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Il nastro di seta
Il nastro di seta
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E-book756 pagine6 ore

Il nastro di seta

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Info su questo ebook

Nel lungo percorso della vita, ci ritroviamo dinanzi a mura alte, insormontabili, temibili. Lottare, in questo amplesso di sacrificio e incertezza diventa fondamentale, per la propria sopravvivenza.
Carla, affronta la vita di petto, agguantandola con tutta la forza di cui è capace, sola, in un quadro esistenziale che la costringe a rialzarsi a ogni caduta.
Non si fida di nessuno. Non ama nessuno.
Ottiene un lavoro part-time per clemenza di Rita, una donna tutta d’un pezzo che gestisce la sua attività di frutta e verdura in una zona commerciale della città di Siracusa.
 
Carla capisce di condividere con un lupo una vita incatenata, affossata dal moltiplicarsi di difficoltà, priva di ogni forma di speranza per un futuro migliore. Proprio come Fenrir, un lupo che non è solo leggenda ma è il figlio di Loki, il manipolatore di verità.
Carla è il suo sangue, discendente diretta del possente lupo, l’unica in grado di liberarlo dal nastro che lo tiene rilegato, il nastro di seta, la pena inflitta da Odino che nella sua incomprensibile saggezza dichiarò i figli di Loki un male per l’umanità.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita20 gen 2023
ISBN9791254582589
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    Anteprima del libro

    Il nastro di seta - Valeria Nitto

    COLLANA MONNA LISA

    Pubblicato da © Pubme - Collana Monna Lisa

    Prima Edizione gennaio 2023

    ISBN:9791254582589

    Editing e Grafica Cover Monna Lisa

    Impaginazione: Paoletta Maizza

    https://pubme.me/monnalisa/

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autrice. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da considerarsi puramente casuale.

    Questo libro contiene materiale coperto da copyright e non può essere copiato, trasferito, riprodotto, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o

    utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’autrice, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto

    esplicitamente previsto dalla legge applicabile (Legge 633/1941).

    Il nastro di seta

    di Valeria Nitto

    Nel cuore e nella mente,

    sempre con te.

    «Dalle rune dei giganti

    e di tutti gli dèi, posso dire il vero,

    poiché in ogni mondo son giunto:

    giunsi nei nove mondi fino a Niflhel in basso,

    presso Hel, dove vanno i morti.»

    (Edda poetica – Vafþrúðnismál - Il Discorso di Vafþrúðnir)

    Personaggi principali

    Carla: ​la protagonista femminile

    Samuele: il protagonista maschile

    Leonardo: il protagonista maschile

    Danilo: migliore amico di Carla

    Susanna: zia di Carla

    Max: padre della protagonista

    Sergio: ​nonno di Samuele

    Rita: madre di Leonardo, titolare di Carla

    Viviana e Marco: compagni di classe

    Prefazione

    È sorprendente come la scrittura fornisca elementi variegati nella sua fonte, trasmettendoti quel brivido che ti dice: ecco, questa è una buona idea.

    Così, in un normale pomeriggio autunnale, nella breve pausa caffè in ufficio, ci si immergeva in una conversazione parlando del più e del meno.

    Caso volle che l’attenzione si spostasse sul fascino dei tatuaggi, sul loro significato, venendo a conoscenza di una delle più importanti leggende norrene.

    Qual è la cosa che desideri di più?

    Verrà chiesto parecchie volte alla nostra protagonista nel corso del romanzo. Che cosa sei pronto a fare, dunque, per placare il senso di colpa che ti accompagna ogni singolo giorno della tua vita?

    Su questa terra, viviamo un’esistenza cruda, troppo diretta, che ci mette dinanzi a mille peripezie, a prove interminabili.

    Talvolta non abbiamo il coraggio di affrontarle, altre ci armiamo di coraggio e le prendiamo di petto. Questi ostacoli, se ci riflettiamo, nonostante la violenza con la quale ci percuotono il cuore, sono anche un incentivo per crescere.

    È nel dolore e nella disperazione che qualcosa cambia dentro di noi, rendendoci più umani, carnali. Come non mi stancherò mai di ripetere: in tutto questo groviglio di elementi che ci sovrasta, c’è sempre Lui, il Padre, che ci tende la mano con trepidazione, attendendo che uno di noi si desti per afferrarla.

    La vita diverrà tutta rose e fiori? Assolutamente no. Perché è così che deve essere. Per qualche mistero incomprensibile alla piccola mente umana, la vita stessa sarà di certo meno pesante da sopportare, volta alla realizzazione di noi stessi, spiritualmente ed emotivamente.

    Sempre, non soltanto nei momenti più bui, vedo quella mano tesa: anni fa decisi di stringerla forte per non lasciarla mai, permettendole di guidarmi, ovunque volesse condurmi.

    La fiducia va costruita ogni giorno, il coraggio anche.

