Bel casino l'amore!
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Info su questo ebook
Adele è giovane, stravagante e un po’ maldestra ed è in fuga dalla monotonia del suo paesino natale. Si rifugia a Roma, dove trova un lavoro, un nuovo amore, e un delizioso appartamento in via Margutta, in affitto a un canone sorprendentemente basso… Quando pensa di essere davvero a un passo dalla realizzazione di tutti i suoi sogni, arriva però l’improvvisa rottura con Riccardo, che la riporta bruscamente alla realtà: lui adesso abita al piano di sotto e vederlo salire e scendere le scale ogni giorno è una tortura. Come se non bastasse, alcuni strani rumori provenienti dalla soffitta non fanno che alimentare il suo stress. Fortuna che ci sono le amiche dalla sua parte, alleate preziose per riconquistare il coraggio e la fiducia in sé stessa. Ed è così che una sera, in punta di piedi, Adele decide di salire in soffitta a controllare… In un saliscendi di gradini e di emozioni, Adele si troverà in balia della più meravigliosa di tutte le avventure: la vita.
Severamente vietato: smettere di sognare.
Perché l’amore, si sa, è un gran casino ma...che spettacolo!
Hanno scritto dei suoi romanzi:
«Un romanzo romantico e spumeggiante che sa scuotere, emozionare e sbalordire.»
Il Messaggero
«Profondo e al tempo stesso divertente, questo romanzo è scritto davvero bene. È stata una vera e propria sorpresa!»
Io Donna
«Che dire? Diverso, emozionante, divertente, commovente. Quando ho letto l’ultima pagina, ho capito che era davvero finito e mi sono sentita persa.»
Elisa Trodella
È nata e vive a Roma. Dopo un percorso formativo umanistico sociologico e varie esperienze lavorative, ha deciso di dedicarsi completamente alla scrittura, affinando una passione custodita da sempre. Innamorata dell’amore, lo racconta nelle sue forme più oniriche e al contempo concrete. Adora gli animali e camminare all’aria aperta, soprattutto tra le montagne a lei così care. Con la Newton Compton ha pubblicato la Love me too series, scritta a quattro mani con Loretta Tarducci, che comprende: Scusa ma ti amo troppo, diventato in poco tempo un bestseller, Imperfetti innamorati e Cioccolata amara.
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Anteprima del libro
Bel casino l'amore! - Elisa Trodella
Capitolo 1
E questo… wow, ha davvero dell’incredibile!
Adele cara,
sono giorni che rifletto sul nostro rapporto, ti assicuro, tanto da farmi scoppiare la testa, e l’unica conclusione a cui sono arrivato è che siamo troppo diversi.
Quando ti ho incontrato la prima volta, ho visto in te la donna che mi avrebbe cambiato la vita, la perfetta compagna di avventure, l’amica e l’amante, colei che mi avrebbe salvato dall’inquietudine.
E invece… povera Adele cara, sono io che ti ho cambiato, rendendoti la brutta copia del capolavoro che vedevo all’inizio, solo perdendomi nei tuoi occhi così sinceri. Occhi divenuti tristi e spenti. Un supplizio per me prenderne atto.
Ebbene, ora che non ti riconosco più, che non so più chi sei, ho voglia di esperire, andare, scappare verso mete lontane, incontaminate, capaci ancora di scuotermi ed emozionarmi.
Ti prego di non giudicarmi un codardo o un disonesto e, anche se potrà suonare strano, falso, o peggio ipocrita da parte mia, per ciò che vale ti assicuro che solo adesso, qui, in solitudine, ho trovato la risposta al malessere che avverto e la spinta emotiva a voler guarire; non ho voluto rimandare, rischiando inutili strascichi e ripensamenti. Sai, lasciarsi, a volte, è un atto di grande intelligenza e generosità.
So che capirai le mie parole, poiché l’ultimo periodo è stato duro per entrambi, e ribadisco che non è stata colpa tua, ma neanche totalmente mia.
