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Il trono di Cesare. Il fuoco e la spada
Il trono di Cesare. Il fuoco e la spada
Il trono di Cesare. Il fuoco e la spada
E-book474 pagine6 ore

Il trono di Cesare. Il fuoco e la spada

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Info su questo ebook

«La prosa di Sidebottom risplende di luminosa sapienza.»
The Times

Un grande romanzo storico

Roma, 238 D.C. L’impero è in subbuglio. Quando i due Gordiani, padre e figlio, muoiono in Africa, il Senato, che li ha sostenuti contro l’imperatore Massimino il Trace, elegge altri due senatori, tra i quali divide la porpora imperiale. Ma Roma è debole: per le sue strade scoppia la rivolta e i suoi confini sono perennemente minacciati. Quando Massimino, che punta sulla capitale, arriva davanti alle porte di Aquileia, trova a difendere la città Menofilo, un vecchio amico del giovane Gordiano. Aquileia è in una situazione disperata, può contare su un pugno di uomini mentre Massimino ha con sé il fior fiore dell’esercito imperiale…
In uno dei più grandi assedi della storia dell’impero si deciderà il destino di Roma.

Dall’autore della saga Il guerriero di Roma
Un autore cult da oltre 60.000 copie
Un grande romanzo storico sulla Roma imperiale

«La prosa di Sidebottom risplende di luminosa sapienza.»
The Times

«Meravigliose scene di battaglie, abili tocchi letterari e dialoghi efficaci.»
Daily Telegraph
Harry Sidebottom
Ha conseguito un dottorato in Storia antica al Corpus Christi College. Attualmente insegna Storia all’università di Oxford (con una predilezione per l’antica Roma) e vive a Woodstock. È autore della saga Il guerriero di Roma, che ha appassionato milioni di lettori in tutto il mondo. La Newton Compton ha già pubblicato i primi cinque episodi della serie: Fuoco a oriente, Il re dei re, Sole bianco, Il silenzio della spada e La battaglia dei lupi. Il trono di Cesare. Combatti per il potere e Il prezzo del potere sono i primi episodi di una nuova avvincente saga.
LinguaItaliano
Data di uscita12 dic 2016
ISBN9788822702777
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    Anteprima del libro

    Il trono di Cesare. Il fuoco e la spada - Harry Sidebottom

    en

    1414

    Anche se alcuni eventi e personaggi sono basati su fatti e figure storiche, questo romanzo è interamente un'opera di fantasia.

    Titolo originale: Throne of the Caesars: Fire & Sword

    Copyright © Harry Sidebottom 2016

    Harry Sidebottom asserts the moral right to be identified as the author of this work

    Maps © John Gilkes 2016

    All rights reserved

    Traduzione dall'inglese di Lucilla Rodinò

    Prima edizione ebook: gennaio 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0277-7

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Harry Sidebottom

    Il trono di Cesare

    Il fuoco e la spada

    omino

    Newton Compton editori

    A Richard Marshall

    Un vano corteo, un dramma a teatro, greggi, mandrie, un combattimento di lancieri, un osso gettato in mezzo ai cani, molliche lanciate in una vasca di pesci, formiche cariche e affaccendate, topi impauriti che scappano, marionette tirate dai fili: questa è la vita.

    Marco Aurelio, Pensieri vii.3

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    PERSONAGGI PRINCIPALI

    *

    A Roma

    Pupieno: prefetto della città

    Pupieno Massimo: suo figlio maggiore

    Pupieno Africano: suo figlio minore

    Balbino: patrizio dissoluto

    Gallicano: senatore di convinzioni ciniche

    Mecenate: suo intimo amico

    Tranquillina: ambiziosa moglie di Timesiteo

    Mecia Faustina: figlia del defunto imperatore Gordiano il Vecchio e sorella del defunto imperatore Gordiano il Giovane

    Marco Giunio Balbo: suo figlio

    Cenis: prostituta della Suburra

    L’incisore: suo vicino e cliente, operaio della Zecca

    Ad Aquileia

    Menofilo: senatore di convinzioni stoiche, comandante congiunto delle difese

    Crispino: altro senatore dal contegno filosofico e altro comandante della città

    Nel Nord

    Massimino il Trace: l’imperatore

    Cecilia Paolina: la sua defunta moglie

    Vero Massimo: suo figlio ed erede

    Apsine di Gadara: segretario di Massimino

    Flavio Vopisco: generale

    Anullino: prefetto del pretorio

    Giulio Capitolino: comandante equestre della Seconda Legione Partica

    Dernhelm: giovane ostaggio barbaro, poi chiamato Balista

    Timesiteo: ufficiale di rango equestre, prigioniero e in procinto di essere portato da Massimino

    Onorato: governatore senatoriale della Mesia inferiore sul Danubio

    Giunia Fadilla: moglie di Vero Massimo, in fuga

    In Oriente

    Prisco: governatore di rango equestre della Mesopotamia

    Filippo: suo fratello

    Cazio Clemente: governatore della Cappadocia, sostenitore di lunga data di Massimino

    Ardashir: re dei re sasanide

    * L’elenco completo compare alla fine del libro.