    L’esistenza è fatta di piccoli passi, tortuosi, infidi, che ti fanno cadere, inciampare, ruzzolare per terra, ma è anche pronta a darmi sempre una seconda possibilità, racchiusa in quella mano che non cesserà mai di protendere verso di noi.

    Io ci credo e lo vedo.

    Che Dio vi benedica, sempre.

    Con il cuore

    Valeria

    Prologo

    Quando la vita ti schiaffeggia con forza, ti sbatte a terra, ti riprende e ti lancia ancora verso un dolore più grande, hai solo una domanda che ti frulla nella testa: Perché?

    Rispondere ad un quesito del genere non era facile. Per chi, come me, che aveva il cuore lacerato da minuscoli tagli sovrapposti, non si capacitava di come le cose potessero andare così storte. Una madre che non avevo mai conosciuto, morta disgraziatamente durante un parto travagliato. Un padre, di nome Max, che entrava ed usciva da galera quasi fosse una casa vacanze, una di quelle dove puoi estraniarti dal mondo per immergerti in una nuova dimensione. Solo che quel posto, la prigione, ti faceva uscire più incazzato di prima, per poi ritrovarti a commettere gli stessi identici errori, se non peggio.

    Non avevo fratelli. Non avevo sorelle. Solo una zia che si era appioppata una diciassettenne un po’ dark, un po’ matta, che strillava nel cuore della notte e che faceva di tutto per auto infliggersi tutto il dolore di cui era capace.

    Fin da piccina, mi ero sempre chiesta perché la vita fosse così ingiusta con me.    

    Io, che provavo ad agguantarla, ma mi scivolava. Deridendomi, mi sputava in faccia la realtà. Nonostante avessi provato a cambiare le cose, tutto si rivelò vano.

    Era il mio destino, la mia condanna. Prima, però, di accettare una così spietata sofferenza, avrei fatto l’unica cosa che il fato mi concedeva: dare una seconda opportunità.

    Per tutta la mia esistenza ne avevo cercata una. Non mi era stata concessa. A scuola i rapporti con i miei compagni erano stati pressoché inesistenti. Ero "Nerina", la bambina che portava sfortuna, emarginata da tutti i suoi coetanei.

    Avevo tentato di farmi bella, legando i miei capelli neri e indomabili come il mio essere, ma invano. Mi avrebbero sempre affibbiato quello stupido nomignolo che, uno dei tanti giorni, qualcuno aveva urlato a squarciagola sghignazzando come un matto.

    Quella fu anche la prima volta che diedi un pugno. Il primo ma non l’ultimo.

    Nerina! Aveva urlato, non per i miei capelli, ma per la sfiga che tutti pensavano portassi.

    Quasi me ne convinsi pure io. Solo con l’età presi la vita di petto e, schiaffeggiandola, le rivolsi parole poco carine.

    Ero una vittima di un’esistenza di merda e non avrei potuto fare altro che conviverci.

    Mi ritrovai sola. Allontanai anche quei pochi che tentavano un approccio pacifico. Divenni violenta, irritabile. La fase di ribellione che ogni adolescente avrebbe vissuto a momento debito, mi aveva raggiunto sin dalla tenera età di otto anni.

    Andai però avanti, sbattendomene delle lamentele di mia zia Susanna, dei suoi piagnistei colmi di isteria, con una buona dose di minacce, e continuai a campare come meglio potevo, fregandomene di quello che pensavano gli altri e facendo ciò che volevo.

    Fanculo alla vita. Fanculo al mondo pieno di illusioni e stupide promesse. Carla non si sarebbe fermata dinanzi a niente e se qualcuno si fosse messo in mezzo ai piedi, sarei stata pronta a prenderlo a calci.

    Ogni tanto, però, quando l’ira prendeva il sopravvento e le narici sbuffavano di rabbia convulsa, un tintinnio attirava la mia attenzione. E volgevo lo sguardo verso il ciondolo che portavo al collo da quando ne avevo memoria. Al suo interno, un tesoro. L’unico bagliore di speranza che osavo concedere al mio cuore così sofferente. Lei. Speciale. Meravigliosa. Un angelo che mi aveva lasciato troppo presto.

    Anche lei era stata una vittima della mia sfortuna? Una pedina da eliminare in tutta fretta, affinché il senso di colpa mi accompagnasse fino alla fine dei miei giorni?

    Cos’altro era se non la perla più rara che i miei occhi potessero incontrare prima di ricordarsi che non avrei avuto mai tutto quel calore, quella dolcezza nascosta dietro ogni carezza, quel sorriso che si apriva dinanzi al mio piccolo faccino?

    Non meritavo quell’angelo. Non poteva essere mia. E così, se n’era andata lasciandomi nelle mani di un destino infausto, tessuto di supplizi e atroci tormenti.

    Ed era diventata un piccolo cimelio portato al collo, un ricordo speciale che non avrei condiviso con nessuno.

    Ma anche per l’essere più immeritevole poteva venir data l’occasione, una soltanto, per tamponare i propri peccati. Per avere finalmente nella vita, la possibilità di fare l’unica cosa giusta. Una. Che avrebbe cancellato diciassette anni di apatica rassegnazione.

