello di farmi nascere in quei luoghi, i Balcani.

    La realtà della comunità è ben visibile al mondo esterno, per i normali noi siamo dei semplici figli di sfollati, chi senza un genitore, chi senza un cane, chi senza un soldo. Eppure, anche su questo ci sarebbe da ridire, molto da ridire. Il mondo esterno influenzato da una cattiva informazione ci vede come una delle piaghe dell'antico Egitto e non fanno altro che evitarci, in qualsiasi luogo andiamo.

    L'estate andavamo tutti insieme -eravamo una trentina- al mare, accompagnati come di consuetudine da assistenti sociali e volontari molto giovani. Io ero ormai insieme a Pijatam e Vania sulla soglia dei vent'anni e tutti insieme più che andare in vacanza, andavamo ad aiutare i nostri fratelli, i piccolini della comunità perché ormai la nostra famiglia era quella. Ci confrontavamo spesso, esortandoci a fare una vacanza da soli, perché lo meritavamo e ci eravamo anche organizzati, ma al momento della prenotazione tutti e tre, guardandoci negli occhi decidevamo sempre di annullare il tutto, forse per paura, forse per amore, forse perché quella era diventata la nostra casa.

    Gli sguardi dei normali non posso dimenticarli, è un tatuaggio invisibile che ti marca il cuore e nonostante tu cerchi di dimenticare e lasciarti alle spalle quegli eventi, ogni qualvolta incontro un volto strano che mi fissa, ricordo quei tempi delle vacanze nel litorale Adriatico. Eravamo tutti ragazzi ed i ragazzi non hanno colpa, la maggior parte neanche malizia, ma i genitori li tenevano a seria distanza da noi, io osservavo tutto da lontano -non giocavo più con secchiello e paletta- ed ogni volta era la solita storia: i nostri bambini si avvicinavano e quelli dei normali si allontanavano impauriti, qualcuno anche piangendo. In quel momento si avvertiva la profonda cattiveria umana e l'inconfondibile ingenuità fanciullesca.

    Edmund era uno dei bambini più piccoli, polacco di origini rom ed aveva un sorriso inconfondibile, emanava felicità a tutto spiano, consolava gli altri, compresi noi adulti, era la perla della comunità e tutti lo amavano. Uno di quei giorni nella spiaggia, con il secchiello pieno di acqua vide un bambino normale in seria difficoltà nella costruzione di un castello di sabbia e con molta ingenuità si avvicinò. Lo aiutò e i due sembravano andare d'accordo -tutti amavano Edmund- ma quando il padre del normale percepì da lontano la situazione più innocua del mare calmo, si precipitò con molta violenza strappando il bambino dalla sabbia gridando la peggior parola per chi vive in una comunità: Vattene dai tuoi simili, bastardo.

    Ora, non fu la parola, né il suo sguardo feroce, ma quello di Edmund a disintegrare le nostre anime: si voltò prendendo il secchiello ancora pieno di acqua e ritornando da noi testa china verso la sabbia cocente, nascose le lacrime nell'abisso della sua anima e da quel giorno il suo sorriso irradiante scomparve, chissà dove sarà ora, chissà se lo avrà ritrovato quel sorriso splendente..

    Non devo dilungarmi.

    " Bastardo" un termine terrificante, mi ricordo ancora la suora che ci leggeva la Bibbia, anche Dio malediva chi trattava male i genitori definendolo bastardo, ma non era quello il nostro caso, il caso della comunità.

    Tutti avevano dei genitori, morti o vivi, tutti sapevano le proprie origini e tutti conservavano il cognome del proprio padre e i ricordi puerili della propria madre, tutti tranne me.

    Nemo.

    Condividevamo tutti lo stesso dolore, quello di avere perso o stare lontano dai propri genitori, ma nel mio caso si trattava di un dolore orfano. In fondo ero nato in quell'Europa dell'est ma cresciuto a Bari, chiamavo mamma quella signora di Bari vecchia che mi aveva cresciuto a suon di panzerotti e orecchiette, e se non avesse distrutto le mie certezze, a quest'ora le avrei voluto bene, a quest'ora mi sarebbe ancora mancata. Non ero il figlio di nessuno, tutti abbiamo dei genitori ma semplicemente non conoscevo, non avevo mai conosciuto i miei. Non sapevo che lingua parlassero, da dove venissero e se fossero ancora vivi. Mi sentivo figlio del vento, spinto dalla volontà di vivere senza un passato che mi legasse a qualcosa o qualcuno.

