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Il trono di Cesare. Combatti per il potere
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E-book492 pagine6 ore

Il trono di Cesare. Combatti per il potere

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Info su questo ebook

Dall'autore della saga Il guerriero di Roma
Oltre 50.000 copie

La storia dell'uomo nato plebeo, cresciuto guerriero, divenuto imperatore

Magonza, 235 d.C. In un attacco a sorpresa l’imperatore Alessandro Severo viene brutalmente assassinato insieme alla madre.
È la fine della dinastia dei Severi e per Roma è l’inizio di un’era di instabilità, ribellioni, sanguinose guerre civili. Al trono sale Massimino Trace, il primo imperatore proveniente da una famiglia povera. Il Senato tesse le sue lodi, ma accetterà davvero di sostenere un guerriero appartenente a una classe sociale infima e salito al potere grazie alla forza fisica e al coraggio? A nord intanto imperversa la guerra contro i barbari, che consuma uomini e ricchezze. Spinto dalla disperazione, Massimino si abbandona a una sanguinosa vendetta contro i ribelli, scatenando una spirale d’odio che lo porterà sull’orlo della follia...
Dall’autore della serie bestseller Il guerriero di Roma, una nuova saga ambientata nell’affascinante mondo di Roma, fra intrighi, assassini, sanguinose guerre e sconvolgenti passioni.

Omicidi, intrighi e passioni
Chi conquisterà il trono di Roma?

Dall'autore della saga bestseller Il guerriero di Roma
Il primo libro di una nuova imperdibile serie

«Harry Sidebottom ci regala un resoconto avvincente, misurato e ben costruito… che lascia il lettore in attesa del prossimo volume della serie.»
Times Literary Supplement

«Un coinvolgente romanzo storico, ricco di azione, che tiene il lettore costantemente col fiato sospeso.»
The Guardian
Harry Sidebottom
Ha conseguito un dottorato in Storia antica al Corpus Christi College. Attualmente insegna Storia all’università di Oxford (con una predilezione per l’antica Roma) e vive a Woodstock. È autore della saga Il guerriero di Roma, che ha appassionato milioni di lettori in tutto il mondo. La Newton Compton ha già pubblicato i primi cinque episodi della serie: Fuoco a oriente, Il re dei re, Sole bianco, Il silenzio della spada e La battaglia dei lupi. Il trono di Cesare è il primo episodio di una nuova avvincente saga.
LinguaItaliano
Data di uscita26 set 2014
ISBN9788854170469
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    I really did try to read this because Roman history, and in particular the fall of the Roman Empire, is fascinating. The book was too dry, cull and boring for me.
  • Valutazione: 4 su 5 stelle
    4/5
    Dio Cassius: " Our history now descends from a kingdom of gold to one of iron and rust." I was never interested in the author's Ballista series, but I'm thrilled to read this one! Choice of title for this political thriller was really a propos since one could say this is the beginning of Rome's downward slide into mediocrity and weakness. This was the first volume of a planned tetralogy based on the fateful 238 AD [Year of the 6 Emperors]. This first in the series deals with Maximinus Thrax [The Thracian], an equestrian acclaimed emperor by the Roman Army in Germania. Soldiers assassinate the inept, cowardly, and corrupt Alexander Severus and his evil mother. Maximinus is hated by patricians even from his accession to the purple, because of his barbarian, uncouth, and [to patricians] lower class background. The novel deals with his reign. There are 4 distinct subplots that finally come together: The situation in Germania; Gordian [both father and son] in Africa; People in Rome that surround Maximinus--Pupienus, the City Prefect; appointees, family and plebs, the last group represented by a simple die-cutter at the Mint; andThe war with Ardashir's Sassanid Persians. Most of Maximinus' policies are not well thought-out and finally everyone turns against him for his decisions. The coup de grace, so to speak, is his restriction of the 'bread and circuses' of the lower classes. He also unleashes a purge of his political enemies, real and imagined. He goes berserk at the death [murder? suicide?] of his beloved wife, Paulina, who is no longer around to put a bridle on his impetuosity and bad temper. Two plots involving usurpers claiming the throne, are nipped in the bud, one of which Maxentinus uncovers. The battle scenes were very well-done: in different theaters of war: Ad Palmam, an oasis in Africa; a pass in Harzhorn mountains [Germania]; fight against Sassanid Persians in northern Mesopotamia and against Sarmatians on Hierasos River [present-day Ukraine].The historical research was impeccable, but sometimes the style was dry. On the whole, I found the novel gripping. The action moved right along. Although I know something of the history of that period, I liked the author's assigning plausible motivations for the action. I did feel sympathy for Maximinus although he became a tyrant; he struck me as a fish out of water and no one was willing to cut him any slack. He certainly angered people from all levels of society. I felt he became paranoid after the death of his wife.. I think characters were portrayed realistically. There was an extensive dramatis personae; I'm glad there was a section on who was who. I had to keep referring to this list. The maps, glossaries and Historical Afterword were very informative. I can't think of any other novels on this rather obscure period of history, so this novel does fill a much-needed lacuna.

Anteprima del libro

Il trono di Cesare. Combatti per il potere - Harry Sidebottom

en

790

Anche se alcuni eventi e personaggi sono basati su fatti e figure storiche, questo romanzo è interamente unʼopera di fantasia.

Titolo originale: Throne of the Caesars: Iron & Rust

Copyright © Harry Sidebottom 2014

Harry Sidebottom asserts the moral right to be identified as the author of this work

Maps © John Gilkes 2014

All rights reserved

Traduzione dall’inglese di Rosa Prencipe

Prima edizione ebook: ottobre 2014

© 2014 Newton Compton editori s.r.l.