    «Carla… tu pensi troppo.»

    La sua voce, pesante come il suo respiro, ambigua come il suo aspetto. La natura, di origini sovraumane, non era stata clemente con lui.

    Gli enigmi, scolpiti sul suo petto, ne coprivano gran parte della figura. Simboli archetipi, di un tempo che fu, lontano dalle realtà che l’uomo conosceva.

    E che adesso si esibivano dinanzi a me, l’unica in grado di tenere la testa alta dinanzi a codesta figura.

    Quando la vita, bastarda, ti ha privato di qualunque cosa, di possibili amicizie e percorsi volti alla realizzazione di una donna diversa, non temi più nulla.

    Persino egli, adesso, pareva inghiottirmi con i suoi grandi occhi gialli, con il suo sorriso minaccioso.

    Potevo tentare di fuggire. Potevo avere un ripensamento. Quella era la mia vita, quella di lei era già stata in qualche modo vissuta.

    No.

    Erano pensieri codardi e io fuggivo da una vita intera. Da ogni sguardo che mi derideva, ogni espressione perplessa, ogni parola che mi veniva rivolta quando le cose andavano storte.

    Una volta, una persona che reputavo amica mi disse: «Carla, ogni volta che ci sei di mezzo, le cose vanno male.»

    Non avevo bisogno di sentirmelo dire. Ne ero cosciente. Bastava guardare la mia vuota esistenza per capirlo.

    Adesso, però, dovevo smetterla di fuggire e guardare in faccia la realtà: potevo rimediare almeno a uno dei tanti eventi tristi e sapere che il mio sacrificio non sarebbe stato inutile.

    Dovevo crederlo, o tutto questo non avrebbe avuto senso.

    «Sono qui. E non me ne andrò.»

    Chiusi gli occhi per un istante mentre lacrime incontrollabili scivolavano via, senza che potessi trattenerle.

    Sapevo che era la cosa giusta, ma perché il mio cuore si stritolava in una morsa fatale?

    Il respiro affannoso. La lingua non riusciva più a emettere alcun suono. Era dunque questo il momento che mi avrebbe consegnato alla tenebra? Che cosa mi lasciavo alle spalle?

    Che ne sarebbe venuto al mondo dopo quel gesto?

    Alzai il pugnale per aria, mentre tutto veniva offuscato dalle lacrime copiose che non mi facilitavano il compito.

    Pensavo che sarebbe stato più semplice affondare quella lama fredda nel mio giovane petto. Probabilmente, avrei sentito dolore solo per poco, mentre un liquido caldo avrebbe inzuppato i miei vestiti di rosso scarlatto. Forse delle convulsioni mi avrebbero sorpreso, ma, a quel punto, sarebbe stato impossibile tornare sui miei passi.

    Che cosa significava morire? Cosa si prova con esattezza? Perché il fato mi aveva messo dinanzi a una scelta così ardua, mettendo da parte la mia stessa vita e preferendo la salvezza di un qualcun’altro?

    Vedevo spezzoni di un’esistenza complicata scorrere come un fiume in piena e la sua voce che mi invogliava a compiere il mio destino.

    E se avessi sbagliato mira? Mi domandai. Avrei subìto atroci patimenti, senza possibilità di un secondo tentativo.

    «Ho vissuto a metà» dissi, seppur ero certa che egli non si sarebbe interessato al mio monologo. «Una parte di me non c’è mai stata, parecchie volte mi sono chiesta: se potessi riavvolgere il nastro beffardo di questo destino crudele, che cosa farei?»

    Ripresi fiato, seppur mi risultasse complicato. La gola secca, le labbra asciutte. Il corpo in preda a delle convulsioni.

    «E ora… ora…» in preda all’angoscia, non riuscivo più a distinguere i contorni dell’essere che si mostrò irremovibile dinanzi al mio dolore.

    «Io ho paura» dissi per la prima volta ad alta voce.

    Da quando era iniziata questa storia, mi ero impegnata a mostrarmi come la dura che non ero.

    Mentre rivolgevo parole poco gentili alle persone e li minacciavo di starmi alla larga, il mio cuore perdeva un pezzo. Uno dopo l’altro, fino a sgretolarsi definitivamente. Ora, dinanzi a quell’enorme prova, tentennai un istante.

    Bastava un tentennamento, uno soltanto, per far crollare tutta la buona volontà messa nel convincermi che era la scelta giusta.

    In fondo, alla resa dei conti, chi si sarebbe preoccupato per me?

    Le poche persone con le quali avevo un rapporto, avrebbero pianto per settimane, mesi.   Poi, ognuno avrebbe ripreso la propria vita dove l’avevano lasciata, rivolgendomi un saluto di tanto in tanto.

    È insito nell’uomo reagire. Trovare la forza per rialzarsi e andare avanti. Mettendo in un angolo del nostro cuore tutto il dolore, lasciando spazio a un nuovo inizio.