È la vita a dividerci. Il destino. L’amore è finito e ora resta solo l’amarezza di esserci illusi per qualcosa che non esiste. Forse esisteva nelle nostre menti, chissà. Ci abbiamo provato.
Ho preso la maggior parte delle mie cose, tornerò a prendere il resto.
Le ciabatte di Lupo Alberto che mi hai regalato puoi tenerle, so quanto ti sono sempre piaciute. Ricorderò con affetto i momenti in cui le indossavi al posto mio e, quando sentirò la tua mancanza, le immaginerò ai tuoi piedi.
Tuo,
Riccardo
Con Riccardo non si era trattato di un vero e proprio colpo di fulmine, ma la vicinanza che ci accomunava ci aveva portato a incontrarci spesso e, una volta rotto l’imbarazzo di scoprirci interessati l’uno all’altra, dopo un invito a cena e un film al cinema… facevamo già l’amore. Mi ero trasferita da pochi mesi nel suo stesso palazzo, a causa di una brutta storia finita male, durata quattro anni e perfettamente in grado di distruggere la mia autostima: Massimo, il massacratore, mi aveva praticamente buttato fuori da casa sua. Ed era stato un autentico trauma, visto che mi ero trasferita a Roma per lui, o meglio, a causa di lui, ragionando con il senno di poi. A Monte Arcobaleno, la mia cittadina natale – un comune italiano nella provincia di Bolzano con poco più di cinquemila abitanti – tanto incantevole e fiabesca quanto monotona e silenziosa, avevo poco più che una madre giovane e, ahimè, ancora inesperta (chissà quando avrebbe smesso di interpretare questo ruolo…), un padre inesistente, da sempre dedito al gioco più che alla famiglia, pochi amici annoiati e una valanga di sensi di colpa maturati negli anni, che proliferavano velenosi come funghi… senza validi o apparenti motivi, più o meno come i tic e le fobie che fanno parte di me. Cioè, diciamo pure che mi possiedono totalmente. Meglio ancora, che pilotano la mia vita.
Dialogare con l’universo attraverso rituali, gesti meccanici e, va bene lo ammetto, a volte convulsi, nella speranza di ricevere in cambio null’altro che sicurezza, gioia e serenità, è uno dei tanti metodi che adotto per sfuggire a una realtà che poco mi piace e ancora meno mi convince. D’altronde ognuno ha la sua, e la mia è… ehm, questa.
Scagli la prima pietra chi è senza peccato.
A soli vent’anni, seguendo le orme di mia madre, la mia carriera di aiuto-cuoca, o meglio di sguattera in cucina negli alberghi più o meno esclusivi del Paese, era già ben avviata e, quando conobbi su internet Massimo, un ragazzo di buona famiglia già autonomo e indipendente, non ci misi molto a immaginarmi libera di scorrazzare tra le strade allegre di Roma insieme a lui, senza troppi pesi e attività gravose sulle spalle così, quando mi chiese di raggiungerlo, ero praticamente già lì.
Avevo messo proprio tutto in valigia, compresi i sensi di colpa, che di botto si erano quadruplicati con un’impennata da premio Nobel. Mia madre salutandomi mi aveva detto: «Ti aspetto…», abbassando la voce quel tanto che bastò a renderla ai miei occhi ancora più debole e fragile di sempre, e non compresi subito la premonizione nascosta dietro quella frase.
Comunque ero partita, e sorvolerei sull’ansia che mi aveva attanagliato per l’intera durata del viaggio in treno, sull’infinità di gesti scaramantici che avevo dovuto esibire in pubblico e sul numero di posti che avevo cambiato per sentirmi meno in pericolo. Di cosa? Di vita, mi sembra chiaro!
Ma la voglia di raggiungere Massimo, scrollandomi di dosso tutto ciò che mi aveva paralizzato per anni, era tanta, così avevo vinto parte delle mie paure ed ero giunta a Roma.
