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L'oro di Pollupice
L'oro di Pollupice
L'oro di Pollupice
E-book648 pagine9 ore

L'oro di Pollupice

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Info su questo ebook

Tre storie, tre epoche diverse.
Tre vicende che si intrecciano in una spirale di eventi che partiranno dai primi anni dopo Cristo, passando per il 1250, fino ad arrivare ai giorni nostri.
Filo conduttore è un tesoro che alcuni legionari romani, dopo essere riusciti a fuggire dai barbari che li tengono prigionieri in Germania, nascondono in un pozzo nei pressi di Firenze mentre tentano di raggiungere Roma.
Nel 1251, nei pressi dello stesso pozzo, si trova la fonderia di Messer Bertoci, incaricato di coniare i fiorini d’oro. Per una macabra casualità, sarà un ragazzo di nome Zino a ritrovare il tesoro. Lui conierà dei falsi fiorini e la sua innamorata realizzerà una splendida natività in oro.
Il lavoro di questi due giovani, insieme ad alcuni gioielli risalenti all’epoca romana, costituiranno il tesoro che sarà esposto nel 2011 a Venaria Reale.
Le amiche Carluccia, Giulia e Roberta riescono a ricostruire la storia di questo tesoro per organizzare la mostra al meglio ma, a poche ore dall’apertura, i gioielli vengono rubati.
Oltre alle tre donne, ad aiutare le forze dell’ordine nella ricerca dei responsabili, ci saranno i figli di due di loro, Lorenzo e Serena. Mentre tra i ragazzi sboccia l’amore, con coraggio indagheranno sul furto, fornendo aiuti indispensabili alla polizia.
LinguaItaliano
Data di uscita6 dic 2016
ISBN9788822874887
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    Anteprima del libro

    L'oro di Pollupice - Mimmo Villa

    casuali.

    PROLOGO

    Foresta Di Teutoburgo - Anno 9 d.C. - Autunno

    L’imperatore Augusto riteneva fosse giunto il momento di annettere la Germania con la Gallia. Desiderava spingere i confini dell’Impero romano più a est, spostandoli dal fiume Reno fino al fiume Elba.

    Il motivo era prettamente strategico, più che di natura economica e commerciale; del resto si trattava di territori acquitrinosi e ricoperti da foreste.

    Il fiume Elba avrebbe ridotto notevolmente i confini esterni dell’impero, permettendo una migliore economia e distribuzione di forze lungo il suo tracciato.

    Capitolo 1 - Dalla Gallia alla Germania

    Le staffette ci portavano ogni giorno notizie poco confortanti. La nostra marcia era troppo lenta e Publio Quintilio Varo aveva assoluto bisogno della nostra legione.

    Eravamo costretti ad abbattere alberi e a costruire dei nuovi percorsi in un fitto sottobosco, solo così saremmo riusciti ad arrivare più in fretta.

    Il terreno sconnesso, in un’infinita foresta piena di acquitrini e paludi ci aveva già costretto a bruciare una buona parte dei carri e del materiale che poteva rallentare il nostro cammino.

    Le ultime informazioni ci dicevano che eravamo a soli due giorni dall’accampamento delle altre due legioni, la XVII e la XVIII.

    Era settembre inoltrato ma la temperatura molto bassa e le piogge incessanti ci riportavano all’inverno.

    Eravamo costretti a camminare nel fango e anche i cavalli erano stati alleggeriti dal peso che trasportavano per far aumentare la loro andatura.

    Il mio nome è Marzio Aulo, centurione romano, alcuni hanno detto, di riconosciuto valore.

    Ho una spiccata predisposizione per la scrittura e per il disegno e per questo devo ringraziare Livio Drusillo, mio maestro a Roma.

    Ero arrivato in Germania dalla Gallia con la diciannovesima legione per appoggiare l’esercito schierato a Teutoburgo al comando di Publio Quintilio Varo.

    Comandavo un manipolo di ottantacinque uomini e il compito assegnatomi non mi rendeva certo nessun merito.

    Ero al comando di quella che si poteva definire la retroguardia e chiudevo le lunghe fila di militari. Davanti a me i soliti profittatori di ogni guerra: civili che contribuivano al buon andamento del campo e che rischiavano la vita nella speranza di poter avere le briciole di un immaginario bottino di guerra, commercianti senza scrupoli che fiutavano gli affari, addetti alla sepoltura dei cadaveri che ripulivano i morti di tutto prima della tumulazione e naturalmente le prostitute.

    La legione si era incredibilmente allungata e non procedeva con la dovuta compattezza, il territorio era cosparso di piccolissimi villaggi difficili da attraversare a causa delle enormi foreste che li circondavano. Era appunto per aggirare questo ostacolo che la legione si era divisa in almeno tre parti.

    I carri con le vettovaglie, i civili e le donne, non abituati a tappe forzate in condizioni impossibili, rallentavano ulteriormente il nostro passo.

    Eravamo stati colti di sorpresa e fatti prigionieri e, dal carro sul quale ero stato messo, contavo trentacinque legionari legati tra di loro uno dietro l’altro.

    Uno dei carri di mezzo era sprofondato in una buca piena di acqua e fango. Ci eravamo attardati a proteggere gli uomini intenti a riparare la ruota e avevamo perso così contatto con gli altri soldati del manipolo, quelli che ci precedevano, guidati da Vicinio.

    Tutto si era svolto in pochi attimi.

    Da dietro gli alberi, ai lati del sentiero che stavamo percorrendo, erano comparsi almeno duecento barbari. Non un grido di guerra, non una parola.

    Avevano il volto colorato, probabilmente con sangue di animali, lunghi capelli e barba incolta.

    Avevano piccoli scudi di legno, guarniti con ossa umane e le loro armi erano corte e maneggevoli: soprattutto scuri e mazze di legno, leggere quanto micidiali.

    Avevamo il passo sbarrato ed eravamo completamente circondati.

    Sapevo dell’accordo con Arminio, principe dei Cherusci, che da qualche anno militava tra gli ausiliari dell’esercito romano e volevo sperare che quelli che ci avevano bloccato il cammino fossero nostri alleati. 

    Amici, sono amici. Sono alleati dei romani. Non usate le armi. Non avevo dovuto gridare per farmi sentire.

    Non abbiate timore e non fate gesti inconsulti.

    Mi ero rivolto ai civili. Dovevo evitare qualsiasi reazione. Non volevo compromettere un’eventuale trattativa.

    Un uomo con una corporatura possente sembrava essere il capo dei nostri probabili amici, aveva i capelli neri raccolti in una lunga treccia, la fronte alta, un naso pronunciato e le labbra erano nascoste da un folto paio di baffi che gli arrivavano fino al mento. Erano gli occhi che calamitavano la mia attenzione: profondi e scuri, capaci di ipnotizzare non solo i suoi uomini, ma chiunque avesse l’ardire di guardarlo diritto in viso.