    Tornai a guardare dritto negli occhi l’essere. Ansimava in attesa di quel gesto. Ciò che bramava, ciò che aveva atteso da secoli.

    «Non preoccuparti» dissi, «per tua fortuna, sono di parola.»

    Andai per colpire dritto in petto, con quella lama che mi avrebbe lacerato per sempre.

    Un urlo. Quasi disumano. Qualcuno mi chiamava con profonda disperazione. Lo riconobbi e schiaffeggiai la mia stupida fantasia che, in un momento così tragico a un soffio dalla morte, s’immaginava cose che non esistevano.

    Eppure continuava a urlare, colmo di angoscia.

    Chiusi gli occhi. Non volevo vedere nulla. Non volevo sentire nulla.

    Capitolo 1

    Due settimane prima

    Chi era? Quella figura che si muoveva nell’oscurità, fuggiva dai miei occhi, dalla mia volontà di carpirne anche un solo dettaglio per definirlo meglio.

    I suoi occhi gialli. Erano l’unico elemento a mia disposizione. Parevano contenere un abisso intero, ricco di misteri e parole celate.

    Quelle pupille, però, non erano umane. Mi terrorizzavano, infilandomi il cuore dritto in gola. Un terribile incubo dal quale non riuscivo a uscire. Un sogno ricorrente che adorava tormentarmi la notte svegliandomi di soprassalto, in una pozza di sudore.

    Forse era il demone dentro di me, che rivendicava tutto il dolore che avevo inflitto nella mia breve esistenza. In fondo, a tutti prima o poi viene chiesto un tributo per le malefatte e magari, quello era l’angelo della morte che giocava con me prima di trascinarmi in un pozzo senza possibilità di ritorno.

    Saltai giù dal letto alla ricerca di un po’ di luce. Tastai il muro e illuminai la stanza. I raggi del sole non filtravano dalle tapparelle, ipotizzai che non era ancora sorta l’alba.

    Fissai la sveglia sul comodino.

    Erano le quattro del mattino.

    Mi gettai tra le lenzuola. Avrei dovuto trafugare dei tranquillanti a Susi, ma l’ultima volta che se n’era accorta, aveva gridato per mezz’ora.

    Odiavo le lamentele ma soprattutto odiavo quella vita.

    Che cosa  ne era venuto di positivo? Presa in giro sin da bambina per via della mala sorte che colpiva chiunque. Si sa che i piccoli possono essere pungenti, ma con me c’erano andati giù pesante.

    Tutto era iniziato un giorno d’autunno quando, giocando con la compagna di banco, scivolò e si ruppe un piede.

    Non vi era acqua, né sassolini per terra. Eppure s’ignorò il fatto che si potesse ruzzolare senza un motivo reale, apparente.

    Bastò un compagno soltanto urlare: «È stata Carla!» per insinuare il seme del dubbio.

    Mi approntai a difendermi ma un altro venne in suo soccorso dicendo che l’avevo spinta con la forza del pensiero. Altri dissero che ero dotata di strani poteri.

    Chissà perché, quando capitavano situazioni così spiacevoli, le maestre rivolgevano la loro attenzione sul gossip del momento. Intervenendo troppo tardi, il danno era stato compiuto e l’autostima di una bambina era ormai intaccata.

    Da quel giorno, ogni cosa che accadeva, era colpa mia. Non ricordavo nemmeno quando dissero per la prima volta "Nerina", nome che su di un gatto avrebbe intenerito chiunque, ma su di me, beh … era diverso.

    Nerina, tradotto nella loro lingua infantile, era collegato a qualche maleficio, a una strega bambina dalla quale era meglio guardarsi.

    Non ero una strega, né possedevo poteri magici. Ma se analizzavo gli episodi più tragici della mia vita, mi convinsi che avevo qualcosa che non andava.

    Così, crescendo, in maniera del tutto autonoma, mi ero isolata dal mondo, soprattutto dai miei coetanei.

    Potevo cavarmela benissimo da sola. Non avevo bisogno di pomeriggi trascorsi con le migliori amiche a far la gara su chi aveva le unghie più belle.

    Vivevo la mia esistenza contando solo su me stessa e se avessi potuto, avrei già preso un appartamento in affitto anziché condividerlo con lei.

    «Buongiorno, Carla.»

    «Susi.»

    «Davvero non vuoi fare un piccolo sforzo per chiamarmi zia Susanna? Almeno oggi che è il mio compleanno.»

    «Non verrò stasera. Lo sai, faccio tardi e poi, non ci tieni alla mia presenza.»

    Susi era la sorella di Max, il padre che mi aveva generato, e si era fatta carico di una bambina combinaguai per evitare che finissi in adozione.

    Con Max, che andava e veniva dalla galera, Susanna era l’unica che avrebbe potuto prendersi cura di me. A modo suo.

    Non avevo grandi regole alle quali far attenzione tranne il classico coprifuoco, giusto per far credere che era interessata alla mia incolumità.