    PROLOGO. AFRICA

    Africa. La città di Cartagine

    Otto giorni prima delle Calende di aprile, 238 d.C.

    «Deponete le armi!».

    Parlando, Capeliano si voltò sulla sella ed esaminò il nemico. Su entrambi i fianchi le leve avversarie fuggivano sotto l’acquedotto, precipitandosi tra le tombe verso l’illusoria sicurezza delle mura di Cartagine. I suoi ausiliari invece, abbandonata qualsiasi disciplina, le inseguivano colpendole alle spalle inermi. Lì al centro, metà dei regolari nemici aveva deposto armi e vessilli e tendeva le mani in gesto di supplica. Solo un migliaio ancora gli si opponeva: la coorte urbana e i giovani che costituivano la posticcia Guardia Pretoriana dei due usurpatori. Bastava convincerli e disarmarli e la vittoria sarebbe stata completa. L’Africa sarebbe tornata a Massimino e la rivolta dei Gordiani soffocata. Non una semplice battaglia, ma un massacro.

    «Deponete le armi, compagni. La vostra lotta è finita».

    Degli occhi spaventati lo fissarono oltre il muro di scudi a pochi passi di distanza. Erano sovrastati in ragione di due a uno. Questi pretoriani addestrati sul posto non erano veri soldati. Non c’era traccia del giovane Gordiano.

    «Il vostro falso imperatore è fuggito. Coloro che vi hanno fuorviati sono fuggiti. Nessun ufficiale a cavallo è rimasto sotto i vostri stendardi».

    Ma il nemico ancora non si muoveva.

    «Rompete il vostro giuramento militare. Siete stati ingannati. La clemenza del vostro vero imperatore Massimino è infinita. Io sono misericordioso. Non ci sarà alcuna rappresaglia».

    Un movimento tra le file avversarie. Un uomo alto e massiccio si fece largo verso la prima linea. Era a capo scoperto.

    Capeliano comprese il suo errore. Il suo rivale non era fuggito.

    Gordiano il Giovane si fece avanti, come una terribile e marziale apparizione.

    Il frastuono del massacro era lontano. In quell’inquietante silenzio, lì nell’occhio del ciclone, Gordiano urlò:

    «Resteremo uniti fino alla fine!».

    Gordiano sguainò la spada, puntandola verso l’uomo che era venuto a ucciderlo.

    «Il vile Capeliano si è messo alla nostra mercé».

    Gordiano era appena a una decina di passi: grande, possente, coperto dalla corazza, stillando minaccia da tutti i pori.

    «Qualche dio deve averlo accecato. Uccidete il cornuto, e la vittoria sarà ancora nostra. Fratelli, con me!».

    Capeliano sentì le membra vacillare per la paura. Solo quattro file di legionari lo separavano da quelle terribili mani assassine.

    «Sieti pronti per la guerra?», gridò Gordiano, e le sue parole tuonarono tra le linee.

    Pronti! Trascinati dall’inebriante rituale di sangue, i nemici urlarono come un sol uomo.

    Pronti!

    Alla terza risposta, andarono alla carica, incuranti delle scarse probabilità di successo.

    Prendendo la rincorsa, Gordiano abbatté lo scudo su quello del legionario più avanzato. L’uomo barcollò all’indietro, cadde in terra, facendo perdere l’equilibrio ai soldati alle sue spalle. Gordiano era al centro della mischia. L’acciaio lampeggiava al sole. Gli uomini si dimenavano e urlavano. Il tumulto ottundeva i sensi. E in mezzo a tutto questo, inesorabile e massiccio, Gordiano avanzava. Un ufficiale al suo fianco uccise un altro legionario.

    Solo tre file proteggevano Capeliano. Questi sentì il coraggio che lo abbandonava. Quando hai superato i cinquant’anni, il cuore ti si restringe, fino a diventare non più grande di quello di un bambino.

    Gordiano uccise un uomo alla sua destra, parò un colpo, colpì il legionario davanti.

    Due file tra Capeliano e la nemesi.

    Era assurdo. Capeliano voltò la testa del cavallo. Il campo di battaglia era suo, tranne per quell’unico punto. Non aveva senso gettare via la propria vita, non con la vittoria in pugno. La sua cavalleria aveva messo in fuga quella avversaria sulla sinistra. Solo una manciata di nemici si era aperta un varco fuggendo verso sud. Ora i suoi numidi stavano galoppando sfrenati verso la città alla ricerca di bottino, stupri e del piacere di uccidere gli inermi, ma i regolari si stavano radunando. Poteva andare da quella parte e osservare al riparo dalla loro formazione le schiaccianti forze dei suoi legionari che abbattevano Gordiano e gli ultimi ribelli.