    Aveva, come quasi tutti, una specie di mantello di pelliccia e dei calzari di cuoio, il piccolo scudo di legno e una mazza nodosa.

    Affrontare la guerra con un equipaggiamento leggero era un vantaggio, visto le nostre difficoltà negli spostamenti.

    Il mio cavallo procedeva lento verso i barbari e, nonostante le mie carezze sul collo, muoveva testa e criniera con un movimento ritmico e nervoso.

    Sembrava sapesse quale poteva essere la sua sorte. Ormai ero a pochi metri dal gigante impellicciato. Aveva alzato la mazza al cielo e due frecce, partite da due lati opposti, avevano colpito in pieno il cavallo che era crollato di colpo a terra, agonizzante.

    Non avevo fatto in tempo a saltare di lato e l’animale mi era rovinato addosso, mi bloccava la gamba sinistra e dava in continuazione dei piccoli scarti che mi provocavano delle fitte terribili sotto il ginocchio.

    Contemporaneamente, l’accerchiamento si era ristretto e potevo leggere la paura sul viso di due delle donne che si erano chinate per aiutarmi a rimettermi in piedi.

    Mi guardavo in giro ed ero contento di non vedere Vicinio. Sarebbe stata la fine per lui e per noi tutti.  Le speranze di trovarmi di fronte degli alleati erano ormai sfumate e solo il rispetto del loro capo impediva a quegli uomini di massacrarci.

    Sono Zemero e comando questi uomini.

    Parlava la nostra lingua e, anche se in maniera stentata, era riuscito a farsi capire molto chiaramente.

    Il mio nome è Marzio Aulo e sono un centurione della diciannovesima legione di Augusto, devo ricongiungermi con Publio Quintilio Varo e con il vostro capo supremo, Arminio.

    Mi mancavano le forze e il dolore alla gamba era insopportabile. Mi ero probabilmente rotto un osso e il peso del cavallo bloccava la circolazione del sangue.

    Le due donne non sarebbero mai riuscite a tirarmi fuori da lì.

    Zemero aveva alzato il braccio imitando il saluto romano.

    Arminio non è più alleato di Roma. Zemero non è alleato di Roma. Gettate le armi e vi sarà salvata la vita.

    Mi sentivo svenire e dovevo prendere una decisione. Che cosa potevo fare se non arrendermi e sperare che il barbaro mantenesse così la promessa?

    Guardavo i civili, impauriti e imploranti, rannicchiati vicino agli altri carri, vedevo l’espressione delle donne, intuivo il pensiero dei miei uomini. Volevo evitare delle morti inutili e scrutavo gli occhi di Zemero per trovare un fondo di verità nelle sue parole.

    Soldati romani, gettate le armi e non opponete resistenza. Zemero sarà clemente con tutti noi.

    Avevo pronunciato queste parole con un filo di voce e il rumore di lance e spade gettate a terra mi dava la conferma di essermi fatto capire.

    Un uomo con barba e capelli biondi si era avvicinato al capo e aveva parlottato per un po’, poi si era rivolto agli uomini più vicini ordinando loro di raccogliere tutte le armi, di metterle sul carro e di controllare che nessuno avesse altre armi nascoste.

    Continuavo a pensare di essere stato un codardo anche se la certezza di aver salvato la vita ai miei uomini e aver dato loro anche una sola possibilità di far ritorno a Roma mi consolava.

    Nales, questo era il nome del barbaro biondo che poco dopo aveva impartito altri ordini.

    Il primo era di spostare il cavallo e liberarmi la gamba. Quattro uomini robusti avevano preso le zampe del cavallo ed erano riusciti a togliermelo da dosso, poi uno di questi gli aveva inferto il colpo di grazia ponendo fine alla sua agonia.

    Il sangue, che aveva ripreso a circolare velocemente nelle vene della mia gamba, aveva raddoppiato il dolore e così avevo perso i sensi.

    Mi ero risvegliato e non ricordavo nulla.

    Era quasi buio, eravamo all’interno della foresta e gli alberi ci nascondevano ai pallidi raggi di un sole autunnale.

    Ero semi sdraiato sul carro e di fianco a me c’era una ragazza, una delle donne al seguito, che mi aveva legato alla gamba due pezzi di legno usando delle strisce di stoffa strappate dalla sua tunica.

    Era carina e giovane, non era una prostituta. Era la figlia di uno dei commercianti al nostro seguito.

    Mi ricordavo di lei. Mi aveva ricucito i lacci del mantello.

    Non avevo ossa rotte. Nel cadere, il mio gambale si era sganciato ed era finito tra la gamba e il fianco del cavallo.

    Il bronzo mi aveva così lasciato un’incisione profonda sotto il ginocchio e potevo vedere un pezzo del suo osso.

    Stranamente non avevo avuto una grossa perdita di sangue, il fango ne aveva fermata la fuoriuscita ma adesso la preoccupazione era anche quella di una possibile infezione.

    Sarebbero bastati pochi giorni per capire cosa mi sarebbe successo. Se ne avessi avuta la possibilità, avrei messo un ferro al fuoco per cauterizzare la ferita.

    Che cosa è successo? Quanto tempo sono rimasto svenuto? Ci sono tutti i miei uomini? Aiutami ad alzarmi, voglio mettermi a sedere. Avevo parlato con un filo di voce ma avevo riempito di domande la ragazza.

    Hai notizie di Vicinio? Si è visto? Come ti chiami?

    Il mio nome è Emilia, appoggiati a me. Ecco, così riesci a vedere i tuoi uomini. Loro ci sono tutti. Quando hai perso i sensi, un gruppo di barbari si è avvicinato ai carri, hanno preso tutte le donne e le hanno trascinate nel bosco. Sono stati momenti terribili. Le ho udite urlare, piangere e supplicare e poi non ho sentito più nulla. Le hanno seviziate e uccise.

    Come puoi dire questo? Hai visto i loro corpi?

    No Marzio. Ho visto tornare solo gli uomini con le mazze e le scuri insanguinate e avevano in mano i vestiti delle mie compagne. Ridevano e urlavano e non è tutto: l’uomo con la barba e i capelli biondi ha ordinato di cercare dei preziosi, oro e monili tra i carri e tra le merci dei commercianti. Non aveva pensato a far controllare i civili e un uomo di nome Venanzio, per difendere i suoi averi, ha estratto un pugnale colpendo a morte il primo dei barbari che gli si era avvicinato.   Emilia aveva abbassato gli occhi cominciando a singhiozzare.

    Zemero non ha esitato un momento e ha gridato qualche cosa ai suoi uomini che si sono abbattuti come furie sui civili romani. Con le loro mazze hanno fracassato i crani di tutti gli uomini, riservando a Venanzio una fine orribile amputandogli a colpi di scure prima le braccia poi le gambe e poi la testa. Hanno ucciso anche mio padre. Aveva stretto i pugni fino a far diventare bianche le nocche delle mani e poi si era chiusa nel suo dolore.