Mi ero data subito un gran da fare e, poco dopo, ero stata assunta in una società di ricerche di mercato, dove non dovevo far altro che tediare al telefono una quantità innumerevole di individui malcapitati, memorizzati sul monitor del computer di fronte a me, sottoponendo loro questionari lunghi una quaresima a cui dovevano rispondere punto per punto. Lavoravo dalle 9:00 alle 16:00, con una sola pausa di mezz’ora; la paga era appena sufficiente ma, dividendo le spese con Massimo – avevo insistito io perché fosse così – mi permetteva di condurre una vita dignitosa.
In pratica passavo una buona mezza giornata a farmi mandare a fanculo al telefono, con inconsulti e irragionevoli picchi di euforia le volte in cui ciò non accadeva, e poi tornavo da lui, l’uomo che a mio parere mi aveva salvato da una vita già scritta. All’inizio mi era sembrato un buon compromesso, ma di vita ne stavo scrivendo un’altra e, trovandomi solo al primo Capitolo, non ne avrei conosciuto i cavilli rovinosi fino a quando non mi ci fossi ingarbugliata dentro.
Le familiari montagne verdi di Monte Arcobaleno, che con il clima più rigido si ricoprivano di un manto lucido e bianco, erano state spazzate via da imponenti monumenti cerulei così come, poco alla volta, il carattere bipolare di Massimo – se per bipolare intendiamo una persona che dapprima ti supplica di andare a vivere insieme a lui e in seguito non smette di rinfacciarti di averlo realmente fatto – aveva ucciso il mio entusiasmo. E fine di tutto. Niente più sesso, niente più sogni. Niente di niente. Ci eravamo trasformati in una coppia di coniugi ultraottantenni, senza avvertire nemmeno la serenità e la solidità del trascorso insieme che dovrebbe naturalmente conseguirne.
Forse ero stata troppo invadente quando mi ero catapultata nel suo mondo, troppo entusiasta, troppo giovane, troppo dipendente, troppo poco con i piedi per terra, ma gli avevo regalato senza riserve i miei vent’anni, con tutto ciò che di bello e puro spontaneamente custodivano, con la forza e l’umiltà dettati dalla semplice riconoscenza per avermi accettato nella sua vita, quasi fossi un animale raccolto dalla strada.
Quando mi lasciò, telefonai in lacrime a mia madre… E lei mi disse senza esitazione: «Ti aspetto…». Mentre con tutta probabilità era indaffarata a fare altro, considerando il suono strozzato della sua voce, tanto che la immaginai intenta a trattenere il telefono tra spalla e collo.
In quel momento il suo mondo complicato, a volte fin troppo semplice, mi piombò di nuovo addosso come un corpo morto, investendomi di ansia, paura, malessere e, nonostante non facessi altro che alimentare nuovi e potenti sensi di colpa, giurai a me stessa che mi avrebbe atteso invano.
In quegli anni ero andata a trovarla poche volte, quelle che bastavano a concedermi un po’ di respiro dal rimorso per averla davvero lasciata. Lei… e la sua depressione, spesso interrotta da eccessi di ogni tipo, che non facevano altro che alimentare la mia costante voglia di scappare. Natale, Pasqua, qualche giorno e via: meglio rigorosamente sola, ma di anno in anno sempre più avvilita e rabbiosa, nello scoprire che nulla era cambiato.
Mi rimboccai ancora le maniche e per fortuna fui ospitata da Marta per parecchi mesi, la mia collega di lavoro e inaspettata migliore amica conosciuta a Roma, più grande di me di qualche anno, più solida e stabile di immutabili ere geologiche. Un giorno, quasi per caso, atterrai come un uccello migrante nella vita e nel palazzo di Riccardo, con un cucciolo di cane stretto al cuore, che Marta stessa aveva infiocchettato e incaricato di farmi sentire speciale e di amarmi, sempre, colmando i miei vuoti sconfinati.