Roma, Casella postale 6214

ISBN 978-88-541-7046-9

www.newtoncompton.com

Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

Harry Sidebottom

Il trono di Cesare

Combatti per il potere

omino

Newton Compton editori

A Ewen Bowie, Miriam Griffin e Robin Lane Fox

La nostra storia è ormai decaduta

da un regno d’oro a uno di ferro e ruggine.

Cassio Dione, LXXII.36.4

Non c’era mai stata una simile successione

di terremoti e pestilenze, tiranni e re dalle carriere

stupefacenti, di cui si abbia memoria.

Erodiano, I.I.4

abcde

PERSONAGGI PRINCIPALI*

[* L’elenco completo compare alla fine del libro.]

Nel Nord

Alessandro Severo: l’imperatore

Mamea: sua madre

Petronio Magno: un consigliere imperiale

Flavio Vopisco: governatore senatoriale della Pannonia superiore

Onorato: comandante senatoriale del distaccamento della Mesia inferiore

Cazio Clemente: comandante senatoriale dell’Ottava legione nella Germania superiore

Massimino il Trace: ufficiale di rango equestre

Cecilia Paolina: sua moglie

Massimo: il loro figlio

Anullino: ufficiale di rango equestre

Volo: comandante dei frumentarii

Domizio: prefetto del campo

Giulio Capitolino: comandante di rango equestre della Seconda legione Parthica

Timesiteo: equestre facente funzioni di governatore della Germania inferiore

Tranquillina: sua moglie

Sabino Modesto: suo cugino

A Roma

Pupieno: prefetto della città

Pupieno Massimo: suo figlio maggiore

Pupieno Africano: suo figlio minore

Gallicano: senatore seguace del cinismo

Mecenate: suo intimo amico

Balbino: patrizio dalla vita dissoluta

Giunia Fadilla: giovane vedova, discendente di Marco Aurelio

Perpetua: sua amica, moglie di Sereniano, governatore della Cappadocia

L’incisore di coni: artigiano della Zecca

Castricio: suo giovane e poco raccomandabile vicino

Cenis: prostituta visitata da entrambi

In Africa

Gordiano il Vecchio: governatore senatoriale dell’Africa proconsolare

Gordiano il Giovane: suo figlio e legato

Menofilo: suo questore

Arriano, Sabiniano e Valeriano: i suoi altri legati

Capeliano: governatore della Numidia, e nemico di Gordiano

In Oriente

Prisco: governatore di rango equestre della Mesopotamia

Filippo: suo fratello

Sereniano: suo amico, governatore della Cappadocia

Giunio Balbo: governatore della Celesiria, genero di Gordiano il Vecchio

Otacilio Severiano: governatore della Siria Palestina, cognato di Prisco e Filippo

Ardashir: sassanide Re dei Re

la nostra storia è ormai decaduta

da un regno d’oro

a uno di ferro e ruggine

CAPITOLO 1

Frontiera settentrionale.

Accampamento nei pressi di Mogontiacum[1]

Otto giorni prima delle Idi di marzo, 235 d.C.

Tenetemi al sicuro nelle vostre mani.

Il sole doveva essere sorto ormai da un pezzo, ma ne filtrava ben poco nel sancta sanctorum del grande padiglione.

Dèi tutti, tenetemi al sicuro nelle vostre mani. Il giovane imperatore pregava in silenzio, muovendo solo la bocca. Giove, Apollonio, Cristo, Abramo, Orfeo: fate che arrivi illeso alla fine del giorno.

Alla luce della lampada, l’eclettica gamma di divinità lo osservava impassibile.

Alessandro, Augusto, Grande Madre: vegliate sul vostro eletto, vegliate sul trono dei Cesari.

Suoni, come lo squittio di pipistrelli disturbati, al di là del piccolo santuario degli dèi domestici, al di là delle pesanti cortine di seta, interruppero le sue preghiere. Da qualche parte, negli intimi recessi del labirinto di corridoi e spazi recintati e ombreggiati di viola, giunse lo schianto di qualcosa che si rompeva. Tutti gli attendenti imperiali erano sciocchi. Sciocchi maldestri e codardi. I soldati si erano già ammutinati in precedenza. Al pari di quei disordini, si sarebbe risolto anche questo, e a quel punto i membri del seguito che avevano abbandonato i propri doveri o approfittato del putiferio avrebbero sofferto. Se uno schiavo o un liberto aveva rubato, gli sarebbero stati recisi i tendini delle mani. In quel modo non avrebbe potuto rifarlo. Sarebbe servito da lezione. Alla familia Caesaris serviva costante disciplina.

L’imperatore Alessandro Severo si tirò una piega del mantello sulla fronte, appoggiò il palmo destro sul petto e riprese l’atteggiamento di preghiera. Gli auspici erano stati cattivi per mesi. Il giorno del suo ultimo compleanno la bestia sacrificale era fuggita. Il suo sangue gli aveva schizzato la toga. Mentre marciavano fuori da Roma, un antico alloro di enormi dimensioni era caduto all’improvviso in tutta la sua lunghezza. Qui, sul Reno, una donna druida gli aveva detto: Va’. Non sperare nella vittoria, non fidarti dei tuoi soldati. Le parole della profezia si ripetevano nella sua mente. Vadas, nec victoriam speres, nec te militi tuo credas. Era sospetto che si fosse espressa in latino. Eppure la tortura non aveva rivelato alcuna influenza malevola terrena. Qualunque fosse la sua lingua, era necessario propiziare gli dèi.

