Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Non ferire mai una DONNA
Non ferire mai una DONNA
Non ferire mai una DONNA
E-book332 pagine2 ore

Non ferire mai una DONNA

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

"Non ferire mai una DONNA", un'opera di Silvana Di Donna
LinguaItaliano
Data di uscita11 nov 2022
ISBN9791221409550
Non ferire mai una DONNA

Correlato a Non ferire mai una DONNA

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Non ferire mai una DONNA

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Non ferire mai una DONNA - Silvana Di Donna

    PROLOGO

    Interamna Nahartium

    Italia, bassa Umbria

    agosto 295 a.C.

    Aranth smontò da cavallo, tolse l’elmo e, barcollando, si andò a sedere sulla sponda del fiume. Amava guardare la corrente estiva del Nahàr, mentre carezzava i levigati ciottoli affioranti. La giornata era stata torrida, anche se in fondo positiva per la difesa dei confini. Per questo, ora che era quasi giunto al villaggio, aveva deciso di sostare in quel luogo che da sempre gli infondeva serenità.

    Specialmente al tramonto.

    La sera, ormai prossima, era particolarmente tersa e il cielo a occidente si stava già tingendo di rosso. Si tolse gli schinieri, poi il cingulum. Ispezionò quindi la ferita al fianco, subita in combattimento, e per un attimo gli dispiacque che non fosse stata letale.

    Forse l’avrebbe meritato.

    In quel bucolico sciabordio si soffermò infatti a riflettere su quanti secoli erano trascorsi fin dall’arrivo dei suoi Avi in quelle terre lussureggianti.

    Non poteva accettare che il destino avesse deciso, proprio ora, che sarebbe stato lui l’ultimo re di un popolo Umbro libero. Eppure, come sempre, prima di guidare le sue truppe al fianco degli alleati contro le legioni romane, aveva fatto sacrificare i buoi più grassi sull’Ara del sacro monte Uspergolau Elate, a sud est del villaggio. In una notte di plenilunio e in onore di Marte Grabovio.

    Ma tutto era stato inutile.

    Solo pochi giorni prima, nell’accampamento dei Galli a Sentino, re Gellio Egnazio dei Sanniti aveva pianificato, con lui e Vel Lathites - re degli Etruschi - la strategia di guerra migliore per sorprendere e spazzare via, una volte per tutte, il grosso dell’esercito romano. Prima di marciare alla conquista della sua Capitale. Dalle consultazioni si era convenuto di non raggruppare le forze in un solo accampamento, per non fornire alcun vantaggio in caso di imprevisti attacchi dei romani. E di scendere poi in combattimento in modo disgiunto.

    Sanniti e Galli avrebbero affrontato le quattro legioni romane di Publio Decio Mure e Fabio Massimo Rulliano.

    Etruschi e Umbri avrebbero invece assalito il loro Castrum, ormai pressoché sguarnito dal grosso dei ranghi. Decimato le riserve e poi preso le legioni alle spalle. Chiudendole in una morsa fatale.

    Purtroppo non era andata così.

    Mentre all’alba si stavano approntando gli schieramenti alleati, da Clusium era giunto un messaggero etrusco che riferiva di un violento attacco alla città e ai confini Umbri ed Etruschi da parte di un altro esercito romano. Era guidato dai Pro Pretori Gneo Fulvio e Lucio Postumio Megello.

    Lui e Vel Lathites si erano quindi dovuti precipitare coi loro eserciti in difesa delle rispettive terre, abbandonando lo scontro.

    ***

    «Mio signore, speravo tanto di trovarvi qui. Le prime notizie, giunte dal confine a nord ovest, parlavano di una battaglia sanguinosa da parte del nostro esercito. Sfortunatamente non fornivano alcun dettaglio sulla vostra sorte. Conoscendovi ero certo che, se Giove Grabovio vi avesse protetto come meritate, avrei avuto la fortuna di trovarvi di nuovo in questo luogo che amate profondamente.»