    Sapevo. Dietro a quegli occhi nocciola e lo sguardo sfuggente, l’unico pensiero martellante in testa era: sei solo un impiccio.

    Ma lei non aveva mai espresso questi sentimenti a voce alta ed entrambe preferivamo lasciare le cose come stavano, impegnando le nostre energie nell’unico aspetto che avevamo in comune: saldare i debiti di Max.

    Tutta questa situazione nella quale Max ci aveva ficcate senza nemmeno chiedere scusa, stremava entrambe, additando una buona dose di tensione a quella che creavo con il mio comportamento.

    Sapevo di essere stronza, ma un giorno, avrei chiuso la partita e me ne sarei andata via, senza dovermi preoccupare degli strozzini, gente poco ragionevole, che ci stava alle calcagna.

    Ogni tanto, con poca delicatezza, ci ricordavano quanto fossimo in ritardo sulla somma pattuita e, oltre a dover fronteggiare loro, discutevo anche con Susi, vinta da una stanchezza sulle spalle che non mi dava respiro.

    A volte, dopo il lavoro, anziché tornare dritta a casa, rincorrevo il mare, lanciando un urlo contro le onde impetuose d’autunno. Strillavo come un’indemoniata, fregandomene se qualcuno avesse allertato le autorità.

    Era questa l’unica valvola di sfogo che mi potevo permettere.

    «Al Molo, per le ventidue e trenta. Vedi di non darmi buca, scapestrata di una nipote che mi ritrovo.»

    Feci scemare quella conversazione che già mi aveva stancato e mi recai a scuola. Le immagini di quei sogni continuavano a tormentarmi. Non ero una psicologa, ma da ciò che riportava un blog, scritto da tipi che ne sapevano più di me, poteva essere riconducibile a un trauma, un periodo di stress. E chi c’era più incasinata della sottoscritta?

    Ciò che però non riuscivo a comprendere, era: perché adesso? Non che i miei sogni fossero stati rose e fiori, ma questa … bestia, che si celava nell’oscurità, si era fatta viva solo di recente.

    Avevo deciso di seguire tutti quegli stupidi consigli scritti dai dottori, dove suggerivano di bere una tisana rilassante poco prima di andare a letto, evitare bevande eccitanti o roba simile.

    Non ero riuscita però a debellare quegli occhi che mi dicevano tutto, o quasi.

    Rabbia, dolore, risentimento.

    Qualcosa di ambiguo si celava dietro quello sguardo animalesco. Qualcosa che riversava su di me quel miscuglio di emozioni.

    Una volta, avevo provato a rimanere sveglia, nonostante l’indomani mi sarei dovuta recare a scuola come uno zombie, ma la stanchezza aveva prevalso ed ero crollata in preda alle convulsioni.

    «Di male in peggio.»

    Perché, mi chiedevo ogni giorno, superata la soglia di scuola, ero costretta a ritrovarmi la sua faccia?

    «Non ho dormito molto bene.»

    «No, tesoro. Non mi riferisco a quello. Perché, dico, hai abbinato dei pantaloni verde militare con una maglia blu? È un abominio per il mondo della moda.»

    Gli lanciai uno sguardo colmo d’ira ed entrai in classe. Per mia sfortuna, ed io ne avevo parecchia, avrei dovuto continuare a sentire quella vocina per tutta la mattina, trattandosi del mio simpatico compagno di banco.

    «E tu perché ti fai quei capelli blu, folletto?»

    Danilo si portò una mano sul petto mostrandosi costernato.

    «Affermo la mia personalità. Sempre meglio di quei capelli ruggine che ti ritrovi!»

    Sbuffai, sperando che qualcuno interrompesse l’assurda conversazione. Quando Danilo toccava il settore moda, era meglio fingere un malore e darsela a gambe.

    «Non sono ruggine. Rappresentano l’essenza della madre terra» dissi per nulla seria. Non potendo stare al suo passo, lo deridevo a modo mio.

    Poi lui si metteva il broncio, passava qualche ora senza parlarmi per poi tornare a rivolgermi la sua attenzione come se non fosse accaduto nulla.

    Ero arrivata in quella scuola dopo un’altra espulsione da un precedente istituto, sperando che, se mi fossi seduta in fondo alla classe, da sola, senza che qualcuno irrompesse nella mia sfera privata, sari stata ignorata.

    Danilo però, era un eccentrico folletto blu, si era accaparrato quel pezzetto della mia attenzione, di prepotenza.

    «E poi questa collana, stona con tutto. Dove l’hai presa, al mercato dell’antiquariato?»

    Andò per sfiorare il ciondolo che custodivo gelosamente ma lo bacchettai con dissenso.

    «Va bene, sta’ calma» alzò le mani in segno di resa.

    Non permettevo a nessuno di toccare quel ciondolo. Era la cosa più preziosa che avessi, in quella vita che per me, era stata irta di ostacoli.

    Stavo per dirgli che la prossima volta gli avrei staccato la mano, quando un intenso profumo mi nauseò, portandomi a voltarmi verso destra.

    Oh.