    Zemero aveva mentito. Le donne non avevano colpe, avrebbe potuto farle prigioniere. In quanto ai mercanti, solo Venanzio aveva avuto la colpa di ribellarsi e solo lui avrebbe meritato una punizione. Avevo giurato a me stesso che avrebbero pagato per tutto quello che avevano fatto ai civili romani.

    Mi spiace per tuo padre, era un brav’uomo. Non mi hai detto quanto tempo sono rimasto senza conoscenza.

    Dopo aver ucciso le donne e i civili, quegli uomini hanno frugato nei carri e preso oro, qualche gioiello e delle stoffe che vi erano nascoste. Poi hanno fatto una cosa che non sono riuscita a capire. Hanno immerso in acqua e fango quelle cinghie di cuoio che tengono appese alla cintura e le hanno usate per legare tra di loro i tuoi soldati.

    Adesso che ero seduto li vedevo camminare davanti al carro e sapevo, purtroppo, che una volta che le cinghie di cuoio si fossero asciugate si sarebbero strette ancora di più intorno ai loro polsi, lasciando profonde ferite che si sarebbero infettate con il fango.

    Zemero, dopo che sei stato caricato sul carro, mi ha fatto salire con te e mi ha chiesto di fasciarti la ferita. Con la forza delle sue braccia ha rotto in tre pezzi una lancia per poterti steccare la gamba. È convinto che la tua gamba sia rotta. Abbiamo invertito la direzione ritornando per un po’ sui nostri passi e poi ci siamo inoltrati nella foresta. Vicinio non è tornato.

    Emilia sei stata fortunata a non fare la fine delle altre donne. Grazie per quello che hai fatto per me.

    Dal carro, potevo vedere al di sopra dei guerrieri di Zemero e il mio pensiero andava a Vicinio. Il mio sguardo scrutava lontano in mezzo agli alberi nella speranza di poter vedere anche solo un segno della sua presenza. Sapevo che ci avrebbero seguito e avrebbero atteso il momento giusto per liberarci.

    Ogni sobbalzo del carro mi procurava un dolore acuto. Non ero stato legato e con Emilia tentavo, usando la mia e la sua saliva, di pulire dal fango la mia ferita.

    Stavamo uscendo dal bosco, c’era più luce e c’era un sentiero.

    Il carro adesso avanzava regolarmente e davanti a noi s’intravedevano dei tetti di legno e paglia, c’era del fumo e si sentiva odore di cibo.

    Il campo era enorme. Era un po’ più basso rispetto al limitare della foresta, non si vedeva la fine e poteva contenere almeno quattro legioni romane.

    Al nostro passaggio uomini e donne si rivolgevano a noi con insulti incomprensibili e sputi, riservando a Zemero e a Nales urla di vittoria e di incoraggiamento.

    Si erano create due ali di curiosi che lasciavano la propria occupazione per accogliere i vincitori e deridere i vinti.

    Con mazze e bastoni spingevano i miei soldati fino a farli cadere godendo alla loro difficoltà nel rialzarsi, impediti com’erano dai lacci di cuoio.

    Avanzi di cibo e sudiciume raccolto per terra venivano tirati sul carro ed erano soprattutto le donne a prendere l’iniziativa, avevo notavo che erano loro a essere in numero maggiore e una buona parte era armata con scuri e mazze di legno.

    Questo era forse un motivo per il quale questi barbari non avevano fatto prigioniere le prostitute al nostro seguito.

    L’esigua presenza di uomini mi faceva invece capire che si erano uniti al principe Arminio per lo scontro finale con le nostre legioni.

    Tutto intorno regnava la sporcizia, e il disordine era incredibile, le capanne e le piccole case erano state costruite senza alcun criterio.

    Decine di cani giravano liberi rovistando tra i rifiuti e abbaiando ai topi con i quali si contendevano gli avanzi.

    L’ingresso al campo era stato traumatico, pensavo alla possibilità di fuggire da lì e mi ricredevo ogni volta che vedevo donne e uomini, a centinaia, riversarsi nella piazza del campo.

    La colonna si era fermata in uno spiazzo, al centro del quale c’era una grande costruzione di legno. Dalle porte aperte s’intravedevano lunghe fila di tavoli e di panche, nient’altro.

    Sull’altro lato un grande recinto rettangolare, fatto con pali di legno, poteva essere un riparo per cavalli o altri animali ma gli aculei dei pali e dei bastoni piantati nel terreno e rivolti verso l’interno mi dicevano che la destinazione doveva essere diversa.

    Due anelli di ferro, grandi quanto uno scudo, posti ai due lati estremi non mi erano di nessun aiuto per capire di cosa si trattasse; forse un campo dove gli uomini si sfidavano a colpi di arco e frecce per centrare gli anelli, una specie di campo di gara.

    Zemero aveva accettato volentieri il saluto degli uomini e gli abbracci delle numerose donne, ricompensandole con abbondanti palpeggiamenti; aveva poi alzato le braccia al cielo e, ottenuto il silenzio generale, aveva fatto un breve discorso in una lingua sconosciuta. Aveva dovuto ripetere più volte lo stesso gesto per zittire gli entusiasmi e al termine aveva invitato tutti a riprendere le proprie occupazioni.

    Adesso la sua attenzione era rivolta a me e a miei soldati.

    Di loro si era incaricato Nales con l’aiuto di un gruppo di barbari. Si erano allontanati nel fango e non riuscivo a vedere dove li stavano portando, ma avevo scorto Zemero venire verso il carro.

    Aveva ricominciato a piovere e forse ci saremmo tolti di dosso tutto lo sporco che ci ricopriva.

    Scendi dal carro. Si era rivolto a Emilia che prontamente era saltata a terra, poi nella sua lingua si era rivolto a due donne che avevano fatto cenno col capo di aver inteso. Avevano preso la ragazza per le braccia e l’avevano trascinata verso la grande costruzione nella piazza.

    Emilia si era girata verso di me incontrando il mio sguardo, sapeva che non potevo fare niente per aiutarla. Il tono di Zemero lasciava comunque qualche margine di speranza.

    Centurione Marzio Aulo, rispetto il tuo grado e il tuo osso rotto. Sei mio prigioniero. Non tentare la fuga o tua sorella sarà data come premio ai miei uomini. Non hai avuto modo di vedere come trattiamo le donne romane, ma sono sicuro che la ragazza te lo abbia descritto e fino ad ora è stata rispettata solo per il vostro legame di sangue.

    Zemero era stato breve e chiaro ma non capivo cosa c’entrasse mia sorella, si riferiva certamente a Emilia. Con lei avrei chiarito le cose in un secondo momento, sempre che ne avessi avuta la possibilità.