    Aranth, voltandosi, accennò un sorriso stanco. «Larth, mio fedele servitore, tu che mi conosci assai bene sai che solo qui il mio cuore trova la pace che gli serve» disse, mentre annuiva col capo. «E’ vero, le notizie sulla crudezza del confronto rispondono purtroppo a verità. Le nostre terre sono in salvo, ma a quale prezzo! E chissà per quanto tempo ancora lo saranno».

    Il suo sguardo si fece serio mentre penetrava quello di Larth.

    «I nostri valorosi soldati hanno indotto alla fuga i romani, sfaldando infine le loro fila con la cavalleria. Le perdite della fanteria, però, sono state durissime per la difesa futura delle nostre valli e dei nostri sacri monti. Circa venticinque mila valorosi Umru-Nahàrki sono morti per ottenere questo inutile successo».

    «Perché parlate di inutile successo? Ho sentito raccontare che oltre ad aver respinto ed umiliato l’armata nemica, un manipolo di nostri frombolieri, dopo aver ferito l’Aquilifer in fuga, ha addirittura conquistato il vessillo romano con l’aquila d’oro, riportandolo in città come trofeo. Mai nessuno era riuscito a farlo contro le legioni romane!».

    «Guarda oltre il tuo naso, mio caro Larth, come ti ho sempre raccomandato nel corso della nostra lunga amicizia. Non basterà la conquista di un vessillo, anche se prestigioso, a fermare Roma. La fine del nostro popolo è segnata.

    Non abbiamo più un esercito degno di tale nome, né abbastanza uomini giovani e forti per poterlo ricostituire in fretta. Né potremo più contare su Galli e Sanniti che sono appena stati spazzati via per sempre a Sentino. Compreso il loro valoroso re, Gellio Egnazio, che è caduto».

    Nel dirlo le sue braccia scivolarono lungo i fianchi, in una sorta di resa emotiva totale. «I romani, grazie alle loro innumerevoli conquiste ed alleanze al sud, sono ormai come formiche che sciamano per gettare il loro seme altrove e presto anche tutti noi saremo assoggettati al loro dilagante avanzare».

    Trasse quindi un sospiro spossato e aggiunse, «ora lasciami solo con i miei pensieri, avrò bisogno del tuo prezioso contributo più tardi. Vieni da me un’ora dopo la cena. Ciò di cui ho bisogno da te questa volta è della massima importanza. Non posso aspettare oltre. E’ vitale per le speranze future del nostro popolo».

    Rincasò poco dopo, prima che quel miracolo di colori all’orizzonte fosse sopraffatto dall’abbraccio inesorabile delle tenebre. Uliàth, sua moglie, si voltò. Vedendolo, lo accolse in un tenero abbraccio che trasmetteva tutto il terrore dell’attesa e la gioia del ritorno del Suo re. Lui le carezzò i capelli in un rassicurante gesto d’amore e le baciò la fronte, tenendole il viso tra le sue grandi e ruvide mani. La guardò fisso negli occhi. Non parlarono mai.

    Si sedette quindi al vecchio tavolo di legno e si fece portare da lei un volumen in pelle di capra, un calamus ed un atramentarium. La ferita al fianco poteva attendere, prima aveva un impegno da assolvere.

    Scrisse quindi un messaggio in latino arcaico, prima di mangiare una scodella di brodo con dei pezzi di pane.

    Velthur, finis populi nostri in his terris propre est. Circum fibula in medium revolutionis convertat, et tabulam fibulae hic in terra quaere et sequere viam ad Stellam nivis. Quaere, o fili, geminum minor maris tui et cubile Custodis. Inveni feminam secundaefibulae et suum thesaurum ad Umrum redde.

    ***

    Il buio era calato rapido e silenzioso ad avvolgere il villaggio sulle rive del fiume Nahàr, come una rassicurante e discreta coltre nera. Le stelle pulsavano indecise e alternate nel cielo come sempre, in una danza ridondante dell’Eternità. Pochi fievoli rumori e brusii rompevano la magica quiete che permeava le vie ormai vuote.

    Larth indugiò un attimo sulla soglia prima di entrare. La levatura morale ed il fiero e severo aspetto di Aranth, nonostante la grande fiducia e considerazione che gli concedeva da anni, lo mettevano da sempre a disagio.