A Giove un bue. Ad Apollonio un bue. A Gesù Cristo un bue. Ad Achille, Virgilio e Cicerone, a tutti voi eroi…

A ogni voto che faceva, Alessandro mandava un bacio a ciascuna statuetta. Non era sufficiente. Si mise in ginocchio, allora, ostacolato dall’elaborata corazza, e si prostrò in adorazione del lararium. Vicino alla sua faccia, notò il filo dorato del tappeto bianco. Il tessuto puzzava leggermente di muffa.

Niente di tutto questo era colpa sua. Niente. Due anni prima, in Oriente, era stato malato. E con lui metà delle truppe. Se non avesse ordinato la resa ad Antiochia, i Persiani li avrebbero annientati tutti quanti; non solo l’unità meridionale che era stata lasciata indietro, ma anche il grosso dell’esercito romano schierato. Qui, nel Nord, la frontiera era stata violata in numerosi punti. Aprire negoziati con alcuni barbari non era segno di debolezza. Non aveva senso combatterli tutti insieme. Sagge promesse e doni potevano indurne qualcuno a tenersi in disparte, magari perfino a unirsi alla distruzione dei loro fratelli. Questo non significava che la loro punizione fosse annullata, ma solo posticipata. I barbari non possedevano il concetto di buona fede, perciò le promesse fatte loro non si potevano considerare vincolanti. Cose del genere non si potevano affermare in pubblico, ma com’era possibile che i soldati non capissero queste ovvie verità? Certo, le truppe del Nord, arruolate dai campi, erano di poco migliori dei barbari stessi. La loro capacità di comprensione era altrettanto limitata. Ecco perché non arrivavano a capire la faccenda del denaro. Da quando Caracalla, l’imperatore che avrebbe potuto essere suo padre, aveva raddoppiato la paga delle truppe, l’erario si era prosciugato. Veturio, il tesoriere nominato da sua madre, aveva portato Alessandro al fiscus. Non c’era niente da vedere, se non file e file di forzieri vuoti. Come Alessandro aveva cercato di spiegare più di una volta nelle diverse piazze d’armi, sarebbe stato necessario estorcere con la forza donazioni per l’esercito agli innocenti civili, alle famiglie degli stessi soldati.

Un lampo di luce: una cortina fu scostata. Feliciano, il più anziano dei due prefetti pretoriani, entrò impettito. Nessuno lo annunciò e nessuno richiuse la tenda. Dall’apertura, dietro al prefetto, volarono innumerevoli minuscoli uccelli. Presero a sfrecciare ovunque nella sala, mandando lampi gialli, rossi e verdi quando attraversavano il fascio di luce. Quante volte Alessandro si era lamentato con i loro custodi del fastidio e del costo che rappresentavano? A ogni cena in cui venivano liberati per saltellare e frullare le ali al solo scopo di divertire gli ospiti almeno un paio di loro si smarriva o moriva. Quanti ne sarebbero rimasti adesso?

Feliciano spazzò via con inutile aggressività quelli che volavano troppo vicino alla sua testa, camminando verso il pallido chiarore dei due troni d’avorio gemelli. La madre dell’imperatore sedeva lì nell’oscurità. Graniano, uno dei vecchi tutori di Alessandro adesso promosso alla cancelleria imperiale, era accanto a Mamea. Bisbigliava. Il segretario degli studi era immancabilmente al fianco dell’imperatrice, sempre intento a bisbigliare.

Alessandro tornò alle sue devozioni. Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Aveva fatto incidere la frase sul suo lararium. L’aveva sentita in Oriente, da qualche vecchio ebreo o cristiano. Gli sovvenne uno spiacevole pensiero. Si sollevò sui gomiti. Cercò il ghiottone di corte. Alessandro l’aveva visto mangiare volatili, piume e tutto. Bene, l’onnivoro era in un angolo, dietro agli strumenti musicali di Alessandro. Era rannicchiato con uno dei nani. Nessuno dei due stava facendo caso agli uccelli ornamentali. Fissavano assenti il vuoto. L’ammutinamento sembrava averli prosciugati della vitalità.

«Alessandro, alzati e vieni qui». La voce di sua madre era perentoria.

Adagio, per non sembrare troppo servile, l’imperatore si rimise in piedi.

L’aria era satura di incenso, anche se il fuoco sacro bruciava basso sul suo altare portatile. Doveva ordinare a qualcuno di alimentarlo? Sarebbe stato terribile se si fosse spento.

«Alessandro».

L’imperatore si girò verso la madre.

«La situazione non è irreversibile. Il contadino che le reclute hanno ammantato di porpora non è ancora arrivato. La sua acclamazione attirerà pochi sostenitori tra gli alti ufficiali».

Mamea era sempre brava a gestire le situazioni critiche. Alessandro pensò alla notte della sua ascesa al trono, la notte in cui suo fratello-cugino era morto, e rabbrividì.

«Il prefetto pretoriano Corneliano è andato a prendere la coorte di Emeseni. Loro sono la nostra gente. Il loro comandante Iotapiano è un nostro congiunto. Saranno leali. E anche gli altri arcieri orientali. Porterà gli Armeni e gli Osroeni».

Ad Alessandro non era mai piaciuto Iotapiano.

«Feliciano si è offerto volontario per tornare al Campo Marzio. È coraggioso. Un gesto da uomo». Mamea sfiorò delicatamente i muscoli scolpiti della corazza del prefetto. Alessandro sperò che le voci non fossero vere. Non si era mai fidato di Feliciano.