    Grazie Zemero. Imploro pietà anche per i miei uomini. Non dare loro la morte. Puoi utilizzarli per lavori di costruzione nel tuo accampamento. Sono abili costruttori di strade, di case e di acquedotti e sono sicuro che ne avrai bisogno per il tuo campo.  Ero convinto di aver fatto presa su una questione di pubblica utilità per l’intero villaggio.

    Lavorare significava aver salva la vita, non essere torturati, lavorare voleva dire creare una o più possibilità di fuga.

    Ti chiedo di concedermi di poter parlare con i miei soldati, vorrei spiegare loro cosa li aspetta, sempre che tu sia d’accordo di utilizzarli per i lavori necessari.

    Sei abile nella trattativa. Penso che ascolterò il tuo consiglio e quando il principe Arminio verrà al campo per festeggiare la vittoria sull’esercito di Roma, troverà più ordine.

    I miei uomini ti condurranno alla tua prigione, dove sarai controllato giorno e notte. Ti manderò tua sorella con del cibo, una coperta e dell’acqua per lavare la tua ferita. Domani parlerai ai tuoi uomini. Zemero aveva terminato di parlare, si era girato e aveva raggiunto Nales.

    Il carro si era rimesso in movimento, aveva aggirato il grande recinto e si era fermato sul lato opposto davanti a una piccola capanna di legno.

    Senza tanti complimenti due probabili guardie mi avevano fatto scendere dal carro.

    Tentavo di non appoggiare la gamba ferita per terra, ma era praticamente impossibile.

    A ogni passo vedevo il movimento della parte esterna dell’osso e provavo un dolore incredibile, era come se qualcuno m’infilasse sotto il ginocchio la punta di un pugnale.

    Ci voleva una stampella e qualcuno che mi richiudesse la ferita, ma avrei dovuto aspettare il giorno seguente.

    La mia prigione era una casupola fatta con tronchi di betulla, non più larga di tre passi per due.

    Il tetto era piano, poco più alto del mio capo ed era ricoperto da paglia, rami secchi e fango che poggiavano su dei legni anch’essi di betulla.

    Il pavimento era di terra battuta che con i giorni di pioggia era diventato fango per l’acqua che vi scorreva e per quella che probabilmente scendeva dal tetto.

    Non c’erano finestre, in compenso c’era più di una fessura dalla quale potevo vedere il recinto con i due cerchi di ferro, parte della piazza con la costruzione dove i capi dei barbari probabilmente si riunivano per decidere le strategie e dove, visti i numerosissimi tavoli, si faceva festa dopo una vittoria.

    All’interno della mia prigione c’era un giaciglio, sempre di legno con della paglia e una coperta strappata e maleodorante.

    Alla parete era appesa una specie di tappeto fatto con pelle di mucca, utile per ripararsi dal freddo della notte.

    La porta era bloccata dall’esterno con un paletto conficcato nel terreno e sarebbe stata tenuta costantemente d’occhio da un gruppo di guardie che si davano regolarmente il cambio.

    Li avevo visti parlottare tra di loro e scambiarmi occhiate feroci.

    Fuori c’erano due donne e una delle due si chiamava Carola. Aveva una corporatura da soldato, capelli corti e rossicci e soprattutto un seno abbondante.

    Era vestita con una pelliccia che le lasciava scoperte braccia e gambe sode e ber tornite ed era armata con una scure.

    Aveva i lineamenti delicati, gli occhi scuri e un naso proporzionato. Il suo viso dolce non si addiceva certo al suo fisico robusto.

    Ero costretto a rimanere seduto o sdraiato, il dolore non accennava a diminuire, aspettavo Emilia e pensavo a come avrei potuto organizzare un piano di fuga.

    Il rumore della porta che si apriva mi aveva riportato alla realtà e mia sorella o meglio quella che si era spacciata per mia sorella era davanti a me con una cesta intrecciata tra le mani.

    Carola e le due donne che la accompagnavano erano entrate con lei per controllare i nostri movimenti.

    Una sacca di pelle conteneva acqua fresca, avevo sete, ma prima di tutto dovevo pensare alla ferita. C’erano stracci che sembravano puliti e tra foglie di lattuga anche un pezzo di carne e un avanzo di pane bianco.

    C’era una ciotola di terracotta piena di una sostanza rossastra; non sapevo cosa fosse e anche Emilia scuoteva la testa.

    C’era solo un modo per saperlo, assaggiarla.

    Aveva lo stesso odore della muffa ed era abbastanza morbida al tatto e una piccola quantità presa con un dito non mi avrebbe certo ucciso.

    Avrei dovuto capire dai risolini delle tre donne che qualche cosa non andava.

    Infatti, avevo appena assaggiato l’argilla rossa che Zemero aveva fatto preparare per cicatrizzarmi la ferita.

    Terra, osso. E via a ridere battendo i piedi per terra. Carola aveva confermato i miei pensieri e l’aveva fatto nella mia lingua, poi con dei gesti eloquenti aveva spiegato a Emilia cosa doveva fare con l’argilla.

    Dovevo fare attenzione, mi trovavo a fianco di barbari germanici che erano stati alleati dei romani e che conoscevano parte delle nostre parole.

    Marzio, distenditi sul giaciglio, ti pulisco la ferita e ti rifaccio la fasciatura.

    Carola e le sue compagne erano uscite e nella baracca era entrata un po’ di luce.

    Voglio sapere cos’è questa storia della sorella. Da quando siamo fratelli?

    Perdonami Marzio. Quando sei stato liberato dal peso del cavallo, sono rimasta al tuo fianco, mi sono inginocchiata nel fango e ho strappato una parte della mia tunica per fermare il sangue della tua ferita.  Nales mi ha preso per i capelli, mi ha costretto ad alzarmi e mi ha indicato di seguire le altre donne verso il bosco. Non mi sono persa d’animo, mi sono rivolta a Zemero gridandogli che ero Emilia, sorella del centurione Marzio Aulo e che non avrei mai abbandonato mio fratello. Se voleva uccidermi, avrebbe dovuto farlo lì. Zemero ha detto qualche cosa al suo aiutante che mi ha lasciato i capelli andandosene verso il bosco.

    Quando hanno massacrato i civili e tuo padre con loro, cosa hai fatto?

    Ho avuto troppa paura per muovermi e ancora adesso mi tormenta il pensiero di aver lasciato il mio genitore, morto, senza un saluto e senza sepoltura.

    Mentre parlava, aveva tolto i legacci e i legni che mi tenevano bloccata la gamba e aveva iniziato a togliermi il fango dal ginocchio, non prima di aver bevuto qualche sorso d’acqua.

    Non avevo l’osso rotto, ma pensavo che sarebbe stato vantaggioso per me che tutti continuassero a credere che lo fosse, avrei avuto qualche privilegio.