Nel frattempo i miei contatti con l’altro sesso erano stati fiammiferi accesi all’improvviso e spenti con il primo alito di vento. Soddisfacenti comunque. Adoravo fare l’amore; in quei piccoli gesti, effusioni, baci, scorgevo sempre una luce in fondo al tunnel. Quella luce che ti dice: sei arrivata, lui domani potrebbe richiamarti. E Riccardo mi richiamò. Lo fece solo per ovviare all’imbarazzo di doverci incontrare nell’androne del palazzo o in fila al supermercato? Me lo chiesi.
C’è di vero che la luce che avevo scorto era molto flebile e, infatti, non ero arrivata proprio da nessuna parte, anzi, era stato Riccardo a trasferirsi da me dopo solo qualche settimana di frequentazione, abbandonando finalmente il tetto dei genitori. Che per inciso corrispondeva al nostro pavimento.
Riccardo era un uomo di trentaquattro anni e, nonostante non fosse perfetto (anteporrei la parola affatto
a perfetto
) dimostrava di volermi bene, aveva un buon lavoro e sessualmente era soddisfacente. Che dire, abituata al peggio, in alcuni momenti mi sembrò addirittura un regalo divino.
Ma questo solo all’inizio e, soprattutto, solo di giorno.
Negli ultimi tempi, quando la notte avvolgeva la città con la sua coltre scura e pesante, il demone della noia si impossessava di lui, rendendolo irrequieto, instabile, inaffidabile, irriconoscibile.
Dopo due o tre telefonate e una rapida organizzazione, spariva nel buio discolpandosi con la frase più gettonata dagli idioti: «Guarda che la convivenza non è una prigione!».
Quando non mi eclissavo in bagno a piangere, avevo anche la forza di urlare il suo nome affacciata alla finestra, confermando al mondo intero la mia incapacità di suscitare amore, lo stesso amore che invece sentivo di saper offrire.
Il mattino dopo, con l’animo acquietato dal ritrovato senso di libertà, me lo ritrovavo accanto nelle vesti dell’agnellino Fiocco di neve, desideroso di coccole e attenzioni. E io, stupida, gliele davo tutte, soffocandolo di calore, tra le piume della mia ala protettrice.
Se per lui la vita era un gioco, io ero il concorrente antagonista, e dovevo pagare lo scotto di renderlo vincitore. Questo credevo. Di questo mi alimentavo.
Seduta sul letto, maneggiando l’avvilente foglio sul quale ha deciso di firmare il suo addio, non riesco a darmi pace. Lancio uno sguardo a Dante, l’unico amore della mia vita, il mio cane. E oggi più che mai so di cosa parlo. «Mi ha lasciato!», gli dico. E la rabbia nasce dal fatto che sia stato lui a farlo. Come tutti gli altri. E senza troppe remore e spiegazioni. «Me lo ha scritto sullo Scottex!». Insisto a guardarlo, mentre il cuore galoppa all’impazzata. «Certo, stamattina mi ha rivolto parole tremende…». Il mento inizia a tremare. «Io di contro gli ho sbattuto la porta di casa in faccia e… incredibilmente sono riuscita a tenere il punto per l’intera giornata ma…», agito una busta in aria, «rientrando a casa ho comprato pizza, crocchette e supplì!», tuono come avessi riversato nel suo cibo preferito tutte le mie speranze di riappacificazione. «Avremmo trascorso una serata speciale, un sorriso complice, uno sguardo d’intesa e, sul nostro divano, vecchio ma ancora confortevole, sono sicura che avremmo trovato la spinta emotiva per un lungo bacio chiarificatore…», blatero ancora lie-ve-men-te scioccata.
Dante salta sul letto e si accuccia accanto a me assumendo la posizione della Sfinge, con il muso incastrato tra le zampe e la lunetta bianca dell’occhio impegnata ad agitarsi da una parte all’altra. Non è contento dei saluti frettolosi che gli ho dedicato oggi rispetto a quelli di sempre, infiniti e ripetitivi, mielosi fino alla nausea.
