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I 100 delitti della Sicilia
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E-book336 pagine3 ore

I 100 delitti della Sicilia

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Un appassionante viaggio attraverso i crimini più efferati di un’isola ricca di fascino e mistero

Attraverso una serie di crimini, questo libro narra i mutamenti di un’isola segnata dal cortocircuito tra arcaismo e modernità. Si comincia dal brigantaggio siciliano – attivo a ridosso del Risorgimento, ma che vede una nuova fiammata nel secondo dopoguerra – per proseguire con i “classici” delitti di mafia, che si ripetono con identici rituali di morte anche nel terzo millennio. E poi quelli che sono stati chiamati i “femminicidi”, omicidi di donne uccise da uomini che dicevano di amarle; ma anche i crimini che hanno avuto come vittime i bambini, spesso da parte di quella stessa mafia che desiderava dipingersi come difensore dei deboli, oppure colpiti proprio dove avrebbero dovuto essere maggiormente protetti: il cosiddetto “nido familiare”.
Sindacalisti e uomini delle istituzioni, politici e intellettuali prestati al giornalismo, persone comuni ed eroi solitari, assassini accanto a esseri umani meravigliosi, che avrebbero meritato più tempo su questa terra: I 100 delitti della Sicilia dà la parola a ciascuno di loro, non per trarne una morale, ma perché ci sono storie che meritano di essere raccontate.

I fatti di sangue che hanno cambiato per sempre il volto del nostro Paese

• I Vespri siciliani
• Il poliziotto Joe Petrosino
• Il bandito Salvatore Giuliano
• La strage di Ciaculli
• Giuseppe Impastato da Cinisi
• Quattro buone ragioni per uccidere Boris Giuliano
• Il comunista Pio La Torre
• Carlo Alberto Dalla Chiesa, il Generale
• Il finanziere Michele Sindona
• Il giudice Rosario Livatino
• L’imprenditore Libero Grassi
• Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
• La storia di Denise
• Il piccolo Loris
Vincenzo Ceruso
Nato a Palermo, dove vive, già docente di Filosofia del diritto e diritti umani a Catania, lavora presso la Consulta delle culture del Comune di Palermo. Ha collaborato con il Centro studi Pedro Arrupe, con il Comitato Addiopizzo e con Amnesty International, e prima ancora, per circa vent’anni, presso la Comunità di Sant’Egidio con minori a rischio devianza. Ha scritto su diverse testate. Con la Newton Compton ha pubblicato Le Sagrestie di Cosa nostra, Uomini contro la mafia, Dizionario mafioso/italiano italiano/mafioso, Il libro che la mafia non ti farebbe mai leggere, I nuovi boss (insieme a Bruno De Stefano e Pietro Comito) e I 100 delitti di Sicilia.
LinguaItaliano
Data di uscita16 nov 2015
ISBN9788854188068
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    I 100 delitti della Sicilia - Vincenzo Ceruso

    375

    In questa ricostruzione si fa riferimento a varie inchieste giudiziarie, alcune delle quali sono ancora in corso. Il volume ricostruisce vicende di cronaca nel massimo rispetto dei principi di verità, continenza e pertinenza. Tutte le persone coinvolte o citate a vario titolo, anche se condannate nei primi gradi di giudizio, sono da ritenersi penalmente innocenti fino a sentenza definitiva.

    Prima edizione ebook: novembre 2015

    © 2015 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-8806-8

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Librofficina

    Progetto grafico: Carol Gullo

    Realizzazione: S.F.V.

    Foto: © Shutterstock

    Vincenzo Ceruso

    I 100 delitti della Sicilia

    Un appassionante viaggio attraverso i crimini più efferati di un’isola ricca di fascino e mistero

    Esistono nella notte cento paesi di Sicilia,

    e in tutti c’è lo stesso odore di freddo e di paura:

    cento paesi come il mio altrettanto perduti;

    ognuno col suo diluvio d’ottobre,

    la sua domenicale pazzia,

    il suo poveruomo assassinato tra i fichi d’india,

    con gli occhi sbarrati. Non c’è da prendersela

    con nessuno: abbiamo un cielo difficile come un destino, siamo gente infelice.

    Gesualdo Bufalino, La luce e il lutto (Sellerio, Palermo 1988)

    Sempre se lo ripeteva che la genesi di ogni delitto

    risiede in due passioni primarie: la fame e l’amore.