    Vedere il proprio osso non è piacevole e sentire le dita di una mano, per quanto delicate, toccare carne e muscoli è particolarmente doloroso.

    Non volevo dare motivo di scherno alle tre donne che là fuori parlavano e ridevano in una lingua incomprensibile e quindi resistevo al dolore.

    Solo Emilia, vedendo le mie smorfie, poteva accorgersi di quello che provavo in quel momento. La sua operazione era quasi terminata, mi aveva avvicinato i lembi di carne e di pelle e aveva spalmato l’argilla rossa, infine aveva fasciato la ferita con dei panni e rimesso i pezzi di legno stringendoli con i soliti stracci.

    Ho finito Marzio. Grazie per non avermi tradito. Si era alzata e mi aveva aiutato a mettermi seduto.

     Puoi essere sicura che Vicinio ha provveduto alla sepoltura di tuo padre e degli altri civili. Per me è come un fratello e so che non mi ha abbandonato. Rimani qui ora e dividi con me il pezzo di carne.

    Non mangiavamo niente dal giorno prima e comunque la carne era saporita, probabilmente era cinghiale. Nei dintorni ne avevamo visti parecchi.

    La sera era ormai prossima, il buio calava in fretta e il freddo si faceva sentire, pensavo ai miei uomini e alla loro sistemazione, l’indomani ne avrei parlato con Zemero.

    Ero appoggiato ai pali della baracca e scrutavo attraverso le fessure quello che succedeva.

    Fumi e odori si mischiavano e i fuochi accesi in più punti rischiaravano il campo.    

    Nella mia mente annotavo tutte le cose che erano successe nel campo di prigionia da quando eravamo arrivati. Ero attratto dal comportamento, spesso rozzo e crudele, dei germanici che ci avevano fatto prigionieri. Ero particolarmente interessato alla loro organizzazione, alle loro gerarchie e all'alto grado di rispetto e fedeltà che questi barbari avevano verso i loro capi.

    Quello che sembrava essere un esercito di senza tetto, contadini e povera gente era in realtà una vera e propria macchina da guerra fatta da soldati spietati e valorosi.

    Non avevo avuto modo di vedere i barbari in azione durante una vera battaglia ma avevo modo, ora, di capire il perché della loro possibile vittoria.

    La notte era lunga, senza luna, buia e fredda, e per fortuna avevo una coperta di pelle.

    L’argilla si era seccata intorno alla ferita ma il dolore continuava a essere insopportabile.

    Fuori un uomo aveva dato il cambio a Carola e sentivo il suo russare sommesso. Qualcuno litigava, si sentivano dei lamenti e ogni tanto qualche ubriaco passava davanti e imprecava al cielo.

    Aveva ripreso a piovere e faceva meno freddo.

    La mia guardia, tolto il paletto, era entrata e senza proferire parola mi aveva strappato la coperta per potersi riparare dall’acqua.

    Era arrivato il giorno, e una fitta nebbia saliva dal terreno umido, presto la temperatura si sarebbe alzata.

    Stranamente avevo riavuto la coperta, non me ne ero accorto. Adesso sapevo che non sarebbe stato un problema fuggire da lì.

    Zemero era mattiniero e accompagnato da Nales era venuto a farmi visita.

    Dopo avermi fatto caricare sul solito carro, c’eravamo diretti verso il recinto dove c’erano i miei soldati.

    Qual è il tuo compito nella legione, Marzio? Mentre il carro procedeva, si era avvicinato e mi stava parlando, aveva una voce tranquilla, di quelle che infondono fiducia. Sapeva come parlare ai suoi uomini.

    Comando la squadra che chiude il cammino della XIX legione.

    E poi? Non sapevo esattamente cosa volesse sapere e non avevo nessun tipo d’informazione che potesse in qualche modo essergli utile.

    Siamo arrivati a tappe forzate dalla Gallia per congiungerci con le altre legioni, ma il terreno, la pioggia e i civili che erano con noi ci hanno rallentato e così abbiamo perso il contatto con il resto della legione.

    C’è altro che devi dirmi?

    No, non c’è altro. Non avevo nessun ordine, se non quello di chiudere la marcia e di riferire alle staffette tutto quello che vedevamo. Non ho altre informazioni, devi credermi.

    Ti credo. Sarò io invece a darti qualche notizia. Quando ti ho fatto prigioniero con i tuoi soldati, eri a tre giorni di marcia dal campo, dove ci sono le altre due legioni al comando di Publio Quintilio Varo. Il nostro esercito sta aspettando che la tua legione si unisca alle altre e fra una settimana daremo battaglia e sconfiggeremo le legioni romane. Siamo un quarto del vostro esercito, ma abbiamo dalla nostra la conoscenza del terreno dove, se si è leggeri, si è più agili e più veloci. Non servono i carri e non servono i cavalli. Il principe Arminio, che conosce perfettamente le strategie romane, ha escogitato un piano efficace per renderle vane. Abbiamo tagliato molti alberi e cespugli e, quando appiccheremo il fuoco in più punti, i romani saranno costretti a fuggire in una sola direzione finendo diritti nella grande palude. L’alternativa è scegliere una diversa via di fuga e dirigersi dove Arminio li aspetta. Non hanno scampo, saranno massacrati.

    Perché mi racconti tutto questo? Hai intenzione di uccidermi come hai fatto con i civili?

     Avevo parlato con un tono carico di odio, senza pensare a controllarmi.

    Quanto mi aveva detto poteva essere vero e, se lo fosse stato, più di ventimila uomini sarebbero morti.

    Mi servi vivo. Ho molto da imparare da voi romani in fatto di organizzazione e la tua proposta di aiuto in cambio della vita mi sembra più che ragionevole. Se ti ho raccontato cosa succederà al tuo esercito è solo perché non potrai riferirlo a nessuno.

    La scena che in quel preciso momento si apriva ai miei occhi, era cruda e penosa.

    Davanti a me, rinchiusi in piccoli recinti che fino a poco prima avevano probabilmente ospitato dei maiali, c’erano i miei uomini.

    Erano divisi in gruppi, ancora ricoperti di fango, infreddoliti e sempre legati tra di loro.

    L’umiliazione era forte e la mia presenza aveva dato luogo a una timida reazione. Ero ancora il loro comandante.

    Livio, Flavio, Sesto, Tiberio. Avevo chiamato i più validi tra i miei uomini, quelli che avevano più capacità e predisposizione al comando.