«No, non ce l’ho con te…», gli dico consolandolo con una carezza, gli sorrido tiepidamente e rileggo questa specie di lettera impiastricciata, piena di sbavature e parole cancellate. La rileggo due, tre, quattro, cinque, sei volte, fino a quando l’ho imparata quasi a memoria. L’angoscia mi toglie il respiro, inizio ad agitare le dita strisciandole meccanicamente tra loro. Le contraggo, le tendo, le stiro, le chiudo a pugno. Afferro il cellulare e digito il numero di Riccardo, ma riattacco subito. Lo faccio un’altra volta. Stesso epilogo.
No, non gli darò questa soddisfazione
, penso. Afferro ancora il cellulare. No, Adele non farlo, non lo merita, resisti. Resisti, diamine!
. Chiudo gli occhi e li riapro di scatto. Calmati, mi dico. Calmati.
Sì, posso farcela, non morirò adesso, non a causa sua.
La rileggo ancora e adesso lo faccio a voce alta, immaginando di rispondere punto per punto, romanzando quel poco che mi consente di attribuire alle parole di Riccardo un tono stupido e ridicolo, alle mie una punta… giusto una punta di velata freddezza e spassosa crudeltà; debole consolazione. Ridicola iniziativa. Dante scodinzola e allarga le orecchie, pensa sia un gioco.
A mano a mano che mi addentro faticosamente nei sentieri nascosti del mio io più cazzuto, avverto un senso di pace, per cui decido di continuare. Non gli ho mai parlato come sto immaginando di fare e, forse, è proprio ciò di cui ho bisogno adesso. Provare a schernirlo, umiliarlo, ferirlo, mi fa illudere di esserne davvero capace. Se penso che ero rientrata a casa piena di buoni propositi…
L’odore di unto e fritto sprigionato dalla busta che ho lasciato cadere sul letto mi sdegna. Dante non la pensa come me, per cui la allontano dal suo buffo tartufo. «Hai un mare di croccantini, concentrati su quelli!». Glieli indico a terra e lui se ne ricorda, divorandoli con foga, impaurito all’idea che possa farlo prima io. Sospesa in aria, fuori dal mio corpo, mi osservo avvilita. «Adele…», dico, «mi dispiace così tanto…».
Ma continuo a recitare… e arrivo a un punto critico:
Ebbene, ora che non ti riconosco più, che non so più chi sei, ho voglia di esperire, andare, scappare verso mete lontane, incontaminate, capaci ancora di scuotermi ed emozionarmi.
Cerco sul cellulare esperire
, significato: Provare, tentare, sperimentare
.
Dante ruba la carta Scottex, corre in salotto come un razzo e torna da me. Poi riparte usando il letto come trampolino. Intanto scuote la testa e produce quel suono gutturale che negli anni ho ipotizzato significhi: Che figata, quanto mi diverto!
.
Empatia zero, eh!?
«Ridammela!», urlo pensando che presto non resterà alcuna traccia del modo bieco in cui Riccardo ha deciso di mollarmi. Mi interessa solo perché le risposte che sto immaginando mi riempiono di soddisfazione e sì, mi aiutano, anche solo a perder tempo. Chissà cosa farei altrimenti… Immagino nulla di buono.
Inseguo Dante e lo blocco in un angolo. Scodinzola e mi guarda con gli occhi luminosi che amo tanto. Resisto dal fiondarmi a terra insieme a lui e, con calma, gli spalanco la bocca sfilandogli lo Scottex tra i denti. Perfetto, si legge ancora.
Torniamo in camera, entrambi con la coda tra le gambe. Dante si accuccia accanto a me e io riprendo a romanzare. Dunque… ah, sì. Ritrovo la tempra che mi serve.
«Data la tua voglia di scappare verso mete incontaminate, anzi scusa, di esperire…», qui digiterei l’emoticon che assomiglia all’urlo di Munch, «immagino che domani non ti incontrerò per strada a braccetto con tua madre, con due buste della spesa in mano, oppure sì!?».