    Essi si declinano, mescolandosi all’infinito, diventando

    l’una brama di potere, prevaricazione, invidia;

    e l’altro gelosia, solitudine, disperazione.

    E armano le mani, generando una confusa voglia di sangue

    E di giustizia che si spegne solo nella morte.

    Maurizio de Giovanni, Vipera (Einaudi, Torino 2012)

    A Giovanni Lo Porto,

    un giusto siciliano

    ucciso lontano dalla sua terra

    perché amava tutte le terre.

    A Sergio Farruggia

    un cristiano valdese,

    un amico fraterno.

    Introduzione. Fenomenologia del delitto

    Nel giugno 2015, a Palermo, un uomo si ferma a un distributore di benzina in piazza Lolli. È un pensionato dall’aspetto ordinario, si chiama Mario Di Fiore. Sembra un uomo tranquillo, anzi, sembra il nonno che tutti vorremmo avere. Ordina il pieno ma, al momento di pagare, protesta con il benzinaio perché il prezzo gli sembra eccessivo: 67 euro invece delle 60 a cui è abituato. Ritiene di essere stato truffato. La discussione degenera e il signor Mario estrae la pistola che porta con sé. Il benzinaio, Nicola Lombardo, ha appena il tempo di dare ai poliziotti che lo soccorrono una descrizione dell’uomo che gli ha sparato. Trasportato in ospedale, morirà quasi subito. Nel tempo intercorso tra il delitto e la cattura dell’omicida, le ipotesi sul movente si moltiplicano. E anche ad arresto avvenuto, pochi sembrano credere alla realtà: un uomo ha ucciso perché si è sentito defraudato di sette euro. Il questore di Palermo, in un’intervista, pone una domanda chiara: «Bisogna capire perché un uomo come Mario Di Fiore debba andare in giro armato»¹. Già, perché un pensionato incensurato sente la necessità di armarsi e, alla prima occasione, ammazzare un suo simile? Semplicemente perché ritiene di avere subito un torto?

    Lo scrittore palermitano Davide Camarrone ha descritto l’uomo come

    lo specchio di una normalità silente che in questa città gira con la pistola, reagisce allo sgarbo con il pensiero dell’omicidio, a volte con la parola – «t’ammazzo» – di tanto in tanto, al termine di questa escalation psicotico/mafiosa, spara: ecco, vedete, io faccio davvero quello che voi vi limitate a pensare e a dire².

    Purtroppo, le cronache nazionali ci dicono che questa normalità omicida appartiene ormai al vasto orizzonte metropolitano. Il delitto è lo specchio di un Paese.

    Questo libro vuole essere una sorta di Antologia di Spoon River siciliana, ispirata alle vicende di uomini, donne e bambini assassinati o spariti nelle circostanze più diverse. A volte, leggerete una sola pagina, nata nel tentativo di dare un tratto significativo di una storia o di una vita; o perché c’è un particolare, un dettaglio, un passaggio, che ha reso quella morte meno anonima. Un elenco che mette l’uno accanto all’altro individui che spesso hanno in comune una sola cosa: «All, all, are sleeping on the hill»³. Sì, tutti dormono sulla collina ma, se ci mettiamo in ascolto, sono molto diverse le parole che ciascuno di loro usa per raccontarci la propria vita. Attraverso i delitti, il libro narra i mutamenti di un’isola segnata dal cortocircuito tra arcaismo e modernità. Si comincia dal brigantaggio siciliano, a ridosso del Risorgimento, che vede una nuova fiammata nel secondo dopoguerra; per proseguire con i classici omicidi di mafia, che si ripetono con gli identici rituali di morte anche nel terzo millennio. E poi quelli che sono stati chiamati i femminici, omicidi di donne colpite da uomini che dicevano di amarle; ma anche i tanti bambini (piccoli è la parola ripetuta per indicarli), spesso uccisi da quella stessa mafia che amava dipingersi come difensore dei deboli, oppure colpiti dove avrebbero dovuto essere maggiormente protetti, il cosiddetto nido familiare.

    Ma cambiano i tempi e cambia il modo in cui si muore.

    Sindacalisti e uomini delle istituzioni, politici e intellettuali prestati al giornalismo, persone comuni ed eroi solitari, assassini accanto a uomini e a donne meravigliosi, che avrebbero meritato più tempo su questa terra: il libro dà la parola a ciascuno di loro, non per trarne una morale, ma perché ci sono storie che meritano di essere raccontate.

    Storie che la collina non può tenere per sé.