    A voi il compito di formare quattro squadre di otto uomini. Zemero vi farà uscire da quei porcili e vi farà rientrare i suoi maiali. Vi darà la possibilità di lavarvi e di rivestirvi, vi darà il cibo che non avete avuto e vi assegnerà a un luogo di prigionia degno dei legionari romani.  Il compito che ci aspetta è difficile. Mi sono impegnato in prima persona e a breve, quando la mia gamba mi permetterà di camminare, sarò al vostro fianco a costruire e sistemare strade e case e creare un acquedotto. Saremo trattati non più come prigionieri, ma come operai e come tali avremo gli stessi diritti di cibo, alloggio e rispetto degli altri uomini di questo campo. Siamo prigionieri, ma siamo prima di tutto uomini. Vi do la mia parola che quanto ho appena detto sarà mantenuto.  

    Avevo parlato come un fiume in piena, come un comandante ai suoi soldati prima di una battaglia e Zemero mi guardava quasi divertito.

    Al contrario, il biondo Nales, che sembrava aver capito ogni parola del mio discorso, si era rivolto all’amico per chiedere spiegazioni.

    La mano alzata di Zemero aveva chiuso ogni ulteriore replica.

    Bene. Sono del tutto in accordo con quanto hai appena detto ai tuoi uomini. Farò quello che tu hai chiesto. In più punti del villaggio non c’è acqua ma c’è un piccolo torrente che scorre appena qui fuori. A voi il compito di portare l’acqua dove non c’è.

    Eravamo stati raggiunti da Carola e dalle altre guardie, mentre di Emilia non c’era traccia.

    Ci sono capanne e baracche che necessitano di essere rinforzate e i collegamenti tra i vari punti del campo vanno resi più agibili. I tuoi uomini avranno la libertà necessaria, potranno muoversi per procurarsi tutto il materiale che servirà loro. Al termine del loro lavoro saranno rinchiusi in una vecchia costruzione alla quale è crollato il tetto. Reistar e Dallar lavoreranno al loro fianco. Conoscono la vostra lingua e sorveglieranno il lavoro dei tuoi uomini.

    Zemero aveva parlato rivolgendo il suo sguardo verso di me.

    Aveva poi fatto avanzare Reistar e Dallar.

    Avevano entrambi passato la giovane età e non erano certo dei guerrieri, né lo erano mai stati. Forse erano contadini o forse abili falegnami, ma non avrebbero certo fermato il nostro tentativo di fuga.

    Se solo uno di voi tenterà di fuggire, non ci sarà nessuna pietà per Marzio Aulo. Se solo uno di voi mancherà all’appello, il vostro comandante sarà torturato e giustiziato.

    Il tono di voce di Zemero era cambiato, si vedevano le vene del collo ingrossarsi e i suoi muscoli tendersi mentre la sua faccia era diventata una smorfia di odio.

    Carola aveva alzato la sua scure e l’aveva avvicinata minacciosamente al mio collo.

    Avevo capito esattamente le intenzioni di Zemero. Puntava sulla lealtà dei miei uomini lasciando loro una discreta libertà d’azione.

    Era sicuro che nessuno sarebbe mai fuggito causando così la mia morte certa.

    Io, al contrario, avrei avuto un controllo a vista giorno e notte, avrei sempre avuto accanto Carola o uno degli altri barbari e avrei dovuto prestare la massima attenzione a tutto quanto detto ai miei uomini perché chi ci controllava sapeva la nostra lingua.

    Zemero aveva finito con noi e senza più degnarci di uno sguardo si era allontanato con i suoi fedeli.

    Reistar aveva iniziato a liberare i prigionieri dai lacci di cuoio senza andare tanto per il sottile e i lamenti e le imprecazioni dei miei uomini erano la prova del dolore che provavano.

    Dallar stava invece impartendo degli ordini ai suoi uomini e alle donne arrivate con Carola che avrebbero dovuto accompagnare i romani alla fonte dove si sarebbero lavati e dissetati e dove avrebbero poi trovato gli avanzi della carne di cinghiale cucinata la sera precedente.

    Carola. Era la prima volta che mi rivolgevo al mio guardiano.

    Ti ascolto Marzio Aulo, cosa vuoi?

    Vorrei conferire con i quattro romani che ho nominato a capo delle squadre di lavoro. Livio, Flavio, Sesto e Tiberio.

    Avevo parlato scandendo bene le mie parole e la donna aveva inteso perfettamente, perché si era avvicinata al gruppo e aveva chiamato a voce alta i miei uomini.

    I quattro si erano diretti allo steccato, stanchi e sporchi. Non sembravano di certo i legionari romani di qualche giorno prima.

    Livio e Tiberio avevano due profondi solchi ai polsi mentre gli altri due avevano gli avambracci gonfi e quasi neri a causa della cattiva circolazione del sangue.

    Avevano bisogno di qualche massaggio alle braccia e soprattutto avevano la necessità di lavarsi.

    Non so fin dove posso arrivare con il carro e quindi voi sarete i miei occhi e le mie orecchie. A te Livio e a te Flavio il compito di dirigere la costruzione di un piccolo acquedotto sopraelevato. Sarà il primo lavoro e, dopo aver fatto una perlustrazione dell’intero campo, deciderò con voi dove è possibile arrivare e quale percorso scegliere.  Parlerò con Reistar o Dallar per chiedere loro di quali attrezzi dispongono e per sapere se possiamo recuperare tutto il materiale che c’era sui nostri carri. Non possiamo lavorare senza le nostre dolabre, le nostre preziose asce, e abbiamo la necessità di recuperare più zappe e pale che possiamo.

    Carola non aveva perso una sillaba di quanto avevo detto, anche se non ero sicuro che avesse capito tutto. Avevo parlato molto velocemente e lo avrei fatto di nuovo, volevo mettere alla prova la sua conoscenza della nostra lingua.

    Carola, inizieremo con la costruzione di un acquedotto. Per sigillare il canale che costruiremo, ho bisogno di trovare del bitume e, in mancanza di quello, i miei uomini dovranno cercare e trovare degli alberi con molta resina. Ho bisogno che qualcuno accompagni la squadra al comando di Livio a cercare nella foresta una pozza di bitume.

    Carola non aveva capito e Dallar, che si era avvicinato a noi, aveva poi tradotto il significato della parola bitume e ci aveva confortato dicendo che a un’ora di cammino dal campo c’era quello che cercavamo. Avrebbe pensato a far rivestire almeno due carri con pelle di bue in modo da poter contenere il bitume che ci serviva.

    "Sesto, a te il compito di controllare i depositi di legname e di cominciare a scegliere il materiale più adatto per rifare il tetto di quella che sarà la vostra prigione. Il tempo sembra tenere ma dobbiamo fare in fretta.

    Livio, attento ai pericoli delle pozze di bitume.

    Non preoccuparti Marzio. Era stato Dallar a rispondermi. Ho lavorato per molto tempo con altri soldati romani e conosco bene i vostri metodi di lavoro. Non preoccuparti, so come muovermi nella foresta e sono in grado di far riempire di bitume tutti i carri che ti servono.