    Mentre esitava, Capeliano vide Gordiano ricevere un colpo sulla testa priva di elmo. Sanguinante, ma apparentemente incurante come se fosse posseduto da una qualche divinità, Gordiano trafisse con la spada il suo assalitore. Dèi degli inferi, da dove prendeva l’energia quel degenerato? Non c’era modo di fermarlo?

    Solo una fila restava. La prudenza suggeriva di ritirarsi. Capeliano strinse le redini.

    No. Tutto dipendeva da quel momento, da quella fuga, incerto incontro tra ciò che era e ciò che sarebbe stato. Se l’avessero visto fuggire, il morale dei legionari avrebbe ceduto. Il panico si sarebbe propagato come un incendio per tutto il suo esercito. A Gordiano sarebbe rimasta l’unica fanteria disciplinata di tutto il campo. Con quella forza minuscola e raffazzonata, quell’ubriacone avrebbe vinto la più improbabile delle vittorie, avrebbe sconfitto la Terza Legione Augusta, l’unica legione in Africa. Gordiano avrebbe sfilato in trionfo a Cartagine. Gli avrebbero lanciato fiori ai piedi. Gordiano e il suo odioso padre avrebbero continuato a indossare la porpora.

    Capeliano sguainò la spada. L’elsa di osso gli scivolava nella mano, senza offrirgli alcun conforto. Urlò ai suoi uomini con voce incerta:

    «Uccidetelo! Abbattetelo!».

    Ci fu ancora qualche combattimento sulla sinistra. Una lama tagliente quasi recise il collo dell’ufficiale ribelle accanto a Gordiano. Uno schizzo di sangue splendette al sole. L’ufficiale scomparve sotto gli stivali nella mischia. E d’improvviso Gordiano era solo, circondato dall’acciaio.

    «Uccidetelo! È solo, finitelo!».

    Per un attimo gli uomini indietreggiarono come cani attorno a un orso trascinato nell’arena.

    Gordiano ondeggiò spada e scudo da una parte all’altra, cercando di coprirsi, raccogliendo le forze in cerca di un’apertura, di una via verso Capeliano. Il sangue gli sgorgava copioso sul volto entrandogli negli occhi.

    «Per gli dèi, è solo, è ferito. Finitelo!». Capeliano era invaso dalla paura.

    Un movimento alle spalle di Gordiano. Un legionario conficcò con forza la spada tra le scapole del nemico. Gordiano vacillò in avanti. Un altro puntò alla testa. Gordiano alzò lo scudo scheggiato. Troppo lentamente. La lama massiccia e tagliente gli colpì la testa di lato affondando nella mascella.

    «Finitelo!».

    Gordiano era in ginocchio. Un colpo alla nuca lo mandò carponi, e poi tutti gli furono addosso, come un branco di cani feroci che si avventa sulla preda.

    Capeliano urlò esultante. «Fatelo a pezzi. Squartate quel bastardo ubriacone».

    Gordiano era morto! Aveva finito di paragonarsi ad Annibale, ad Alessandro. Era morto! Quello stolto vanaglorioso era morto!

    «Tagliategli la testa. Calpestatelo».

    Quelle avventate parole lo incitarono all’azione. Sì, avrebbe calpestato il suo nemico. Si sarebbe pavoneggiato su di lui come un antico eroe omerico. Capeliano sguainò la spada rimasta inutilizzata e fece per smontare da cavallo.

    Una mano gli afferrò il braccio. Firmano, il primus pilus della Terza Legione. Come osava mettere le mani su un superiore? Capeliano lo avrebbe fatto uscire dai ranghi e frustare a sangue. Il vecchio centurione stava dicendo qualcosa.

    «Gordiano il Vecchio».

    Per le Furie, come era potuto passargli di mente quel vecchio caprone? Era una vita che Capeliano aspettava la vendetta. Ora non gli sarebbe sfuggita.

    Festina lente. Capeliano si dominò. Affrettati lentamente. Prima bisognava assicurarsi il campo. La vendetta degli dèi macinava lenta ma inesorabile.

    Con la morte del giovane Gordiano, gli ultimi uomini avevano cominciato ad arrendersi e gli esperti legionari della Terza già li circondavano. Capeliano impartì confidenzialmente gli ordini a Firmiano a bassa voce.

    «Disarmateli. Separate i pretoriani dagli uomini della coorte urbana. I primi giustiziateli tutti, i secondi lasciateli per la decimazione. Alle quattro coorti che si sono schierate dalla nostra parte senza combattere fate ripronunciare il giuramento a Massimino. Tieni i tuoi legionari sotto i vessilli. Potranno unirsi al saccheggio domani. A risarcimento della perdita riceveranno un donativo».

    Firmano fece il saluto e si allontanò per eseguire gli ordini.

    Capeliano era soddisfatto. I giovani arruolati tra i finti pretoriani avevano istigato la rivolta. Era giusto che pagassero. I soldati regolari della coorte urbana si erano solo schierati dalla parte sbagliata. La decimazione era sufficiente. Sarebbe stata ristabilita la disciplina se un uomo ogni dieci fosse stato percosso a morte dai compagni di tenda. Buona vecchia etica romana. Lo spettacolo sarebbe stato edificante. Massimino avrebbe approvato.