«L’avidità delle truppe è insaziabile», disse Mamea al figlio. «Feliciano offrirà loro denaro, un’enorme donazione. Le sovvenzioni ai Germani finiranno. I fondi diplomatici saranno promessi ai soldati. E loro vorranno quelli che credono nemici». Abbassò la voce. «Esigeranno la testa di Veturio. Il tesoriere deve essere sacrificato. A parte noi quattro, Feliciano può cedere loro chiunque».

Alessandro osservò il ghiottone. Tra tutti i personaggi grotteschi della corte, il polyphagus era il suo preferito. Era improbabile che gli ammutinati chiedessero la morte dell’onnivoro imperiale.

«Alessandro». La voce di sua madre lo riscosse. «I soldati vorranno vedere il loro imperatore. Quando Feliciano sarà di ritorno, tu uscirai con lui. Dal Foro annuncerai che condividi il loro desiderio di vendetta per le proprie famiglie. Prometterai di marciare alla loro testa contro i barbari che hanno ucciso i loro cari. Insieme libererete quelli tratti in schiavitù ed esigerete tremenda vendetta da coloro che hanno inflitto sofferenze tanto terribili. Parlerai ai soldati come un vero imperator: fuoco e spada, villaggi in fiamme, montagne di bottino, mucchi di cadaveri di nemici. Farai un discorso migliore di quello di stamattina».

«Sì, madre».

Feliciano salutò e lasciò la tenda.

Era mostruosamente ingiusto. Aveva fatto del proprio meglio. Nella luce grigia che precedeva l’alba, si era recato al Campo Marzio con indosso l’armatura ornamentale, era salito in cima alla piattaforma rialzata e aveva atteso con i soldati che avevano rinnovato il giuramento di fedeltà la sera prima. Quando le reclute ammutinate erano uscite dalla semioscurità, si era riempito i polmoni per rivolgersi a loro. Non sarebbe mai stato facile. Il latino non era la sua prima lingua. Non aveva fatto alcuna differenza. Non gli avevano dato la possibilità di parlare.

Codardo! Rammollito! Femminuccia appiccicata al grembiule della madre! Le loro grida lo avevano zittito prima che potesse aprire bocca. Dal suo lato della piazza d’armi, prima uno, poi due e infine interi ranghi avevano abbassato le armi. Aveva fatto dietrofront ed era fuggito. Seguito da risate di scherno e derisione, era tornato precipitosamente agli alloggi imperiali.

Uscito il prefetto Feliciano, Mamea rimase seduta immobile come una statua. Graniano fece per sussurrare qualcosa, ma con un cenno gli ordinò di stare zitto. I piccoli uccelli svolazzavano da una parte e dall’altra.

Alessandro rimase fermo, incerto. Un imperatore non dovrebbe mai essere incerto. «Polyphage». Il grassone si alzò faticosamente e caracollò dietro Alessandro fino al cibo. «Fammi divertire, mangia».

Alessandro indicò una montagna di lattuga in un cesto. Il ghiottone iniziò a mangiare, muovendo indefesso le mandibole, con la gola che ballonzolava. Mangiava con poco entusiasmo.

«Più veloce».

Usando entrambe le mani, l’onnivoro si riempì la bocca di foglie verdi. Presto non ce ne furono più.

«Il cestino».

Era fatto di vimini. Il polyphagus lo spezzò e iniziò a mangiarlo. Anche se sparì nella sua bocca un pezzo dopo l’altro, non era partito all’attacco con la consueta soddisfazione.

Alessandro desiderò di potersi liberare della madre. Ma non c’era nessun altro. Nessun altro di cui fidarsi. Si era fidato della prima moglie che gli avevano dato. Sì, si era fidato di Memmia Sulpicia con tutto il suo cuore. Ma poi il padre di lei, Sulpicio Macrino, aveva complottato contro di lui. Le prove presentate dalle spie imperiali non avevano lasciato spazio ad alcun dubbio. I frumentarii di Volo, il capo delle spie, erano stati meticolosi. Anche prima che Sulpicio venisse torturato, non c’erano stati dubbi. Sua madre aveva voluto che anche Memmia Sulpicia fosse giustiziata, ma Alessandro era stato risoluto: non gli avevano lasciato vedere la moglie, ma aveva commutato la sua sentenza in esilio. Per quanto ne sapeva, era ancora viva da qualche parte in Africa.

L’onnivoro sputacchiò e fece per prendere una brocca.

Più o meno la stessa cosa era successa con la seconda moglie, Barbia Orbiana. Non aveva avuto fortuna con i suoceri.

Il polyphagus bevve un grosso sorso di vino.

Forse sarebbe stato molto diverso se suo padre fosse stato vivo. Ma era morto quando Alessandro era ancora piccolo. Non se lo ricordava nemmeno. Poi, all’età di nove anni, gli avevano detto che Gessio Marciano, l’ufficiale equestre di Arca in Siria del quale ricordava poco, non era affatto suo padre. Era invece il figlio naturale di Caracalla. Ma a quel punto anche Caracalla era morto da un anno o più. Quell’inattesa svolta aveva rivelato che l’imperatore Eliogabalo, da poco sul trono, non era solo suo cugino di primo grado, ma anche suo fratellastro. Si era venuto a sapere che le loro madri, le sorelle Soemia e Mamea, avevano commesso adulterio con Caracalla. E poi Eliogabalo era stato indotto ad adottare Alessandro. Non erano molti i giovani che avevano tre padri pubblicamente riconosciuti prima di compiere tredici anni, due dei quali venerati come divinità e l’altro di appena cinque anni più grande di lui.