    Avevo quasi dimenticato l’esistenza del nostro vicino di banco. Tutto tirato come se dovesse andare a un party. Quanta esagerazione per venire a studiare!

    Io invece, ero pratica. Anche se Danilo mi definiva un caso da rivedere. Portavo quasi sempre pantaloni larghi e maglie. Niente trucco, i tessuti forse un po’ sbiaditi… ma non erano di moda?

    Mentre questo tipo… lui, era chiaro quanto stesse bene economicamente per via della qualità del vestiario. Con uno così, non ci sarei uscita neanche morta.

    «Buongiorno, Samu!» Danilo mi gridò dentro l’orecchio.

    «Ehi» rispose scostando quel ciuffo che gli avrei tagliato volentieri. Mi ignorò, come dal primo giorno in cui avevo messo piede in quella scuola, circa un mese e mezzo prima.

    A dire il vero, avevamo scambiato al massimo due parole.

    Ero già abbastanza irritata dalla sua presenza, figuriamoci intrattenere una lunga conversazione con lui su quando avrebbe fatto il torneo di tennis o… com’era quello sport che ripeteva fino alla nausea?

    Ah si… difesa personale. A che serviva poi a un tipo così? Non poteva pagarsi una scorta e basta?

    Il professore della prima ora entrò, interrompendo il mio monologo interiore; fui costretta a prestargli attenzione.

    Eravamo giunti a metà lezione quando Danilo, il mio eccentrico amico, mi passò un biglietto chiuso. Sospirai. Dov’eravamo, in prima media?

    Era un messaggio, riportava testuali parole: «Durante l’ora di ginnastica, ti devo parlare.»

    Lo guardai esitante, ma non ebbi il tempo di esigere dei chiarimenti, che l’insegnante mi chiamò alla lavagna.

    Non solo ero distratta, ma ricordavo a malapena la lezione di quel giorno.

    Quando l’insegnante di turno mi rivolse sguardi d’accusa, esprimendo il suo dissenso con uno scuotimento di capo e uno storcere di labbra, avrei voluto mettermi a urlare e dirgli: prova a farlo tu se devi pure lavorare!

    Per quello che riuscivo a combinare, avrebbe dovuto farmi giungere al diploma senza problemi. Invece, la dura realtà, mi faceva scontrare con una media appena sufficiente e un rischio di bocciatura alle porte.

    Susi mi avrebbe rotto le palle per questo. Diceva che dovevo diplomarmi. Perché talvolta insistesse su questo, non mi era del tutto chiaro. Vivere immerse ognuno nel proprio mondo, poteva starmi bene. Avrei deciso io del mio futuro, una volta saldati i debiti di Max.

    «Siamo distratte, stamani?» mi disse il professore. La campanella mi salvò in calcio d’angolo. Tornai al mio posto.

    «Forse dovresti prendere qualche lezione» mi suggerì Danilo, «giusto per recuperare un po’.»

    «Che t’importa?» risposi con una buona dose di acidità.

    Lo vidi scurirsi in volto qualche istante per poi rivolgersi a un altro compagno che esigeva la sua attenzione su questioni di stile.

    Sentii due occhi puntati sopra di me. Era Samuele, il tizio perfettino che pareva essere uscito da una rivista.

    «E tu, che vuoi?»

    Non disse nulla, solo un ghigno che mi avrebbe portato a spaccargli la faccia se non fosse che volevo starmene buona in quell’istituto, per un anno intero.

    Nonostante il chiasso intorno a me, adolescenti che programmavano le uscite pomeridiane, racconti di film visti la sera prima o altre stupidaggini simili, io… continuavo a pensare agli occhi della bestia.

    Com’era possibile che un sogno fosse così reale? Potevo quasi toccarli, sentirli sulla mia pelle. Persino lì, avevo la sensazione di carpirne la presenza, il fiato sul mio collo.

    Volevo che tutta quest’ansia cessasse. Ad ogni incubo, mi sentivo il cuore esplodere, fragile cristallo nelle sue mani, in balia delle acque tumultuose del mio inconscio.

    Forse quel mostro rappresentava Max? Oppure qualche trauma infantile, nascosto in un angolo buio del mio animo?

    La mina della matita si spezzò, qualcosa aveva urtato la mia mano. Si trattava della palla con la quale giocavano a calcio, mi aveva colpita in pieno.

    Fulminai con lo sguardo chi avesse osato tanto. Il colpevole si mise a fischiettare, fingendo di non averlo fatto apposta, ma io sapevo che non era così.

    «Dovresti smetterla di guardare tutti in cagnesco.»

    Samuele si avvicinò recuperando il pallone per poi rilanciarlo ai suoi compagni.

    «Fatti miei. Va’ a giocare.»

    Si lasciò andare al mio fianco.

    Ma che voleva? Lo guardai con sospetto. Lineamenti degli zigomi marcati, labbra pronunciate, un taglio d’occhi un po’ esotico.