    Sulla sinistra, i cavalieri di Capeliano stavano radunando gli avversari sconfitti. Molti di questi prigionieri erano civili che si erano ribellati al legittimo imperatore. Anche loro, colpevoli di tradimento e sacrilegio, avrebbero dovuto morire. Visto il loro ingente numero, sarebbero stati necessari tutti i cavalieri per sorvegliarli.

    Capeliano considerò il suo stato maggiore: il traditore Sabiniano, due tribuni e quattro cavalieri. In lontananza, le porte di Cartagine erano ancora intasate dal massacro in atto. Era improbabile un’ulteriore resistenza organizzata. Sette uomini a cavallo avrebbero dovuto essere sufficienti a garantirgli l’incolumità. Ora toccava a Gordiano il Padre.

    «Con me».

    Capeliano si avviò verso l’acquedotto e la città.

    Gordiano il Vecchio non gli sarebbe sfuggito. Erano trent’anni che Capeliano alimentava il suo odio. Era un giovane e promettente senatore, destinato a grandi cose. Finché quella puttana della sua prima moglie non gli aveva messo le corna con Gordiano. A dispetto di qualsiasi giustizia, quel vecchio satiro era stato assolto dall’accusa di adulterio. In Senato, tra i cortigiani, Capeliano era diventato uno zimbello. L’inetto che non riusciva a controllare o soddisfare la moglie. La sua carriera si era arrestata. Infine aveva dovuto ipotecare la proprietà per raccogliere il denaro necessario a ottenere il governatorato di una provincia. Invece dell’Asia o dell’Africa proconsolare, province ricche in cui avrebbe potuto rifarsi delle bustarelle e recuperare la sua fortuna, aveva ricevuto la Numidia. Deserti invasi dalle mosche e montagne sterili, popolazione locale intrattabile e tribù selvagge, torrida d’estate e gelida d’inverno; una moltitudine di compiti banali, scarsamente retribuiti; un incarico per senatori di basso rango che non potevano salire più in alto. Il boccone più amaro l’aveva inghiottito quando Gordiano era stato sistemato a Cartagine: un vecchio Sileno che la faceva da padrone nella seconda città dell’impero, rastrellando le ricchezze della vicina Africa proconsolare.

    Cavalcarono sotto l’acquedotto e attraverso la necropoli. I cadaveri freschi erano sparsi tra le sepolture dei loro antenati, come offerte sacrificali di una qualche religione barbarica. Il piccolo corteo superò una tomba pretenziosa in marmo bianco non ancora completata. Capeliano aveva consegnato Cartagine alla soldatesca. Per tre giorni avrebbe fatto ciò che voleva. Provò una cupa soddisfazione al pensiero che quella famiglia colpita da un lutto forse non avrebbe mai più avuto i mezzi per completare il monumento funebre. Se mai qualcuno fosse sopravvissuto per adempiere a quel compito.

    La Porta di Hadrumetum era intasata da morti e agonizzanti. Tirarono le redini e si fermarono. Alcuni ausiliari stavano depredando alacremente i corpi. I cadaveri erano oggetti pallidi, ormai privi di qualsiasi umanità. Capeliano urlò ai soldati di sgombrare il passaggio. Con riluttanza, questi ubbidirono a quel compito indesiderato e non redditizio, alzandosi e spintonandosi mentre si contendevano la preda.

    «Più in fretta cani, se non volete assaggiare la frusta».

    Gordiano il Vecchio non doveva scappare. Capeliano si rivolse a Sabiniano.

    «Cercherà di arrivare al porto?».

    Sabiniano non rispose subito. «Non credo. Facevano affidamento sul loro numero. Non sono stati fatti dei preparativi per la fuga. Non è stata approntata alcuna nave».

    Nulla pareva scomporre la patrizia sicurezza di Sabiniano. La notte prima, era uscito furtivamente dalla città, aveva abbandonato i Gordiani. Nel campo di Capeliano, a dimostrazione del proprio ripensamento, Sabiniano aveva tagliato la gola a un prigioniero. Quel prigioniero era stato il suo più intimo amico. Si diceva che Sabiniano amasse Arriano come un fratello.

    Di un uomo simile non ci si poteva fidare. Sabiniano aveva rivelato l’imboscata preparata dai Gordiani: i cinquemila cavalieri nascosti tra i magazzini e le mura dei laghi di pesca oltre l’ala sinistra di Capeliano, con lo scopo di attaccare il suo esercito sul fianco e procedere verso il fronte. Senza l’intervento di Sabiniano, la battaglia avrebbe potuto aver un esito ben diverso. Capeliano lo guardò con un misto di odio e disprezzo. Ama il tradimento, detesta il traditore.

    «Cosa farà il vecchio?»

    «Opporrà resistenza nel palazzo».