    Lo facevano sentire piccolo, quasi un fanciullo bisognoso di protezione, ogni volta che si trovava di fronte a lui.

    Una sola lucerna, in terracotta, dispensava una flebile luce nella piccola stanza. Appena sufficiente ad intravedere le sagome umane al suo interno. Aranth - dopo che sua moglie gli aveva lavato la ferita con cura, l'aveva cosparsa di unguento e lo aveva fasciato - giaceva ora su un fianco nel suo letto di paglia.

    Era visibilmente provato.

    «Avvicinati figliolo e ascoltami attentamente», sussurrò. «Dovrai consegnare una sarcina e un nuntius di estremo valore a mio figlio ormai lontano. E tu, Uliàth, porta due boccali e della birra per me e Larth». Una leggera smorfia di dolore gli incurvò le labbra prima di riprendere a

    parlare. «Sono trascorsi già tre lustri da quando Velthur è partito con tutta la sua famiglia e un pugno di valorosi guerrieri alla volta delle terre di origine dei nostri antichi Avi. L’antica lingua e la saggia cultura Yamna-Kurgan che ci hanno tramandato, ha sempre esercitato su di lui un enorme ascendente. Ha alimentato come fuoco vivo la sua giovane e irrequieta natura, spingendolo a risalire ai luoghi d’origine per carpirne l'essenza».

    «Ricordo che anche io ho avuto modo di conoscere le preghiere recitate nell’antico linguaggio degli Avi. Si è ormai quasi perduto, purtroppo, mescolandosi nei secoli con l’etrusco e il latino».

    Aranth sorrise mentre i suoi occhi ebbero un bagliore improvviso che non gli aveva mai visto prima. «No Larth, l’antica lingua Yamnaya e i saggi insegnamenti che nasconde non sono perduti. Sono ben custoditi.

    Da me, Aranth, Re di tutti gli Umru-Nahàrki.

    Per questo ora sei qui. Per far si che venga salvaguardata per sempre la memoria ed il tesoro di una stirpe gloriosa!»

    Larth trasalì. Veramente sarebbe stato lui il latore di un bene così prezioso?

    «Prego, parlate. Poter assolvere ad un vostro ordine o desiderio sarà per me un ulteriore onore».

    «Lo so figliolo, per questo affido a te il compito. Sei l’unico di cui mi possa fidare ciecamente». Gli pose una mano sulla spalla e la strinse appena, per affermare la sua totale stima nei suoi confronti. «Lo scorso anno, all’equinozio di primavera, un messaggero di Velthur mi ha recapitato sue notizie. Due lustri e mezzo or sono hanno raggiunto le terre a nord tanto desiderate e si sono insediati in un territorio vicino a un antico mare circoscritto dalle terre. Gli Elleni lo chiamano Euxine. Me ne ha inviato una mappa»

    Immagine

    Gliela porse mentre si versava della birra, poi riprese a parlare. «Lì vi ha fondato un nuovo piccolo villaggio, vicino a una città di pacifici coloni Milesi chiamata Borysthenes. Tu andrai da lui e gli consegnerai questo».

    Si girò lentamente in posizione supina e, allungando il braccio sinistro - gemendo per il dolore procurato dal pur breve movimento - da sotto il giaciglio, appena accostato al muro, estrasse un involto di pelle essiccata di pecora. Era assicurato, a ogni estremità e nel mezzo, da stringhe dello stesso materiale. Dopo aver rimosso i legacci lo svolse con cura e ne trasse un rotolo in pelle di capra, delle tavolette di legno vecchissimo e due fibule d’oro. Le tavolette erano inscritte su entrambi i lati con dei caratteri per Larth incomprensibili.

    La superficie era stata trattata con grasso animale per preservarle dalla marcescenza del tempo e dagli attacchi dei parassiti.

    «Sono nove tabulae antichissime. Le prime sette conservano le prescrizioni rituali dei nostri avi per parlare con gli Dei a nome delle nostre comunità» lo informò Aranth, guardandolo fisso e severo negli occhi.