    Tutte le tipe della mia classe e adiacenti, ci sbavavano dietro. In realtà non capivo che cos’avesse di speciale o forse, il profumo di denaro, attirava le api come il miele.

    «Che disegni?» e mi tolse il taccuino dalle mani.

    «Come ti permetti?» recuperai ciò che era mio alzandomi di scatto. Decisi di riprendere le distanze, così mi defilai il più lontano possibile da quel ragazzo.

    Mi aveva sempre fissata come se fossi un topo da laboratorio e ora ficcava il naso nei fatti miei?

    Lasciai la palestra mentre una voce alle mie spalle mi rincorreva. Accelerai il passo, sperando che sparisse dalla mia vista, ma seminare Danilo, era pressoché impossibile.                 Così, alla fine, fui costretta ad arrendermi.

    «Anche tu… che vuoi?»

    «Dovevo parlarti, ricordi?»

    E mi sorrise con eccessiva dolcezza, facendomi rabbrividire al solo pensiero di ciò che mi avrebbe chiesto.

    «Sii la mia ragazza.»

    Per qualche minuto volò soltanto una mosca ignara della stramba situazione che si era venuta a creare in quel bagno, al piano terra di un istituto commerciale.

    Il mio cervello esaminò le parole, con minuzia, cercando un appiglio che mi confermasse di aver capito male, ma per come la vedessi, tutto rimaneva invariato.

    Danilo, dopo quelle brevi e intense parole, si strinse il muso, assottigliando ancora di più le labbra. Gli occhi vibravano di luce nuova.

    A questo punto le cose potevano essere solo due. Primo. Il suo comportamento eccentrico e colorato non doveva necessariamente rappresentare la categoria degli omosessuali.

    Secondo. Aveva preso una pallonata e necessitava di una sberla per tornare in sé.

    «Vuoi uno schiaffo?»

    «No, Carla! Perché dovrei?»

    «Perché penso che tu non sia gay.»

    «Oh, porca…»

    Era la prima volta, dalla nostra breve esperienza scolastica che stavo per sentir uscire una parolaccia da quella bocca di rosa.

    Sospirò, inspirò sull’orlo di una crisi isterica e prese a muoversi avanti e indietro tra quelle mattonelle che sapevano di muffa.

    «Guardami» disse infine. «Non ti sembro omosessuale?»

    «Forse un po’.»

    «Mio padre.»

    Non riuscivo a seguirlo. Quella conversazione stava divenendo estenuante. Perché avrei dovuto farmi carico di tutto lo stress che mi trasmetteva?

    «Tuo padre è gay?» azzardai. «Non è la prima volta che sento di coppie che fingono una relazione perché troppo preoccupate del giudizio altrui.»

    Mi poggiò le mani sulle spalle in un gesto determinato. Avrei potuto scansarmi, mandarlo a quel paese e tornarmene al mio isolamento.

    Adoravo starmene per conto mio senza dover pensare all’esaurimento altrui. Al mondo d’oggi, parevano essere usciti tutti di senno. Padri che uccidevano i figli. Figli che un bel giorno diventavano dei serial killer… Eppure, nei suoi occhi c’era quella luce… quella maledetta luce di disperazione che non mi fece far niente.

    Rimasi immobile, mentre le lacrime rigavano quel viso che l’acne giovanile sembrava non osare toccare.

    «Mio padre non lo sa.»

    «Oh.»

    Non ero mai stata brava a coccolare la gente affranta, soprattutto quando si lasciava andare a un gesto così disperato. Gli diedi una pacca sulla spalla, indecisa su quale profilo tenere.

    Quel tipo, il folletto dai capelli blu, si era accaparrato il diritto di sedersi nel banco con me. Di bacchettarmi, ogni giorno, sul mio stile trasandato e incolto. Di scrivermi dei biglietti di nascosto dai professori, proprio mentre cercavo di capire, non senza fatica, la lezione.

    Volevo stare per conto mio. Da sola. Eppure lui… prendeva un piccolo posticino da qualche parte dentro me.

    «Tua mamma… lei…»

    «Certo, ne è consapevole. Insomma non l’ho mai urlato a squarciagola ma penso abbia capito. Ma lui… papà…»

    «Ti preoccupi di non venire accettato?» sbuffai quasi a ridere, trovandola come la cosa più ridicola del mondo. Eravamo pur sempre nel duemiladiciannove.

    «Non capisci, Carla, mio padre è un ufficiale della marina. Dalla disciplina inaffondabile e un odio innato per qualunque cosa esca fuori dall’ordinario. Se lo faccio davvero incazzare, mi spedirebbe in una carriera militare a vita. Additando la colpa ai ricci e ai peperoncini.»

    «I ricci?»

    «Per favore, ti scongiuro… farò qualunque cosa per te. Sarà soltanto per una sera. Poi se ne andrà per altri sei mesi e non dovrò preoccuparmene per molto tempo.»

    Adesso ero io che sospiravo.

    Una voce dentro di me, la stronza, mi diceva di girare sulle mie Converse consunte e sparire a gambe levate; un’altra, quella più docile, mi diceva che in fondo, avrei passato una serata diversa.