    «Resistenza?». Capeliano non riuscì a celare l’ansia nella voce. «Hanno truppe di riserva?»

    «Un pugno di uomini», fece Sabiniano con un sorriso. «Nulla che possa preoccupare il conquistatore di Cartagine, il novello Scipione».

    Capeliano aveva risparmiato a Sabiniano la vita. Ma la decisione poteva anche venire revocata.

    Sgombrata la strada, entrarono acciottolando nella città.

    Era una visione infernale, il Tartaro, dove i malvagi subiscono la punizione eterna. Corpi, accasciati e nudi. Vecchie e bambini gementi. Oggetti fracassati, case profanate. Odore di vino versato e di bruciato, puzzo di vomito ed escrementi.

    Risalirono la Strada di Saturno, tra i templi di Venere e Salute. Come a smentire quelle divine promesse di Amore e Sicurezza, una giovane matrona arrivò correndo precipitosamente da un vicolo. Alle calcagna, una decina circa di numidi.

    Malgrado tutto, malgrado l’urgenza della sua missione, Capeliano si fermò a guardare.

    I numidi la raggiunsero sui gradini del Tempio di Salus. Mentre la spogliavano, c’era qualcosa di eccitante nelle sue urla acute e disperate. Aveva un corpo bianchissimo, anche le braccia e le gambe: una giovane sposa di buona famiglia, protetta dal sole, casta e pudica.

    Menava colpi alla cieca, ma gli aggressori la piegarono a forza su una bassa balaustra. Aveva le natiche bianche come marmo, il sesso scuro e desiderabile. Il clima caldo invitava i numidi allo stupro, le tuniche ampie e libere ne facilitavano l’atto. Quando il capo la montò, la donna fece appello agli uomini a cavallo.

    Capeliano sorrise: «Salute e grande gioia a te».

    Gli uomini scoppiarono a ridere.

    Non era il momento. Capeliano aveva un desiderio infinitamente più pressante. Non di lussuria, ma di vendetta.

    Entrarono nel Foro, superarono l’altare bianco della Pace e le tavole bronzee che recavano incise le antiche leggi di Roma. Sul lato opposto, soldati e uomini delle tribù andavano e venivano dalle colonne del palazzo del governatore.

    Dalla scalinata scese un prefetto, comandante di una delle coorti di ausiliari.

    «Gordiano il Vecchio è in una piccola sala da pranzo, la cosiddetta Delphix».

    «Vivo o morto?»

    «Morto».

    Prima di smontare da cavallo, Capeliano si rivolse al prefetto. «La tua coorte ha rotto i ranghi, disobbedito agli ordini, inseguito i ribelli. Dopo i tre giorni di licenza verranno impartite delle punizioni».

    L’ufficiale fece il saluto. «Faremo ciò che ci verrà ordinato, e saremo pronti a ogni comando».

    Il colpevole prefetto li guidò per i corridoi del palazzo. Dal profondo del labirinto, attutito da porte intarsiate e pesanti tendaggi, proveniva il suono di una baldoria sfrenata. A Capeliano sovvenne un brano di Polibio studiato ai tempi di scuola. Lo storico greco era rimasto molto colpito dalla disciplina con cui i romani depredavano le città. Nessun soldato si dava al saccheggio prima di aver ricevuto l’ordine. Tutto il bottino veniva accumulato in un punto per essere distribuito in base al rango e al merito. Nessuno teneva nulla per sé. Ma questo avveniva molto tempo prima. Ora le cose erano diverse. Disciplina e virtù erano solo parole. Il costume degli antichi, il mos maiorum, dimenticato, un’espressione e null’altro.

    Nel Delphix, dei soldati in semicerchio stavano come un coro tragico attorno a un uomo impiccato. Una sedia rovesciata e una pozza di liquido sotto i piedi penzolanti. Sul davanti la tunica di Gordiano era umida. Si diceva che un impiccato eiaculasse. A giudicare dall’odore era solo urina.

    Capeliano esaminò la lingua e gli occhi sporgenti. Una morte da codardo. Non l’acciaio, ma la corda. Un suicidio da femminuccia. L’abituale insoddisfazione gli divorava i pensieri. Secondo una profezia, i Gordiani sarebbero morti per annegamento. Capeliano non aspettava altro che tramutarla in realtà. Una botte di vino avrebbe fatto al caso suo. Padre e figlio lo avevano entrambi ingannato.

    «Abbiamo catturato uno dei suoi uomini». Il giovane prefetto era ansioso di fare ammenda.

    L’uomo venne sospinto avanti. Era stato malmenato, gli abiti strappati, braccia e gambe cariche di catene.

    «Nome? Origine? Libero o schiavo?». Capeliano pronunciò l’introduzione di rito di ogni interrogatorio.

    Il prigioniero non rispose. Fissava Sabiniano.

    «Nome?».

    Ora l’uomo rivolse la propria attenzione a Capeliano.

    «Maurizio, figlio di Maurizio, consigliere cittadino di Tsidrus e Hadrumetum».