Cinque anni più grande e perverso oltre ogni misura. Mamea aveva cercato di proteggere Alessandro da Eliogabalo e dai suoi cortigiani, sia dalla loro malvagità che dalla loro influenza.

Il cibo e le bevande di Alessandro venivano assaggiati prima di essere portati in tavola. I suoi servitori venivano scelti individualmente da Mamea, che non attingeva alla schiera comune del palazzo. Lo stesso avveniva con le guardie. Torme di esperti di letteratura greca e latina e arte oratoria erano stati assunti con costi elevatissimi, insieme a uomini versati nella musica, la lotta libera, la geometria e ogni altra attività considerata adeguata a contribuire allo sviluppo culturale e morale di un princeps. Nessuno era stato scelto per la propria spensieratezza. Dopo l’ascesa al trono molti degli intellettuali erano rimasti a corte, come Graniano, che aveva scalato le posizioni del segretariato imperiale. Il loro nuovo status non aveva certo reso più gradevole la loro compagnia.

Mentre suo fratello-cugino regnava, Mamea aveva tenuto Alessandro al sicuro. Eppure, malgrado i suoi sforzi, oscuri aneddoti di depravazione e vizio trapelavano dagli intimi di Eliogabalo. Alessandro ricordava come, tutt’a un tratto, quelle storie bisbigliate l’avevano turbato ed eccitato. Eliogabalo si era sbarazzato di ogni decenza, dei vincoli di sua madre. Una vita di cene, donne, rose e ragazzi, di futili piaceri su altri piaceri; un edonistico monte Pelio aggiunto al monte Ossa. Una vita che faceva impallidire le fantasie di epicurei e cirenaici. Libertà, potere: la scrupolosa Mamea aveva fatto in modo che Alessandro non avesse occasione di provare simili tentazioni. Ma non lo aveva protetto dalla fine di tutto quanto.

Era una sera buia, le luci delle torce si riflettevano nelle pozzanghere. Due giorni prima delle Idi di Marzo. Alessandro aveva tredici anni, ed era nel Foro insieme a sua madre. Ombre che si muovevano sulle alte colonne del Tempio della Concordia Augusta. I pretoriani avevano consegnato le loro vittime alla folla. Entrambe nude e coperte di sangue. Trascinavano Eliogabalo con un gancio che gli era penetrato nella pancia, conficcandosi nel suo petto. Soemia veniva tirata per le caviglie, le gambe oscenamente divaricate. La testa le batteva sulla strada. Molto probabilmente erano già morti. Mamea aveva osservato il cammino finale della sorella, un viaggio che aveva in parte architettato. Alessandro avrebbe voluto tornare nel palazzo e nascondersi. No, a un segnale di sua madre, i pretoriani lo avevano acclamato imperatore e si erano schierati attorno a lui per portarlo al loro accampamento.

Alessandro si guardò attorno per liberarsi di quell’immagine. Gli occhi gli si posarono su ogni tipo di cibo freddo: angurie, sardine, pane, biscotti. C’era un mucchio di candidi tovaglioli imperiali. Alessandro ne gettò uno davanti a sé. «Mangia questo».

Il polyphagus lo acchiappò, ma non iniziò a mangiare.

«Mangia!».

L’uomo non si mosse.

Alessandro sguainò la spada. «Mangia!».

La bocca spalancata, il polyphagus stava ansimando.

Alessandro gli agitò la spada davanti alla faccia. «Mangia!».

Un mutamento nella luce. Un refolo d’aria nella profumata quiete. Alessandro si voltò di colpo.

Un guerriero barbaro era fermo davanti all’apertura. Era giovane, vestito di cuoio e pelli, capelli lisci e lunghi fino alle spalle. La sua improvvisa apparizione era del tutto inspiegabile. Brandiva una lama nuda. Alessandro si accorse della spada nella propria mano. Poi ricordò. Sapeva da tempo che sarebbe accaduto. L’astrologo Trasibulo l’aveva predetto. In qualche modo trovò il coraggio di sollevare l’arma, ma sapeva che era inutile. Nessuno può opporsi al destino.

Quando i suoi occhi si abituarono alla penombra, il barbaro rimase visibilmente sorpreso. Chiaramente si aspettava di trovare vuota la sala. Esitò, poi si voltò e andò via.

Alessandro scoppiò a ridere, un suono alto e stridulo alle proprie orecchie. Rise e rise. Trasibulo si sbagliava. Era uno sciocco. Aveva frainteso le stelle. Alessandro non era destinato a morire per mano di un barbaro. Né adesso, né mai. Trasibulo non era altro che un ciarlatano. Altrimenti avrebbe previsto la propria sorte, quella che il giorno successivo aveva in serbo per lui. Il palo e le fascine: sarebbe bruciato lentamente, o soffocato dal fumo.

Tutto sarebbe andato a buon fine. L’imperatore lo sapeva. Alessandro aveva affrontato la morte e si era dimostrato all’altezza. Non era un codardo, né una femminuccia. Le loro parole non potevano più ferirlo. Era un uomo.

Insieme al barbaro, sembravano essersi dileguati anche gli ultimi servitori. Perfino il nano era scomparso. Il padiglione era vuoto, tranne che per sua madre sul trono, Graniano accanto a lei e lo stesso Alessandro insieme al polyphagus. Non gli importava. Euforico, si rivolse di nuovo a quest’ultimo. «Mangia!».

C’era una patina di sudore sul volto dell’uomo. Non mangiò, ma si limitò a indicare con il dito.