Respiro. Inspiro. Respiro. Inspiro. Respiro. Inspiro. Proseguo. Blatero. Creo. Rifletto. C’è una parte che mi toglie il fiato, quella che inizia con L’amore è finito…
.
Ma reagisco subito, e bene.
«Parla per te. Stronzo!».
Poi affronto, mettendoci tutto il mio impegno, un più che probabile delirio di onnipotenza:
Sai, lasciarsi, a volte, è un atto di grande intelligenza e generosità.
E infatti vacillo, sapendo di vacillare. Scorro velocemente le emoticon sul cellulare, riconoscendone l’impareggiabile potere evocativo. E riassuntivo.
Qualcuna mi solletica più di altre; mani giunte in segno di lode al Dio buono e giusto, coppa del mondo, medaglia d’oro, faccina verde in procinto di vomitare niente male, punti esclamativi rosso viscere molto di classe (che nel mio caso proclamerebbero l’impronunciabile), dito medio un po’ meno di classe ma di grande impatto e soddisfazione, donnina incredula che alza le braccia al cielo, donnina che si copre gli occhi con la mano, donnina che balla con il mero scopo di confonderlo…
Ok, meglio ringraziare e basta.
«Grazie Riccardo».
E infine arrivo a questo… e questo, wow, ha davvero dell’incredibile:
Le ciabatte di Lupo Alberto che mi hai regalato puoi tenerle, so quanto ti sono sempre piaciute. Ricorderò con affetto i momenti in cui le indossavi al posto mio e, quando sentirò la tua mancanza, le immaginerò ai tuoi piedi.
Tuo,
Riccardo
Noto i pelucchi di polvere danzare nell’aria, illuminati da un flebile raggio di sole, mentre fisso un punto a caso.
«Le ciabatte di Lupo Alberto le sta mangiando il cane e, purtroppo per te, per sentirmi vicino, ti basterà aguzzare l’orecchio nell’intercapedine del bagno di tua madre. Do you remember? È maledettamente collegato alla mia camera da letto. Noi sentivamo lei e lei sentiva noi. Una meraviglia. E, comunque, non sono morta ma, se proprio vuoi ricordarmi, preferisco tu lo faccia mentre ho le scarpe ai piedi».
«Uh, a proposito, in che senso "Tuo Riccardo"? Sei scemo?».
Tronfia e colpita da un raptus di insana euforia, che avverto dal sangue che mi ribolle nelle vene e dal volto che avvampa, apro la casella di posta elettronica e scrivo di getto tutto, ma proprio tutto ciò che decanto a voce alta da almeno venti minuti, assicurandomi che non manchi proprio nulla. Ma proprio nulla. Giusto per essere precisi.
La rileggo e aggiusto qua e là. Fatto. Bene. Ci penso e ripenso, con il dito tremante e teso, fermo a mezz’aria. Resto così un bel po’. Infine invio.
Oddio, cosa ho fatto?
Strizzo gli occhi come fossi in procinto di schiantarmi in picchiata con l’aereo. Avverto il senso di vuoto, l’urlo instancabile che lo accompagna, i capelli che schizzano in alto.
Cado a peso morto sul materasso e trascino Dante proprio sotto il mio naso. Lo spupazzo un po’, poi mi lascio andare a un pianto disperato. Il teatro è finito. Afferro il flaconcino di tranquillante sul comodino e mi ci attacco incauta.
Crollo senza neanche cenare, tra gli odori rassicuranti del mio cane e i battiti incessanti del cuore.
Sarà presto per inviare una mail di scuse? Ci penserò domani.
Sobbalzo di colpo. Rotolo su me stessa, atterro a quattro zampe sul parquet sbiadito e mi accorgo che sono vestita, collo e ossa mi fanno male, sento freddo, ho un cerchio alla testa e, dalla pressione che avverto sul naso, dovrei indossare ancora gli occhiali da vista. Sì, li indosso, constato toccandoli. Non capisco chi sono, dove sono, dov’è Riccardo, e perché sono a terra a pormi domande.