    Capeliano lo conosceva. «Il catalizzatore di questa malvagia rivolta. Un ultracospiratore».

    Maurizio si raddrizzò nelle catene. «Amico dei defunti imperatori, prefetto delle guardie a cavallo di Marco Antonio Gordiano Romano Africano Augusto, padre e figlio».

    «Un traditore».

    «Non un traditore ma un vero amico». Maurizio guardò nuovamente Sabiniano, con odio. «Un amico leale fino alla morte. Avremmo dovuto saperlo fin dal principio. C’erano tutti i segni. Avremmo dovuto darti ascolto ad Ad Palmam quando dicesti che avresti sacrificato chiunque per la tua salvezza».

    Il volto di Sabiniano non tradì alcuna emozione.

    «Vigliacco! Spergiuro con il cuore di un cervo!».

    «Ti rendi conto che morirai», fece Capeliano interrompendo le sue imprecazioni.

    «Ciò che è terribile, è facile da sopportare». Sul volto di Maurizio si disegnò un sorriso impenetrabile.

    «Verrai torturato».

    «Non potrete farmi del male».

    «Le tenaglie ti strapperanno la carne».

    «Non potranno toccare la mia anima».

    Capeliano si sovvenne di una festa locale, i Mamuralia. «Verrai fustigato per le strade di Cartagine e sarai crocifisso fuori dalla Porta di Hadrumetum, sulla Via Mappaliana».

    «Sono un cittadino di Roma». C’era indignazione nel tono di Maurizio, ma riusciva a dominarsi.

    «No, sei un nemico di Roma. E come hostis, morirai. Portatelo via».

    Maurizio non lottò, ma mentre lo trascinavano fuori dalla stanza urlò: «Morte al tiranno Massimino! Morte alle sue creature! Siete maledetti! Le Furie trasformeranno il vostro futuro in cenere e sofferenza!».

    Capeliano si rivolse al prefetto: «Che ne è stato degli altri amici dei pretendenti?»

    «Tutti quelli di rango sono morti sul campo di battaglia, tranne Emilio Severino, chiamato anche Fillirio. Qualche giorno fa ha avuto l’ordine di recarsi a sud per riunire i ricognitori di frontiera. Insieme agli speculatores doveva radunare i barbari oltre il confine».

    «Gli daremo la caccia. Daremo la caccia a tutti i loro seguaci, in lungo e in largo». Capeliano avvertì un’ondata di piacere. Aveva sempre amato la caccia; uomini o animali non faceva alcuna differenza.

    «Alcuni domestici – Valente, l’a cubiculo, e alcuni altri schiavi e liberti – sono scappati. C’era una nave veloce che li attendeva al molo del porto esterno».

    Capeliano si girò verso Sabiniano. «Mi avevi detto che non avevano approntato alcuna nave».

    Sabiniano non rispose.

    «Ci hai portati qui. Stavi cercando di lasciarlo fuggire?»

    «No». Sabiniano torse leggermente in giù la bocca. «Ieri notte ti ho dato prova del mio ripensamento».

    Quella lievissima e involontaria smorfia aveva tradito il patrizio? Capeliano non ne era certo. Il traditore Sabiniano doveva essere sorvegliato, ma per il momento Capeliano accantonò quel pensiero.

    Il cadavere era ancora lì.

    «Tiratelo giù».

    I soldati si dedicarono a quel compito, trascinando sedie e sorreggendo le gambe del morto.

    Capeliano si chiese cosa potesse aver indotto il suo antico nemico e quel fannullone del figlio ad aspirare al trono. Sicuramente non un senso di giustizia o del dovere. Erano concetti arcaici, pensabili ai tempi della libera Res Publica, ma ormai fuori moda e inadatti alla degradata età dei Cesari. Capeliano sapeva cosa motivava gli uomini sotto un’autocrazia. Nient’altro che lussuria e bramosia. Soprattutto quest’ultima: bramosia di potere e di ricchezza. Alla sua età avanzata, forse il padre aveva pensato ci fosse ormai poco da perdere, che non sarebbe stato male morire rivestito della porpora. Quanto al figlio, i suoi pensieri erano intorbiditi dal vino e dalla depravazione, la sua mente era insana. Ma in ogni caso, in qualche momento di lucidità, dovevano essersi resi conto che avrebbero perso. Nell’Africa proconsolare non era di stanza alcuna legione. Da tempo ormai era chiaro a tutti che gli imperatori potevano anche essere proclamati lontano da Roma, ma mai senza il sostegno delle legioni.

    Il cadavere era stato tirato giù.

    «Tagliategli la testa. Verrà mandata a Massimino».

    Un soldato si mise a compiere quell’opera da macellaio.

    Ma la testa sarebbe arrivata a Massimino? Contro qualsiasi aspettativa, il Senato di Roma si era dichiarato a favore dei Gordiani. L’Italia si era schierata con i ribelli. Le flotte di Miseno e Ravenna controllavano i porti. La testa avrebbe dovuto risalire l’altra sponda dell’Adriatico, sbarcare in Dalmazia e poi viaggiare via terra per cercare Massimino sulla frontiera del Danubio.