Adesso sulla soglia c’erano tre ufficiali romani con elmo e corazza. Quello al comando teneva qualcosa in mano. Come il barbaro, aspettarono fino a che non riuscirono a vedere nella penombra.

«Feliciano è tornato». L’uomo che aveva parlato gettò a terra ciò che aveva in mano. L’oggetto atterrò pesantemente, quasi rotolando.

Alessandro non aveva bisogno di guardare per sapere che era la testa dell’alto prefetto.

Gli ufficiali estrassero le spade mentre si addentravano nella tenda.

«Anche tu, Anullino?». La voce di Mamea era controllata.

«Anch’io», disse Anullino.

«Puoi avere denaro, la prefettura della guardia».

«È finita», disse Anullino.

«Alessandro ti adotterà, ti renderà Cesare, il suo erede».

«È finita».

Alessandro andò al fianco di sua madre. Aveva ancora la spada in mano. Non era un codardo, erano solo in tre, e lui era stato addestrato dai migliori maestri di spada dell’impero.

Gli ufficiali si fermarono a pochi passi dal trono e si guardarono intorno, come per comprendere l’enormità delle azioni che stavano per commettere. Il debole raggio di luce si rifletté sulle loro spade. L’acciaio parve scintillare e vibrare minaccioso.

Alessandro fece per sollevare la propria arma. Aveva il palmo viscido di sudore. Capì allora che il suo coraggio era stato momentaneo. Lasciò andare l’elsa. La spada cadde rumorosamente a terra.

Uno degli ufficiali sbuffò di derisione.

Singhiozzando, Alessandro crollò in ginocchio e afferrò la gonna di sua madre. «È tutta colpa tua! Colpa tua!».

«Silenzio!», sbottò lei. «Un imperatore deve morire in piedi. Almeno muori da uomo».

Alessandro seppellì la testa tra le pieghe del tessuto. Come poteva dire quelle cose? Era tutta colpa sua. Lui non aveva mai voluto essere imperatore; tredici anni di autonegazione, noia e paura. Non aveva mai voluto fare del male a nessuno. Non fare agli altri…

Gli ufficiali si stavano avvicinando.

«Anullino, se non ti fermi, verrai meno al giuramento fatto davanti agli stendardi».

Alla voce di sua madre, si bloccarono di nuovo. Alessandro sbirciò furtivo.

«Nel sacramentum non hai giurato di anteporre a ogni cosa la sicurezza dell’imperatore? Non hai giurato la stessa cosa riguardo alla sua famiglia?».

Sua madre aveva un’aria maestosa. Con gli occhi che lampeggiavano, l’espressione determinata, i capelli simili a un elmo crestato, ricordava l’icona di una divinità implacabile, di quelle che punivano gli spergiuri.

Gli ufficiali rimasero incerti.

Era in grado di fermarli? Alessandro aveva letto qualcosa di simile da qualche parte.

«Gli assassini vengono ripagati in misura equa con le sofferenze che gli dèi infliggeranno alle loro case».

Alessandro provò un’ondata di speranza. Era Mario in Plutarco: il fuoco dei suoi occhi aveva fatto desistere gli assassini.

«È finita», ripeté Anullino. «Andate! Uscite di qui!».

L’incanto fu spezzato, adesso la cosa era irrevocabile. Eppure non fecero niente di precipitoso. Era come se fossero in attesa delle ultime parole della donna, pur sapendo che non avrebbero ricevuto alcuna benedizione, ma solo ingiurie.

«Zeus, protettore dei giuramenti, sii testimone di questo abominio. Infamia! Infamia! Anullino, prefetto degli Armeni, io ti maledico. E tu, Quinto Valerio, tribuno del contingente dei Britanni. E tu, Ammonio dei Catafratti. L’oscuro Ade liberi le Erinni, le terribili figlie della notte, le furie che accecano la ragione degli uomini e trasformano il loro futuro in cenere e sofferenze».

Quando finì di parlare, gli ufficiali ripresero a muoversi. Lei li bloccò con un gesto imperioso.

«E maledico il contadino che metterete sul trono, e maledico coloro che lo seguiranno. Che nessuno di essi conosca felicità, prosperità o agi. Che tutti quanti siedano all’ombra della spada. Che nessuno di essi possa guardare a lungo il sole e la terra. Il trono dei Cesari è contaminato. Coloro che vi saliranno, scopriranno a proprie spese di non poter scampare alla punizione».

Anullino sollevò la spada. «Via!».

Mamea non mosse un muscolo.

«Exi! Recede!», ripeté l’uomo.

Anullino si fece avanti. La spada calò. A quel punto, Mamea si mosse. Non poté fare a meno di alzare la mano. Ma era troppo tardi. Alessandro guardò i moncherini delle sue dita, l’innaturale subitaneità dell’ampio squarcio rosso sulla gola della madre, il sangue che sprizzava.

Qualcuno stava urlando, stridulo e ansante, come un bambino. Anullino incombeva su di lui.

«Exi! Recede!».

[1] Magonza.

CAPITOLO 2

Frontiera settentrionale.

Accampamento nei pressi di Mogontiacum

Otto giorni prima delle Idi di marzo, 235 d.C.

Era un burrascoso giorno di primavera, non certo insolito nella Germania superiore otto giorni prima delle Idi di Marzo. Era ancora scuro, piovigginoso, quando erano usciti a cavallo da Mogontiacum. Quando raggiunsero l’accampamento nei pressi del villaggio di Sicilia, era metà mattinata e il sole era alto. I soldati si muovevano tra i ranghi senza pretese di disciplina. Qualcuno salutò, altri no. La maggior parte era ubriaca, alcuni di loro addirittura sul punto di perdere i sensi.