Accendo la luce sul comodino e leggo l’ora sulla sveglia: le 4:15. La spengo e la riaccendo. La spengo e la riaccendo. La spengo e la riaccendo. Riemergo dagli abissi e indosso la vestaglia ai piedi del letto, sforzandomi di ricordare. Santo tranquillante!
Un nano barbuto, steso a cosce aperte e pancia all’aria sul cuscino accanto al mio, ronfa mostrandomi gratitudine per avergli ceduto il posto più ambito della casa.
In un attimo tutto torna e tutto sale. Diavolo di un tranquillante! Quel nano è Dante, il mio bassotto a pelo ruvido, Riccardo mi ha lasciato, trasformando con un colpo di bacchetta il mio presente in passato, è ottobre e mi aspetta un inverno rigido e lungo, sono di nuovo sola in una città che non è la mia e i motivi che mi trattengono a Roma iniziano seriamente a vacillare. Non posso chiamare mia madre perché mi direbbe ancora che mi aspetta, sottintendendo il fallimento mio e suo, per avermi partorita molto giovane, rinunciando a tutto, ottenendo in cambio null’altro che ingratitudine e un giro vita troppo largo con cui non smette di fare i conti da quando ha soli sedici anni. Non posso chiamare in lacrime Marta perché è notte inoltrata, non ho più sonno e sono solo le 4:20 di un giorno che non dimenticherò mai. Un giorno che immagino sarà di merda e, nonostante mostri una naturale attitudine a ritrovarmi in situazioni analoghe, a certi colpi bassi non mi abituerò mai; c’è da dire che questa volta, a differenza delle altre, il sadico che mi ha appena lasciato vive nel mio stesso palazzo e, a meno che la sua voglia di esperire non l’abbia già condotto sulla luna, o un alieno non l’abbia prelevato e ingravidato scambiandolo per la femminuccia che è, sarò costretta a incontrarlo ogni volta che il fato vorrà giocarmi brutti scherzi. Concludo che al peggio non c’è mai fine.
Mi rannicchio sul letto con il busto piegato sulle gambe e le mani perse tra i capelli.
L’incubo che mi ha attanagliato da che mi sono addormentata mi raggiunge come un boomerang: una mandria di elefanti, perfettamente allineati uno accanto all’altro, mi viene incontro da lontano, dapprima a passo lento, infine spedito. La polvere densa della savana si alza nell’aria, creando un’onda terrificante che minaccia di farmi scomparire nel nulla.
Resto pietrificata, nuda e con i piedi insanguinati, squagliati dalla terra incandescente, in attesa del giorno del giudizio. Cielo, è di nuovo quel giorno!
, penso con terrore. Gli elefanti che si avvicinano ne sono la prova inconfutabile. Il giudizio sancisce la mia pena: soffrire per amore.
«Sempre lo stesso sogno!», esclamo lanciandomi in modo teatrale su Dante. «Perché scappano tutti?», insisto a farmi del male, mentre piango ancora.
Se potesse parlare, so che mi direbbe: «Io non scapperò mai, stupida testona!», e non saprei come spiegargli che in questo momento nulla basterebbe a farmi sentire meglio.
Circa quattro anni fa, appena lasciata da Massimo (lo dico come fosse una posizione sociale), mi sono recata allo zoo con Marta, per passare una giornata diversa, godere della natura, lasciarmi stregare da qualche animale buffo o semplicemente fuori dall’ordinario. All’epoca credevo ancora che distrarmi in modo semplice e sano sarebbe bastato a tirarmi su. Adesso non mi aiuterebbe un bidone di assenzio.