    Una decapitazione non era mai semplice. Continuando a segare, il soldato scivolava in una pozza di sangue.

    E cos’era ormai il Senato? Tutti traditori. Massimino era trace, cresciuto da soldato. Il perdono non era una virtù coltivata da nessuno dei due. Il Senato non poteva aspettarsi alcuna pietà. Esecuzioni e confische: un olocausto. In pochi sarebbero sopravvissuti. Le grandi casate si sarebbero estinte. Le proscrizioni di Silla e Settimio Severo sarebbero state niente al confronto.

    La testa era tagliata. Il sangue aveva creato una pozza sul pavimento di marmo, inzuppando i raffinati tappeti.

    «Conservatela in un orcio di miele. Massimino vorrà vedere il suo sguardo».

    Il Senato non poteva aspettarsi alcuna pietà. Tutta la sua esperienza e perizia nell’arte del negoziato sarebbe stata inutile. Il Senato avrebbe dovuto proclamare un altro imperatore. Persuasione tessalica: necessità camuffata da scelta. Ma chi avrebbe rivestito di porpora? Sicuramente un governatore con truppe a disposizione. Massimino era con l’armata danubiana. Decio in Spagna era un suo fedele seguace. Il Senato si sarebbe rivolto a un governatore del Reno oppure della Britannia? O avrebbe inviato un dispaccio coronato d’alloro a uno dei grandi comandanti dell’Oriente? O forse, ma solo forse, avrebbe focalizzato lo sguardo su qualcuno più a portata di mano? Un uomo collaudato sul campo, un uomo che aveva rovesciato gli imperatori, un uomo che teneva in pugno tutta l’Africa?

    «Gettate il resto del corpo nel Foro per i cani».

    Alcuni ritenevano che l’ambizione fosse un vizio, altri la consideravano una virtù. Capeliano era incline alla seconda opinione. Ma fare l’imperatore voleva dire giocare col fuoco. Molto meglio essere l’uomo dietro al trono dei Cesari. Capeliano esaminò Sabiniano. I traditori potevano avere una loro utilità.

    PARTE PRIMA. ITALIA

    CAPITOLO 1

    Roma. Tempio della Concordia

    Sei giorni prima delle Calende di aprile, 238 d.C.

    «Morti? Entrambi? Ne sei certo?».

    In piedi al cospetto del Senato di Roma, l’anziano liberto non mostrava disagio dinanzi alle brusche domande del console.

    «Gordiano il Giovane è morto sul campo di battaglia. Quando Gordiano il Vecchio mi ha ordinato di portare in salvo ciò che restava della sua casa, era deciso al suicidio».

    Licinio Rufino si sporse dalla tribuna consolare. «Con lui c’era la sua guardia del corpo?»

    «Era solo».

    «Non l’hai visto togliersi la vita?».

    Che senso aveva? Pupieno si mise comodo, fece scivolare lo sguardo per il vasto interno del tempio, corse sulle miriadi di sculture e pitture, in parte in penombra. Valente era stato da sempre l’a cubiculo di Gordiano il Vecchio, sin da prima del diluvio. Lo aveva servito bene quando il padrone era in vita, e avrebbe fatto lo stesso ora che era morto. Non c’era motivo di mettere in dubbio la sua testimonianza. Gli imperatori che il Senato aveva acclamato erano morti. Nessun interrogatorio li avrebbe riportati in vita.

    Di fronte a Pupieno, sulle teste dei senatori era appeso un dipinto di Zeusi. Marsia era legato a un albero mani e piedi, nudo, già contorto in attesa del supplizio. Ai suoi piedi lo schiavo scita affilava il coltello levando lo sguardo verso l’uomo a cui ben presto avrebbe strappato la pelle. Ora che Gordiano era morto, ogni senatore presente nel tempio avrebbe potuto aspettarsi un simile destino quando Massimino fosse sceso dal nord e avesse conquistato Roma. Massimino era trace, un barbaro. I traci non erano dissimili dagli sciti; alieni alla ragione e alla pietà. La clemenza non era nella loro natura.

    Valente venne congedato e uscì. Pupieno provò invidia per l’anziano ex schiavo. L’anonimato della sua posizione avrebbe potuto rivelarsi la sua salvezza. Pupieno non poteva sperare altrettanto. Nessuna speranza per l’uomo nominato prefetto della città per conto dei Gordiani. Nessunissima per l’uomo complice dell’assassinio del suo predecessore Sabino, designato da Massimino. Troppo tardi per un ripensamento, e il compromesso non era un’opzione. Si doveva trovare un’altra ed estrema soluzione.

    Il magistrato Licinio che presiedeva il dibattito invitò i Padri Coscritti a dare la loro opinione.

    Nel silenzio teso, Pupieno si rigirò, al dito medio della mano destra indossava l’anello contenente il veleno.