Il gruppo a cavallo smontò. Massimino il Trace stiracchiò il suo corpo massiccio e consegnò le redini a un fante. Il Reno scorreva ampio e scintillante al sole. Le pareti del grande complesso di padiglioni viola si agitavano e schioccavano al vento.

«Da questa parte».

Massimino seguì i senatori Flavio Vopisco e Onorato. C’erano cadaveri nudi nei corridoi. Erano grigiastri, cerei, ricoperti da una patina, come cosparsi di olio.

«Non tutta la familia Caesaris è fuggita in tempo», disse Onorato.

«Servitori e qualche segretario, facili da rimpiazzare», disse Vopisco. «I prefetti pretoriani sono state le uniche vittime di una certa importanza».

Un cumulo di corpi bloccava loro la strada. Le teste dei morti giacevano vicine in una sorta di ultimo conclave.

Massimino pensò allo squallore del sangue e della morte. Non lo sconvolgeva: aveva assistito a svariati massacri, e sin dalla prima volta non aveva lasciato che lo turbassero.

Superarono con cautela i resti umani. Massimino sapeva che sul volto aveva dipinto quello che Paolina definiva il suo cipiglio mezzo barbaro. Pensò alla moglie e sorrise: perfino in quell’età corrotta potevano ancora esserci bellezza, fiducia e amore.

Era buio nella sala del trono. L’atmosfera era soffocante, satura di incenso e sangue, di urina e paura. Anullino e gli altri due ufficiali equestri stavano aspettando.

«La femminuccia è morta». Anullino reggeva la testa mozzata per i corti capelli.

Massimino la prese con entrambe le mani. Come sempre, era sorprendentemente pesante. La avvicinò a sé e ne studiò l’ovale e il naso lungo, la bocca e il mento deboli e imbronciati.

Quel rammollito era davvero il figlio di Caracalla? Sua madre l’aveva affermato, e anche sua nonna: entrambe si erano vantate dell’adulterio. La moralità si era piegata al vantaggio politico, come ci si poteva aspettare da degli orientali.

Massimino portò la testa verso l’apertura, dove poté osservarla da un lato e dall’altro. Certo, aveva visto Alessandro diverse volte in precedenza, ma adesso poteva studiarlo sul serio. Doveva esserne sicuro: il naso non era dissimile; capelli e barba erano tagliati secondo lo stesso stile, ma, malgrado l’incipiente calvizie, i capelli di Caracalla erano più ricci. La sua barba era senz’altro più folta di quella specie di lanugine. Massimino non era un fisionomista, ma la forma della testa era sbagliata: quella di Caracalla era più squadrata, come quella di un toro o un blocco di pietra; e aveva un volto forte, perfino duro. Ben diverso dal giovane delicato e inadeguato.

Massimino si sentì in qualche modo rassicurato. Poche cose potevano essere peggiori che partecipare all’uccisione del figlio del suo vecchio comandante, il nipote del suo grande protettore. Massimino riconosceva che doveva tutto al padre di Caracalla, Settimio Severo. Quell’imperatore l’aveva tirato fuori da una remota oscurità e aveva riposto la sua fiducia in lui. In cambio, Massimino gli aveva dato la propria devozione. Senza pensarci, allungò la mano alla gola e toccò la torque d’oro con cui il suo imperatore aveva insignito il morto.

«Seppellite la testa», disse, «insieme al corpo».

Anullino prese in consegna l’oggetto repellente e andò verso l’ingresso, mentre gli altri due equites macchiati di sangue si addentravano nella sala buia, presumibilmente per recuperare il cadavere. Ma si fermarono tutti a un cenno di Vopisco.

«Imperatore, la tua magnanimità verso il nemico ti fa onore, ma sarebbe meglio mostrare la testa all’esercito, dare ai soldati la certezza della sua morte».

Massimino rifletté sulle parole del senatore. Tranne che in battaglia, non era sua abitudine agire secondo l’impulso del momento. Alla fine, si rivolse ad Anullino. «Fa’ come suggerisce il senatore Vopisco, poi seppelliscila».

Prima che chiunque si muovesse, Onorato parlò. «Imperatore, forse dopo sarebbe bene mandare la testa a Roma, farla bruciare nel Foro o gettarla nella cloaca. Di solito è così che si fa con gli usurpatori».

Per un momento, Massimino pensò che il termine usurpatore fosse rivolto a lui stesso, e la sua ira divampò; ma poi capì. Riusciva ancora a meravigliarsi della creatività con cui i senatori e il resto dell’élite tradizionale erano capaci di riscrivere la storia, sia la propria che quella della Res Publica. Presto sarebbe stato quasi come se non avessero mai acclamato Alessandro imperatore, mai pronunciato giuramenti per la sua incolumità o preso servizio sotto di lui. Tredici anni di regno sarebbero stati ridotti a una fugace rivolta, una temporanea aberrazione durante la quale Roma era stata dominata da un incapace ragazzo siriano e dalla sua intrigante e avida madre. La parte che avevano avuto in quell’effimero regime sarebbe stata sepolta nella più profonda oscurità. Avrebbero detto di aver trascorso quel tempo in tranquillità, lontani dalle vicende pubbliche, nelle loro tenute. Un’educazione costosa era in grado di smussare gli angoli di sgradite verità.

«No», disse Massimino.

«Come preferisci, imperatore», rispose Onorato.