Proprio davanti al parco degli elefanti, avevo notato un giovane uomo parecchio desiderabile, che accompagnava suo figlio in un giro di perlustrazione. Era sabato e appariva chiaro che nessuna donna si sarebbe offesa se avessi tentato di conoscerlo. Ricordo il momento in cui mi ero avvicinata timidamente, spinta dalla mia amica, che assisteva beata nascosta dietro un albero, e avevo infilato la mano nel pacchetto di pop-corn del ragazzino. Ricordo il modo coraggioso in cui mi ero sporta oltre il recinto, con le dita dei piedi puntate a terra e il palmo della mano aperto, offrendone un mucchio all’enorme quadrupede, che si era avvicinato curioso, attento a non cadere dalla sua isola di terra e cemento poco distante. Eravamo due creature terrestri che si cercavano consapevolmente. Questa l’immagine nella mia testa.
Ricordo la sua lunga proboscide razzolare con ingordigia nel mio palmo e poi trasportare piccole nuvolette bianche nella sua enorme bocca.
Ricordo lo sguardo meravigliato del padre single, e quello incantato del bambino, ricordo anche il mio, raggelato, occultato dai sorrisi che mio malgrado riuscivo a dispensare, carichi di sensualità e consapevolezza, sicurezza e determinazione. Parole oggi estinte per me; anche impegnandomi nella recita, non otterrei alcun risultato corrispondente.
Ricordo ancora il vento muovermi la gonna e i capelli, le ciglia chiudersi e aprirsi, la mano tesa in segno di vittoria, e le parole che avevo appena finito di pronunciare a quell’umano così straordinariamente maschile: «Che vuoi che ti dica, gli animali mi adorano!».
Da quel momento invece non ricordo più nulla, se non di essermi ritrovata tre metri più in là, a terra, con le mutande in vista, sorda da un orecchio, e ipotizzo con un’aria da imbecille che mi avrebbe accompagnato fino al giorno dopo. Marta mi aveva raccontato che, a un tratto, la lunga proboscide dell’elefante aveva ondeggiato come un lazzo colpendomi a tradimento sulla testa; l’espressione apparsa sul mio volto, mentre volavo contrariata, era stata, appunto, tutt’altro che sexy.
Un gruppetto di persone mi aveva accerchiato sogghignando, qualcuno si era anche preoccupato, mentre Marta, a disagio (lo aveva ammesso, l’infame!), mi tendeva una mano. L’uomo e il suo bambino mi osservavano distanti, atterriti e mortificati.
Nessun dolore fisico mi aveva accompagnato fuori da quel parco, solo vergogna e umiliazione.
Ecco, da allora, per me, gli elefanti rappresentano il nemico. Sono la voce narrante dell’inconscio, che mi puntualizza quanto insignificante e stupida io sia. Sono la prova di come io mal riponga la mia fiducia e di quanto la fortuna urli e scalpiti impaziente lontana da me. Sono la testimonianza attendibile di una emerita figura di merda. E sono sempre nella mia testa, pronti a palesarsi nel baratro di ogni mio fallimento.
O magari rappresentano l’amico sincero, quello che sa dirti in faccia quanto fai schifo. Chissà.
Ora che ci penso nel sogno c’era anche il solito bambino, scuro in volto, con gli occhi cerchiati di nero e i pop-corn stretti al petto, intento a odiarmi per avergliene sottratti una manciata.
Sono stanca. Rifletto sul fatto che dopo quasi sette anni a Roma, sono ancora qui, al punto di partenza.
Inizio a pensare che nessuno al mondo mi amerà mai. Sì, lo penso, e non perché io sia depressa o malata. Anzi, mi sento sana di mente a prenderne finalmente atto, e sarà bene iniziare a farmene subito una ragione, anziché continuare a girarci intorno, inseguendo coriandoli colorati che io stessa lancio in aria, credendo possano ogni volta condurmi in un posto magico.
Devo sbrigarmi, perché nel frattempo continuo a soffocare, nell’aria rarefatta di troppe storie andate a finire male, e la mia corsa rischia di sfiancarmi in un vortice senza via d’uscita, che mi risucchierà nei labirinti di una tubatura troppo stretta, dalle pareti vecchie e arrugginite. Storco il naso all’idea. So essere catastrofica quando voglio. E adesso lo voglio. Mi serve.