    Se conosci le nostre tecniche perché non le hai mai usate in questo campo?

    Semplice. Il villaggio che vedi si è riempito di guerrieri, di donne e di vecchi, solo negli ultimi mesi e così sono state costruite capanne e ripari in tutta fretta.  Fino a oggi potevo contare solo sulle donne. I pochi uomini che non erano in guerra contro i popoli nemici ai confini erano troppo vecchi per aiutarmi. Adesso ci sono più di trenta uomini esperti e per di più sotto la tua guida.

    Dallar poteva essere una fonte importante di informazioni, non dovevo esagerare con le mie domande.

    Zemero e Nales questa mattina, dopo avermi ascoltato e parlato, sono usciti dal campo.  Non hanno detto nulla. Sono forse partiti per unirsi al principe Arminio?

    Sì. Zemero e tutti i suoi guerrieri sono partiti per raggiungere il grosso del nostro esercito nei pressi di Teutoburgo. Sono gli ultimi, e al villaggio sono rimaste poche guardie, molte donne, qualche vecchio e un buon numero di bambini che sono nella parte più a sud del campo. Fra due giorni si ricollegheranno al principe Arminio per dare battaglia ai romani.

    E se fossero sconfitti? Che cosa succederebbe qui al campo e a noi?

    Dallar si era incupito e il suo silenzio non faceva presagire niente di buono.

    Sarete uccisi. Questo è l’ordine che Zemero ha impartito a Carola. Questo non succederà. I romani saranno attirati in una trappola mortale e il nostro esercito trionferà. Non so quanto potrà durare la battaglia ma so che l’appuntamento è qui a Ercinia.

    Di quale appuntamento parli, e vuoi forse dirmi che Ercinia è il nome di questo villaggio?

    Esatto. Prende il nome dalla foresta che ci circonda. Dopo la vittoria, qui ci sarà una grande festa in onore di Arminio e scorreranno fiumi di birra, saranno uccisi maiali, buoi e cinghiali. Il momento più importante sarà il giorno della grande sfida nel recinto degli anelli, quella all’ultimo sangue tra la squadra di Zemero e quella di Ulpia, il protetto del principe.

    Dallar, noi siamo pronti. I romani sono già alla fonte e le donne hanno portato cibo e qualche tunica per i prigionieri. I carri sono tre e il materiale dei romani è già stato sistemato vicino alle cataste del legname. Ci sono asce, zappe e vanghe.

    Bene Reistar, precedimi alla fonte, arrivo fra poco.

    Marzio, avrò tempo per soddisfare le curiosità che ti leggo in viso. Adesso raggiungo i tuoi uomini e mi auguro, anche per il tuo bene, che sappiano mantenere le promesse che tu hai fatto a Zemero.

    Il colloquio era terminato e Dallar si era allontanato con un passo veloce per la sua età, ero rimasto solo mentre Carola era poco distante con Tiberio in attesa di ordini.

    Tiberio, a te e alla tua squadra il compito di togliere il legname del tetto crollato e di costruire le impalcature che vi serviranno per rifare il tetto della prigione. Adesso raggiungi i tuoi uomini alla fonte.

    Mi aveva fissato con i suoi occhi profondi, mi aveva salutato portando il pugno al petto e poi era partito in direzione del bosco. Conoscevo Tiberio da molto tempo, lo rispettavo e lo consideravo amico, avrei sacrificato la vita per lui e lui avrebbe fatto lo stesso per me. Ci univa anche un legame di parentela poiché mio fratello Claudio aveva sposato Lucrezia, sua sorella.

    Carola mi si era avvicinata e con il manico della sua ascia m’indicava il carro sul quale sarei dovuto risalire. A fatica, cercando di non sforzare la gamba ferita, ero arrivato vicino ai buoi ma non sarei riuscito senza il suo aiuto che era arrivato puntuale.

    Grazie per l’aiuto. Come sta mia sorella Emilia?

    Andiamo da lei così potrà pulirti la ferita.

    Possiamo fare un giro completo di Ercinia? Vorrei rendermi conto di tutti i lavori che si possono fare qui al villaggio.

    Zemero mi ha detto che me lo avresti chiesto. Dopo aver incontrato Emilia, ti farò vedere il nostro campo.

    M’immaginavo Carola con abiti diversi, passeggiare nel giardino di una casa romana, con una tunica bianca e una stola di colore blu con un fermaglio prezioso sulla spalla e i capelli più lunghi raccolti in una treccia intorno al capo. La vedevo raccogliere dei fiori con la grazia di una matrona e comandare alle serve di preparare il bagno per il padrone di casa.

    Anche i suoi occhi mi scrutavano e riuscivo a leggervi qualche cosa di dolce.

    Marzio, Marzio.  Era Emilia che mi chiamava. Eravamo arrivati in una zona del villaggio piena di baracche, una attaccata all’altra e con un piccolo spiazzo erboso davanti. Sull’erba erano stesi la tunica della ragazza e gli stracci del mio bendaggio. Erano stati lavati e stavano asciugando agli ultimi raggi di un tiepido sole autunnale.

    Ti saluto Emilia. Hai passato bene la notte? Sei stata trattata con riguardo?

    Le donne sono state gentili con me. Mi hanno portato alla fonte, dove ho anche lavato bende e tunica e mi hanno dato quest’abito. Ho avuto un pezzo di pane e una ciotola di latte di capra e ora sono pronta a medicare la tua ferita.

    Sono qui per questo.

    L’operazione era stata più veloce e le mani di Emilia erano diventate più esperte. L’argilla iniziava a dare qualche risultato positivo e la ferita aveva un aspetto migliore.

    Avevo comunque trovato il tempo di raccontarle tutto quanto era successo e approfittando della distrazione di Carola l’avevo messa in guardia su un nostro possibile tentativo di fuga.

    Marzio non puoi permetterti di tentare la fuga nelle tue condizioni, non puoi camminare e non ci sono cavalli, sono stati tutti utilizzati per la battaglia. Non puoi certo fuggire su un carro trainato dai buoi.

    Era inginocchiata davanti alla mia gamba e aveva sussurrato le sue preoccupazioni sfiorandomi il viso con le sue labbra.

    Aveva un buon odore. La stavo guardando con occhi diversi. Era giovane, non aveva forse ancora vent’anni. La tunica che indossava era troppo grande per lei e dalla scollatura le guardavo il seno già abbondante per la sua età. Non la stavo certo osservando come un fratello guarda propria sorella.

    Lo so, hai ragione, ho sbagliato quando ho parlato del nostro tentativo. In realtà io non ne faccio parte. Non si può lasciar andare un’occasione simile. I nostri carcerieri sono due vecchi e un gruppo di donne e Zemero con tutta la sua banda tornerà non prima di due, forse tre settimane, a patto che riesca a sconfiggere le nostre legioni.