«Non era un Nerone. La plebe non lo amava. Non ci saranno falsi Alessandro. Nessuno schiavo fuggiasco si creerà un seguito fingendosi lui, facendo credere a tutti di essersi salvato e di essere tornato alla ribalta; né a Roma, né in Oriente. E per quanto riguarda il senato…», Massimino fece una pausa, accigliandosi mentre cercava le parole adatte, «…il senato è composto da uomini di cultura. Non sarà necessario sventolargliela in faccia. Non avranno bisogno di un disegnino».

«Quantum libet, imperator», ripeté Onorato.

«Anullino, quando avrai mostrato la testa alle truppe, seppelliscilo. Il corpo intero. Torna a prendere il resto».

L’ufficiale spostò il ripugnante fardello nella mano sinistra e salutò. «Faremo come ci è stato ordinato, e a ogni comando saremo pronti». Gli altri due equites lo seguirono all’esterno.

«Negare a un uomo l’Ade è negare la propria humanitas». Massimino parlò ad alta voce, ma non si rivolgeva a nessuno se non a se stesso mentre si addentrava nella sala. Qualcosa si rigirò sotto il suo stivale: un dito mozzato di netto, con l’unghia perfetta. Quel posto era un mattatoio. C’era sangue ovunque, livido sui tappeti bianchi, più scuro sulle cortine viola. I resti del giovane imperatore giacevano, mutilati e decapitati, vicino al trono. Sua madre, nuda e martoriata, accanto al proprio: entrambi i troni d’avorio erano lordi di sangue.

Come si era giunti a tanto? Massimino non aveva voluto che andasse così. Sapeva che Alessandro era impopolare, tutti nell’esercito ne erano a conoscenza. Forse nei momenti di ubriachezza si era lasciato andare a critiche incaute, ma non aveva idea che le reclute che stava addestrando si sarebbero ammutinate. Dopo che a Mogontiacum gli avevano gettato sulle spalle un mantello purpureo, non era più stato possibile tornare indietro. Se avesse cercato di rifiutarsi, i soldati lo avrebbero ucciso seduta stante, o l’avrebbe fatto Mamea in seguito.

Quasi certamente la rivolta sarebbe stata repressa, e rapidamente (la testa di Massimino sarebbe finita su un palo entro la fine della giornata), se Vopisco e Onorato non fossero arrivati nell’accampamento delle reclute. Vopisco era il governatore della Pannonia superiore, e comandava i distaccamenti legionari provenienti dalla propria provincia e dalla confinante Pannonia inferiore. Onorato era legato dell’Undicesima legione Claudia Pia Fidelis e aveva condotto i distaccamenti delle due province della Mesia lungo il fiume Ister[2]. In totale avevano impegnato le spade qualcosa come ottomila legionari, la maggioranza dei quali veterani.

Tuttavia, niente era sembrato davvero deciso finché Iotapiano non aveva portato loro la testa del prefetto pretoriano Corneliano. Iotapiano era un parente di Alessandro e Mamea, e gli arcieri al suo comando provenivano dalla loro città natale di Emesa. Con la loro diserzione, per l’imperatore e sua madre era venuta a mancare ogni speranza.

Una volta preso un lupo per le orecchie, non si può più lasciarlo andare. No, Massimino non aveva ambito al trono, ma a questo punto era impossibile tornare indietro. Almeno suo figlio avrebbe goduto del nuovo status. Il che, in ogni caso, poteva essere tutt’altro che positivo. A diciotto anni Massimo era già coccolato e viziato più che mai. E Paolina? Cosa avrebbe pensato? Aveva sempre voluto che il marito si facesse un nome, che arrivasse in alto. Ma al soglio più alto dell’umanità? Avendo origini senatoriali, Paolina sapeva bene quanto gli altri disprezzassero i bassi natali del marito.

Gli squarci rossi sul corpo di Mamea erano dolorosi da guardare. Qualcosa dell’anziana donna fece ricordare a Massimino quando, tanto tempo prima, era entrato in un tugurio e per la prima volta si era trovato di fronte ai resti di una famiglia massacrata: una donna e un uomo anziani, e i loro figli.

Si allontanò. C’era una tavola imbandita di cibo e un uomo grasso, enorme, morto ai suoi piedi. Inesplicabilmente, minuscoli uccelli saltellavano tra i piatti. In ogni caso il cibo era freddo. A Massimino non erano mai piaciute le pietanze fredde. Nell’angolo della tenda, un cane sedeva con una testa umana tra le zampe, rosicchiando soddisfatto.

«Imperator».

Vopisco e Onorato erano accanto a Massimino.

«È tempo di parlare alle truppe, imperatore».

Massimino trasse un profondo respiro. Era solo un soldato. Entrambi i senatori avrebbero pronunciato un discorso migliore. Entrambi sarebbero stati imperatori migliori. Ma una volta preso un lupo per le orecchie…

Massimino era solo un soldato. Gli uomini là fuori erano solo dei soldati. Non pretendevano niente di elaborato. Avrebbe parlato loro come a dei compagni, come un commilito all’altro. Sarebbero bastate parole semplici. Avrebbe marciato con loro, diviso le loro razioni, combattuto al loro fianco, condiviso il pericolo. Insieme dovevano conquistare i Germani fino all’oceano. O Roma sarebbe morta. Avrebbe citato le ultime parole del suo vecchio comandante Settimio Severo. Arricchisci i soldati, ignora tutti gli altri.

[2] Il Danubio.

CAPITOLO 3

Roma. Sede del senato

Quattro giorni dopo le Idi di marzo, 235 d.C.

Era ancora buio quando Pupieno uscì dalla

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