    In molti durante i primi anni del mio soggiorno alla comunità si erano preoccupati del mio stato psicologico, ero appena fuggito dalla mia casa e mi avevano ritrovato in un stazione vicino Lecce quasi senza forze e in una forte crisi emotiva, ma mai accettai di vedere uno psicologo pur avendogli -a mia insaputa- confessatogli quasi tutto della mia vita. Lorenzo Michelis fino a quel momento era stato un semplice amico che aveva quasi la mia età, sapevo che si era appena laureato e faceva del volontariato nella comunità; avevamo stretto un gran rapporto, ci confidavamo proprio tutto e passavamo delle serate insieme dividendoci anche la mia stanza e qualche ragazza. Poi un giorno comune, quando entrambi avevamo superato la ventina da un po', mi fu rivelato che quello era il dottor Michelis e non semplicemente Lorenzo Michelis. Avrebbe dovuto innervosirmi e distruggere il mio rapporto con lui, ma quella scoperta non fece altro che alimentare la nostra amicizia. Ormai, parlavamo come amici ed anche se sapeva benissimo che tra uno psicologo e il suo paziente non dovesse esserci empatia, continuava a confessarsi e farmi confessare, eravamo quasi migliori amici, ma io preferivo chiamarlo dottor Michelis.

    Da dove veniamo? Da dove vengo?

    Fu proprio Lorenzo a propormi questo quesito con l'intensità che merita. Era davvero incuriosito dalla mia storia e dalla vaghezza dei miei ricordi: l'unica foto che avevo della mia infanzia prima dell'Italia era quella che mia madre adottiva aveva conservato nel suo portafoglio: un piccolo bambino avvolto da coperte blu scuro portato in braccio dal capitano del traghetto e i suoi ufficiali, il figlio del mare.

    Nessuno conosceva le mie generalità e qualcuno credeva che fossi stato concepito durante la traversata, tutto era un dubbio profondo poiché quel traghetto era rimasto bloccato nel mezzo dell'Adriatico per alcuni giorni a causa di un grosso problema tecnico ed era impossibile fiscalizzare tutti i passeggeri del traghetto. Ancora erano i tempi d'oro delle traversate clandestine dall'Albania, ora tutti hanno un identificativo nel proprio biglietto.

    Quella notte morirono molte persone a causa della traversata e delle condizioni pietose in cui viaggiava il traghetto; molti passeggeri si erano ammalati durante la tratta ed alcuni si erano buttati dal ponte in preda alla disperazione o semplicemente morti di fame sete e quant'altro. Iniziavano in contemporanea le prime discussioni in merito alla clandestinità e immigrazione extracomunitaria e la sensibilizzazione era appena nata nello stivale italiano, correvano gli anni ottanta, perlomeno così è scritto nella mia carta d'identità ma dubito di essere nato nel traghetto, suonerebbe un po' troppo leggenda quando invece sono una comune persona.

    Mia madre, sempre di lei parliamo, mai si preoccupò delle mie origini, anzi, per non so quale conoscenza seppe registrarmi come italiano fin dalla nascita, nato a Bari, la barzelletta più folle che conosca, ma allo stesso tempo la fortuna più grande che ebbi. Mi possedeva, si era tecnicamente inventata la mia data di nascita e la mia nazionalità quando ben sapeva che non ero nato in territorio italiano; avrei accettato il fatto di essere stato adottato, ma non in quelle condizioni, fu come scoprire di essere nato due volte, una per finta perlopiù scritta nel mio documento ufficiale.

    Non ero nato a luglio, non ero barese né italiano, non ero stato concepito durante il mondiale in Spagna -come mia madre raccontava- tanto meno ero stato lasciato davanti alla sua porta la notte dei festeggiamenti. Una sola cosa era veritiera ed infrangibile: il mio nome. Nella famosa foto a bordo del traghetto ancora in fasce, portavo una sorta di etichetta con scritto un nome ambiguo per la cultura balcanica: Nemo. E così mia madre mantenne la mia misera identità, almeno per questo le sono devoto, ma credo fu perché amava così tanto quella foto che mai l'avrebbe gettata e in quella foto c'era il mio nome, il mio destino, in nomen omen dicevano i latini.

    Se avevo la certezza di un nome però, non l'avevo degli autori: ero stato chiamato così dagli ufficiali o dal capitano? Erano stati i miei veri genitori? Aleggiavano mille leggende metropolitane, soprattutto all'interno della comunità. Non servivano troppi appellativi per descrivermi, il mio nome era sufficiente: Nemo, figlio di nessuno.

    Lorenzo era affascinato dalle mie vicissitudini e forse era stata la prima persona che mi aveva ascoltato con il cuore in mano, senza obbligarmi, lasciandomi l'opportunità di dire quello che sapevo -poco c'era da raccontare- per quanto tempo volessi. Delle volte mi dispiaceva non conoscere tutti gli eventi del mio passato, anzi, mi dispiaceva non conoscerlo affatto, ma quella era la mia realtà, la mia condizione, il mio status quo e vivevo così bene nella comunità che non volevo impelagarmi in problemi genealogici.

    Qualche notte però, sognavo i miei genitori. Erano dei fantasmi che si muovevano con leggiadra velocità all'interno di quella nave o traghetto che sia e l'immaginavo sempre di spalle con il capo coperto nella profonda notte stellata: due ombre proprio come me.