    Carola si era girata verso di noi e probabilmente aveva colto il mio sguardo interessato nei confronti di Emilia.

    Ho terminato. La bendatura e le stecche sono a posto. La ferita è pulita. Ho trovato questo legno, sembra fatto apposta per essere usato come fosse una stampella. Tieni Marzio e adesso appoggiati a me.

    Grazie. Sali anche tu sul carro, Carola ci porta a vedere il villaggio in modo da poter farmi un’idea sui lavori che possiamo realizzare.

    Emilia, dopo avermi aiutato a salire, si era accovacciata vicino alle mie gambe.

    Sentivo il suo sguardo su di me ma non potevo commettere errori, non volevo che Carola capisse il nostro inganno.

    Dal canto suo, la nostra guardia si era messa alla testa del carro e non ci degnava di uno sguardo, camminava seguendo il procedere lento dei buoi.

    La piccola strada scendeva lentamente e si dirigeva verso la parte più a sud del campo.

    Le ruote del carro seguivano un percorso preciso delimitato dai solchi che si erano formati a causa delle piogge.

    Le case di legno lasciavano gradatamente il posto a case in paglia che erano disposte con un criterio ordinato.

     Dei grandi recinti contenevano a volte dei buoi, dei maiali e delle capre. Eravamo arrivati alla dispensa del campo e su due bracieri c’erano ancora gli avanzi dei cinghiali cucinati la sera precedente.

    Anche qui erano le donne che, con l’aiuto di qualche vecchio, regolavano le bestie e provvedevano poi a macellarle quando era necessario.

    In un angolo c’era una macina di pietra, cosa che non mi sarei mai aspettato di trovare, e un gruppo di persone che con dei bastoni batteva il grano.

    Sapevo che i barbari non erano dei grandi agricoltori, erano un popolo in continuo movimento e un villaggio così grande poteva essere giustificato solamente dalla necessità di riunire tutte le forze possibili per una guerra contro i romani.

    Poco distante dalla macina una catasta di legna con delle grosse pietre piatte, forse di ardesia, fungeva da forno.

    Due giovani donne e un gruppo numeroso di bambini, che gridavano e si rincorrevano, avevano fermato il carro e avevano offerto del pane a Carola che le aveva poi invitate a portarne una parte anche a noi.

    Grazie. Tieni, è ancora caldo.

    Emilia mi aveva offerto anche la sua parte e i nostri occhi si erano incontrati per un attimo lunghissimo e oltre al pane stavo trattenendo le sue piccole e delicate mani. Il sole le faceva brillare i capelli scuri e la rendeva ancora più bella.

    Carola si era avvicinata al carro, sorrideva in un modo strano e aveva appoggiato la sua ascia vicino ai miei piedi.

    Sembrava quasi volesse sfidarmi.

    Bravo legionario Marzio Aulo, vedo che hai una certa predilezione per la giovane prigioniera romana. Puoi ingannare un uomo.  Puoi ingannare Zemero. Io però non sono stupida. Io ho capito. 

    Capitolo 2 - La fonderia di messer Bertoci

    Appesi in un angolo, sul muro di mattoni senza intonaco, facevano bella mostra due armature.

    La più completa delle due aveva ancora attaccato all’elmo dei ciuffi spelacchiati di quello che un tempo era il pennacchio rosso di un nobile cavaliere fiorentino.

    Sulla parete opposta, poco sopra la porta dello studio di messer Bertoci, era appeso uno scudo crociato.

    Tutti mi chiamano Zino, non pronunciando la zeta come si fa normalmente, ma precedendola con una ti che sembra una ci; insomma ne veniva fuori una pronuncia dolce che ben s'addiceva al mio fisico minuto.

    Il mio nome è in realtà Enzo e per via della mia magrezza sono diventato prima Enzino e poi, più semplicemente Zino.

    Un giorno avevo tentato di staccarlo dal muro, lo scudo crociato, e non c’ero riuscito.

    Quante volte guardandolo avevo fantasticato sulla forza e sul fisico di quel possente guerriero che un tempo lo aveva usato.

    Vicino a quel cimelio, ritrovato nel vecchio deposito qualche anno prima, erano appese una spada con l’elsa di ottone e una picca di ferro, due armi che stavano a testimoniare che un tempo la fonderia era stata una vera e propria fabbrica di armi e di armature.

    A messer Lupo Bertoci quei momenti sembravano così lontani e così vicini allo stesso tempo.

    Allora era solo un giovane garzone di fornace e sotto gli insegnamenti di suo padre faceva quello che io faccio ora: tener vivo il fuoco del forno grande.

    Non era proprio un compito piacevole, specialmente in estate, ma toccava sempre all’ultimo arrivato e quello purtroppo ero io.

    Lo facevo volentieri, nessuno poteva dire di avere sentito una mia lamentela. Mai.

    Sono un ragazzo di poche parole; ascoltavo, eseguivo, e imparavo un nuovo lavoro e lo facevo senza creare problemi.

    La mattina presto lasciavo la casa di Ludovico Brunelli, mio genitore adottivo, e mi recavo alla fornace. La campagna intorno a Firenze era ancora tutta avvolta nel silenzio e per me era un piacere camminare tutto solo.

    Ci voleva una mezz’ora buona per raggiungere la fornace e quando mi toccava arrivare per primo, la sera, portavo con me le chiavi del portone.

    Quando maneggiavo quelle due chiavi, lunghe e grosse come l’elsa di ottone della spada appesa al muro, ero felicissimo.

    Avere quelle chiavi significava avere la fiducia di messer Lupo.

    In effetti, il mio datore di lavoro mi voleva bene come al figlio che non aveva mai avuto, anche se in compenso aveva una figlia bellissima.

    Chiara, un viso dolce ed elegante con i lunghi capelli scuri e due occhi marroni e profondi, studiava dalle suore nel vicino convento e amava molto leggere.

    Quando potevo, la osservavo a lungo attraverso le due grandi vetrate della fonderia. Aveva quindici anni, uno solo meno di me.

    Una volta aperto il portone della fonderia, iniziava la mia giornata di lavoro.

    Per prima cosa facevo scorta di legna che prendevo dalla catasta nel cortile, guardandomi bene dal prendere quella bagnata o ancora umida e mi aiutavo con un piccolo carretto, dove sistemavo la legna più grossa per poi metterla sopra la brace del giorno prima e, con dei piccoli pezzi di legno tagliati apposta per l’uso, accendevo il fuoco.

    Stendevo dei pezzi di carbone sopra la legna e una volta che il fuoco cominciava ad ardere soffiavo sulla brace con un mantice a pedale.

    Il secondo lavoro era quello che mi piaceva di più.

    Dovevo fare la scorta di acqua che sarebbe servita per raffreddare gli stampi.

    Il pozzo era in mezzo alla corte ed era esattamente di

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