    Con gran sollievo di tutti, Gallicano chiese il permesso di rivolgersi all’adunanza.

    Pupieno guardò con sfavore l’oratore. La barba e le chiome arruffate e sporche, una toga semplice, niente tunica, piedi nudi: un ostentato sfoggio di antiche virtù. Gli mancavano solo un bastone e una sacca per le elemosine e sarebbe stato un redivivo Diogene. Pupieno pensava che i filosofi stoici dovessero astenersi dalla politica; di sicuro non avrebbero dovuto possedere le qualità patrimoniali necessarie a un senatore. Sperò di riuscire a dissimulare il proprio disprezzo.

    «Un tiranno sta per piombarci addosso. Un mostro macchiato di sangue innocente. Padri Coscritti, dobbiamo ritrovare il nostro avito coraggio».

    Sacrosanto, ma Pupieno rifletté che ci voleva ben più della retorica. Erano necessarie proposte specifiche in quel disperato frangente. Il Senato odiava Massimino per gli assassinii di amici e parenti, per le continue esazioni allo scopo di finanziare le interminabili guerre a nord. Lo odiava per la mancanza di rispetto dimostrata nei suoi confronti. Dall’ascesa al trono, non aveva mai messo piede nella Curia, né tantomeno a Roma. E infine i senatori lo disprezzavano perché non era uno di loro. Quando era giunta la notizia della rivolta dei Gordiani in Africa, era parsa una manna divina. Il Senato aveva loro decretato la porpora, aveva interdetto Massimino e il figlio, li aveva dichiarati nemici di Roma. Il Senato aveva agito in fretta. Aveva giocato d’azzardo e aveva perso. Ora non poteva fare altro che rigiocare. Un ultimo lancio di dadi: eleggere un nuovo imperatore.

    «Un famelico tiranno sta arrivando dal selvaggio nord. Dobbiamo difendere le nostre famiglie, le nostre case, i templi dei nostri dèi. Dobbiamo metterci in prima linea. Eleggere un altro tiranno con la speranza che ci difenda da quello che si sta ormai avvicinando è una follia».

    Quelle parole irritarono Pupieno. Non era stato ancora menzionato alcun candidato. Era troppo presto per le invettive personali. A meno che… non è che Gallicano aveva in mente di proporre quel folle piano che aveva ventilato a casa di Pupieno tre anni prima, quando era giunta la notizia dell’assassinio dell’imperatore Alessandro Severo?

    «Ponete un uomo al di sopra della legge, e diventerà un senza legge. Il potere corrompe. Anche se si trovasse un uomo di tale virtù da resistere alla tentazione, un uomo che governasse per gli altri e non per se stesso, la storia ha dimostrato che gli eredi della sua posizione sarebbero dei tiranni, che governano per il proprio perverso piacere».

    I membri della conventicola filosofica guidata da Mecenate, amico intimo di Gallicano, gettarono indietro le pieghe delle consunte toghe e applaudirono. La maggioranza dei senatori, vestiti decisamente meglio, rimase in silenzio.

    «Non sto suggerendo nulla di nuovo, nulla di alieno. Gli dèi non vogliano che si vada a istituire una democrazia radicale. Il passato ateniese dimostra la rapidità con cui questa istituzione scivola verso un governo della plebe. Non propongo nemmeno che siamo noi senatori a prendere il potere, a governare come aristocrazia. Ogni stato del genere si è inevitabilmente deformato in oligarchia, dove pochi ricchi calpestano i concittadini. No, sostengo invece il ritorno al nostro governo avito. Roma divenne grande sotto una repubblica libera. Ogni ceto sociale conosceva i propri doveri e la propria posizione. I consoli incarnavano l’elemento monarchico, il Senato quello aristocratico, le assemblee del popolo la democrazia. Tutto era in perfetto equilibrio. Da repubblica Roma sconfisse Annibale. Da repubblica Roma sconfiggerà Massimino. Abbiamo già eletto un collegio di venti uomini per proseguire la guerra. Non abbiamo alcun bisogno di un imperatore, alcun bisogno di un autocrate che ci metta i piedi in testa. Padri Coscritti, non abbiamo bisogno di niente per ripristinare la repubblica. La provvidenza degli dèi che vigilano su Roma ha fatto rivivere la repubblica. Cogliamo la nostra libertà! Che libertas sia la nostra parola d’ordine!».

    Gallicano, personificazione dell’integrità arcaica, guardò con aria di sfida le immobili panche dei togati. Si fece avanti Mecenate e, cingendo con il braccio le spalle dell’amicus, gli disse qualcosa all’orecchio. Gallicano sorrise, non più rabbioso cane cinico ma, malgrado i suoi quaranta e passa anni, giovane incerto in cerca di approvazione.

    Pupieno fu leggermente sorpreso quando prese la parola Fulvio Pio. L’innocuità, non la capacità, aveva fatto di lui un console e poi un membro del Collegio dei venti. La sua carriera non si era distinta né per autonomia di pensiero o azione,

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