    Molti sogni si susseguirono e ognuno era ambientato nello stesso luogo, facile da indovinare, l'unico ricordo indotto era quella foto che ora stava nel mio portafoglio, c'era il ponte della nave, alcune macchine che uscivano e quel capitano ancora con il cappello bianco e pulito. Sembrava troppo ovvio, a mio parere, che sognassi i miei genitori sulla nave, non sarebbe potuto essere altrimenti. Ero estremamente convinto che tutto dipendesse dalla foto che tenevo stretto.

    Lorenzo sapeva dei miei sogni e non era l'unico: quando ci riunivamo nel fine settimana, noi della comunità, condividevamo le nostre storie e tra le più misteriose c'era la mia, l'uomo senza storia, l'uomo senza genitori, l'uomo che non sa da dove viene. Pijatam mi prendeva sempre in giro per la mia storia, non che la sua fosse meno bizzarra, ma credeva che la mia testa cercava di dare un senso ad una storia che non conoscevo, forse era così non obbietto, ma che senso aveva? Perché quel sogno, perché quelle caratteristiche?

    Vania era più sensibile e vedeva molta spiritualità nei miei sogni, era sempre stata una persona molto scaramantica e non credeva alle coincidenze; per lei avrei dovuto cercare la verità in quel traghetto, chiederla a quel capitano se era ancora vivo ed infine provare a ritrovare le mie origini. Non discuto la sua posizione, i suoi genitori erano morti quando lei era ancora bambina e questo influiva su tutta la sua personalità. Per Vania l'incontro o per meglio dire il re-incontro era qualcosa di così presente nella vita delle persone che bisognava solo accettarlo. Io non concepivo il concetto. Potevo sembrare insensibile e senza un cuore, anzi in molti mi avevano definito un cuore di ghiaccio ma non sentivo la necessità di incontrare il mio passato, mi bastava quel poco che già conoscevo, ero felice, perché dovevo complicarmi la vita?

    Il sogno nella sua precisa linearità continuava a perturbare le mie notti, soprattutto quando finalmente mi ero deciso ad accogliere l'invito di Vania in camera sua. Sentivo che qualcosa di paranormale stava succedendo nella mia vita e decisi come sempre, di discuterne con la persona più obbiettiva che conoscevo, il dottore Michelis. Non mi avrebbe deluso.

    Mi ascoltò infatti come da protocollo scrutandomi con il suo sguardo perplesso e incredulo, ma alla fine del mio monologo perlopiù frutto di un'improvvisa ispirazione, mi sconvolsero le sue dichiarazioni: Devi conoscere l'ignoto per dargli un volto.

    Che voleva dire? Non lo chiesi.

    Il sogno sembrava tingersi di colore. Dormivo ancora con Vania ma nel collegio non lo sapeva nessuno, queste cose non erano permesse, avevamo una sintonia invisibile e iniziavo a percepire il suo lato introspettivo. Man mano che i giorni passavano il sogno prendeva più vita e si arricchiva di particolari ancora più vividi, ma sempre frutto della mia immaginazione, credevo. Riuscivo a mettere a fuoco sul nome della compagnia, i tratti dei passeggeri si facevano più vividi, addirittura distinguevo alcune lettere dalle targhe delle auto in uscita e il volto del capitano ormai era un volto umano.

    Barba incolta, occhi azzurri, capelli brizzolati lunghi quasi fino alle spalle, sembrava un uomo risoluto dal fisico curato ed alto rigore; sorrideva a denti stretti di fronte un fotografo che urlava esclamando il miracolo e nel momento del flash scoppiettante una piccola anima avvolta tra le braccia del capitano cominciò a piangere disperatamente, in quel momento degli ufficiali si avvicinarono al pargolo cercando di farlo smettere e in lontananza due anime, due fantasmi formati dal fumo proveniente dai motori principali della nave, quasi sembravano girarsi per poi dissolversi nel vento.

    Questo era il sogno ed io, che forse ero il pargolo, continuavo ad osservare proprio dietro il fotografo, come se fossi stato il regista di quella scena, come se il film che ne derivava fosse stato frutto del mio occhio cinematografico o forse come se in quel momento avessi voluto attribuire una storia ad un nome, in nomen omen, dicevano i latini.

    Il dottor Michelis dice che non devo perdermi troppo in chiacchiere, perché allora dovrei scrivere? Chi siamo? Da dove veniamo?

    Quel sogno mi perseguitava giorno e notte, mi sembrava di avere visioni in ogni momento della giornata, vedevo il fumo della nave in ogni nuvola di vapore che proveniva dalla cucina. Dovevo dar un taglio a quella storia e per farlo era necessario rincontrare il passato, proprio come diceva Vania.

    Così un bel giorno presi il primo treno diretto a Bari e senza che mi invitasse -non lo avrebbe mai fatto- vidi quella che era sta la mia mamma fino ai diciassette anni, quella mostruosa personalità che mi aveva denaturalizzato. Non ero andato per vendicarmi o per sfogarmi di un passato nascosto, ma volevo sapere, conoscere, sentire la sua versione. Volevo capire se avesse informazioni utili su quella nave e su quel capitano.

    Non seppe nulla.

    Il nome della compagnia la conoscevo, le fattezze dell'uomo pure,

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1