    «Contengono procedure rigorose e immutabili, tramandate di generazione in generazione da oltre 5000 anni. Non sono destinate al misero mondo esterno, ma solo a pochi eletti. Persone degne e pure, come i Re e i nobili Sacerdoti che intercedono per tutte le singole tribù Umru. Tramite esse si officiano da sempre rituali e sacrifici sacri per guadagnare la benevolenza divina e ottenere la salute di uomini e bestie, oltre alla prosperità dei campi. Seguendo rigorosi modi e tempi di una liturgia perfetta».

    Bevve un primo sorso di birra, si asciugò col dorso della mano la folta barba e i baffi, e proseguì. «Le ultime due, le più piccole di tutte - insieme alle fibulae d’oro e al volumen invece - contengono gli indizi e la mappa per giungere al tesoro custodito da me e da tutti i re che mi hanno preceduto fin dalla notte dei tempi. A partire dal primo re: Komerus Galleo, figlio del Dio Gianus. Esso è stato nascosto da sempre, e da ognuno di noi, nello stesso rifugio. Il tesoro appartiene al nostro popolo e ora che la valanga romana sta per abbattersi inesorabile su tutti noi, voglio che le nove tabulae sacre e le due fibulae vengano custodite da mio figlio Velthur. Dovrà solo cercare di decifrare quanto ho scritto per lui nel volumen, ma so già che ci riuscirà.

    Un giorno, se il destino vorrà, con quel tesoro potrebbe riconsegnare queste nostre magnifiche terre ai suoi discendenti».

    Larth trasalì, «dunque, da quanto ho potuto fin qui capire, voi siete l’unico a conoscere l’antico significato di quella lingua perduta, dei suoi rituali e perfino della mappa del nostro tesoro»?

    «No. non sono il solo. Nel timore che queste antichissime tabulae potessero andare distrutte o irrimediabilmente danneggiate nel tempo, ho provveduto a farle riprodurre in bronzo insieme alle due fibulae. Ho affidato la delicata opera a Reth di Narnia-Nahàrs, mastro fonditore. Le ho poi portate e consegnate in custodia, personalmente, alla Confraternita Atiedia di Iguvium perché le celasse gelosamente, soprattutto ai romani».

    «E vi siete fidato a tal punto di mastro Reth? Non potrebbe svelare a chiunque un tale inestimabile segreto»?

    «Non lo farà, Larth. Lo sfortunato mastro Reth, subito dopo aver compiuto il suo lavoro, si è imbattuto in una freccia che gli ha trapassato il cuore».

    Larth abbozzò un sorriso complice mentre rimirava le due fibule d’oro.

    Si stava interrogando sulla loro oscura funzione.

    Immagine

    Immagine

    PARTE PRIMA

    1

    Roma

    mercoledì 28 marzo, ore 06,02

    «Jacques, scendi subito da quel cazzo di letto e precipitati qui. Ti do venticinque minuti!». Clic.

    Non mi ha lasciato neanche il tempo di dire pronto, ‘sto stronzo pensò Jacques Damato mentre si stropicciava gli occhi.

    Francesco Serra, il suo capo, era solito contattarlo alle ore più impensate del giorno e della notte, pretendendo ogni volta la massima e immediata disponibilità. Qualsiasi cosa stesse facendo in quel momento passava in secondo piano. Comandi asciutti e decisi che lo mandavano proprio fuori dai gangheri, anche se era ben conscio che quelle erano le regole del gioco.

    Totò scrollò la testa col tipico clap clap delle sue orecchie, saltò giù dal letto, si stirò di gusto davanti e dietro, fece un giro su stesso e lo fissò scodinzolando. Io sono pronto, sembrò dire.

    Era così pimpante che pareva quasi avesse chiamato lui al telefono.

    Era il suo staffordshire bull terrier tigrato, di sei anni. Somigliava più a un trattore che a un cane, considerando la sua possente stazza fisica in rapporto alla sua altezza.

    Ventidue chili di devozione, di amore incondizionato e, all’occorrenza, di sconsigliabile ferocia. Su quarantacinque centimetri di altezza.

    Lo aveva adottato quattro anni prima, tirandolo fuori da un lager per cani a Napoli. Da lì la decisione di ‘battezzarlo’ con quel nome. Corto, efficace, simpatico.

    «Buongiorno figliolo» disse

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1