    «Dovrai dirglielo prima o dopo.»

    «Lo so» adesso mi scotolava come se fossi una tovaglia da tavola. «Ma non adesso.»

    «Danilo, ma ti sei guardato?»

    «Di me non ti devi preoccupare» disse convinto, «piuttosto…» abbassò gli occhi e percorrendo ogni centimetro del mio corpo tornò a storcere il labbro.

    Alzai l’indice in segno di sfida.

    «È un si?» aggiunse poi con un sorriso.

    «Ho forse scelta?»

    Mi circondò in un forte abbraccio che tentai in tutti i modi di evitare.

    «Niente contatto!»

    «Sei la mia ragazza» mimò un bacio alla francese.

    Era arrivato il momento di defilarmi da tutto quel mix di cuori e marshmallow. La campanella di fine lezione era suonata e, per mia fortuna, mancava poco alla fine di quella giornata scolastica.

    Quando tutti gli alunni si riversarono nel cortile esterno come un fiume in piena, io ero già lontana di qualche passo. Il mio cervello camminava alla velocità della luce, sondando un posto dove poter consumare un pasto veloce.

    Avrei fatto a meno dei mezzi pubblici che, in una città come Siracusa, non potevano definirsi impeccabili e mi avviai a passo svelto, infilando i miei auricolari.

    Le note di Smoke on the Water tuonarono a gran voce, facendomi dimenticare per un istante la curiosa conversazione con il folletto e ciò che mi attendeva ogni pomeriggio.

    Una pioggia sottile iniziava a scendere giù, lentamente. Alzai il naso, notando le grosse nubi grigie che sovrastavano ogni cosa.

    Smoke on the water, fire in the sky

    Smoke on the water…

    Per un istante ebbi la sensazione di aver sentito un ruggito. Sussultai, guardandomi alle spalle. L’immagine di quegli occhi che mi fissavano nell’oscurità tornarono a turbare i miei pensieri.

    Una moto di grossa cilindrata mi passò accanto e io tirai un sospiro di sollievo.

    Stavo permettendo a dei sogni di prendere il sopravvento.

    Portai una mano sul petto. Il cuore pareva esplodere.

    «Buongiorno» dissi entrando in quel piccolo bar all’angolo della strada. Ordinai un pasto veloce e lo mangiai continuando ad ascoltare la mia buona musica.

    Gli schiamazzi di alcuni tipi seduti al bancone sovrastavano il tentativo di isolarmi dal mondo intero. Alzai gli occhi su di loro. Discutevano di qualcosa alla tv. Che cosa c’era di così importante da accendere un’animata discussione?

    Era solo roba astronomica. Una specie di movimento dei pianeti, che destava particolare interesse. Sospirando, inserii nuovamente l’auricolare e fissai la porzione di pasto che mi restava.

    Non era poi così buono. Lo gettai nella pattumiera.

    Il mio stomaco si era oramai abituato a un’alimentazione per nulla in linea con la mia età.

    Io e Susi eravamo sempre di corsa, troppo prese dagli impegni per avere il tempo di dedicarci alla realizzazione di piatti accettabili.

    Ne avevamo passate fin troppe per pensare di metterci il grembiule, sorridere e far finta di essere amiche.

    Fra noi, non vi era mai stato un rapporto di complicità. Le cazzate di Max ci accumunavano. Eravamo più come due carcerati che dovevano scontare una pena, legati insieme da alcune manette, che zia e nipote.

    Anzi, con ogni probabilità, Susi non aveva mai desiderato una nipote, o forse… non come me. Il mio caratteraccio distruggeva qualunque possibilità di intrecciare un rapporto, semmai fosse esistita.

    Sospirai, sedendomi sulla panca sotto l’ombra di un ulivo. Il giorno che sarei potuta fuggire da tutto questo, sarebbe stata una rinascita. Come venire al mondo per la prima volta.

    Non si poteva cancellare il passato, ma potevo tenerlo lontano da me. Questo era il mio sogno, l’unica cosa che mi faceva alzare presto ogni mattina, l’unica cosa che mi faceva pensare che il diploma mi sarebbe stato utile per cercare un impiego dignitoso.

    Sfogliai i libri e un foglio svolazzò sull’asfalto. Era il ritratto di quella bestia. L’accartocciai lanciandola nel cestino più vicino.

    Era arrivato il momento di studiare. O non avrei finito in tempo.

    Capitolo 2

    «Sta’ attenta con quelle arance!»

    Rita era un tipo autoritario, una donna non molto alta, dalla pelle solcata dal tempo e uno sguardo pronto a trasformarti in pietra se solo ti fossi soffermata a fissarla quel tanto che bastava per suscitarne l’ira. I capelli, legati in una coda improvvisata, avrebbero avuto bisogno di essere insaponati per un giorno intero.

    Eppure lei, quella tipa un po’ sovrappeso, che si metteva a sbucciare verdure di buon mattino

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