    Ascoltiamo un poeta siciliano, questa volta, Salvatore Quasimodo:

    Oh, il Sud è stanco di trascinare morti / in riva alle paludi di malaria, / è stanco di solitudine, stanco di catene, / è stanco nella sua bocca / delle bestemmie di tutte le razze / che hanno urlato morte con l’eco dei suoi pozzi, / che hanno bevuto il sangue del suo cuore⁴.

    La Sicilia trascina i suoi morti un anno dopo l’altro, a volte un secolo dopo l’altro, come avviene quando un crimine non trova giustizia. Qualcuno, anni addietro, ha provato a classificare i delitti nella sola provincia di Palermo, utilizzando il metodo dell’indagine sociologica e prendendo in considerazione due periodi di tempo, contrassegnati da un’escalation mafiosa: 1966-67 e 1978-84. I due autori dell’analisi, Giorgio Chinnici e Umberto Santino, delineavano una classificazione dei fenomeni delittuosi in base a quelle che definivano «le matrici criminali a cui le vittime rimandano»⁵; e proponevano la seguente catalogazione per i delitti esaminati: mafia, delinquenza comune, interessi economici, onore-passione, familiare, vendetta, ordine pubblico, matrice non individuata⁶.

    I casi da me descritti, seppure desunti dall’intero territorio siciliano, possono rientrare nella stessa ripartizione, con qualche modifica. Due vistose eccezioni sono date dal brigantaggio post-Risorgimentale e dal banditismo dopo la seconda guerra mondiale; mentre viene trattata una categoria di delitti che è stata recentemente classificata mediante un neologismo, quello di femminicidio. Inoltre, all’epoca in cui i due studiosi scrivevano, non erano presenti sul territorio altre organizzazioni criminali rilevanti, oltre alle cosche mafiose. In particolare, negli anni Ottanta si manifestava la Stidda, una costellazione di bande criminali composte spesso da fuoriusciti dal sodalizio mafioso, che mutuavano i metodi della ex casa madre. La stessa Cosa nostra, in questi anni, ha cambiato (ancora una volta) pelle, per adattarsi al nuovo orizzonte di un mondo globalizzato⁷.

    I delitti di matrice mafiosa occupano necessariamente uno spazio consistente nel libro, dovuto al particolare condizionamento che il sodalizio criminale ha avuto sulla storia siciliana. I crimini di mafia presentano notevoli tratti di continuità per un lungo arco di tempo, che coincide con la vita della stessa organizzazione mafiosa; sotto altra prospettiva, è possibile osservare, soprattutto a partire dagli anni Settanta del Novecento, una propensione sempre più accentuata da parte di Cosa nostra alla contrapposizione rispetto allo Stato. I cosiddetti delitti politici sono espressione di questa volontà di potenza. All’inizio degli anni Novanta, la mafia sembra quasi mutare la propria natura, per divenire in toto un’organizzazione terroristica, che puntava a una strategia stragista ed eversiva fuori dal perimetro siciliano. Ma vedremo anche come tale dinamica fosse già stata adottata con frequenza dall’associazione criminale in Sicilia, da oltre trent’anni. In questa sede ci occuperemo solo di alcuni delitti esemplari avvenuti per mano mafiosa⁸.

    Rifacendoci quindi a quanto già esposto, le matrici dei reati che tratteremo possono essere così catalogati: brigantaggio, crimini di guerra, femminicidi, delitti politici, delitti comuni, delitti in famiglia, assassini mafiosi. Ma analizzare tante uccisioni porta inevitabilmente a riflettere sul senso della violenza. Esiste una violenza senza scopo, ma quasi tutti gli autori di reato che incontreremo in questo libro hanno agito violentemente in base a precisi calcoli di costi e benefici che la loro iniziativa avrebbe comportato.

    Anche nel caso dei cosiddetti femminicidi, non è possibile parlare di violenza inutile. Gli autori dei crimini ritenevano che l’eliminazione della propria vittima avrebbe consentito loro di ridurre considerevolmente il dolore da essi stessi provato, a causa di una separazione o di un rifiuto. Anche quando questi crimini riguardano creature innocenti come i bambini, la violenza contro di loro ha lo scopo di punire un congiunto o di eliminare un possibile testimone. Esistono infine le vittime casuali, rimaste coinvolte per puro caso in scontri a fuoco o aggressioni di altra natura. Ma, anche in questo caso, è possibile dire che gli assassini non avessero messo in conto, tra i possibili costi della propria azione, l’uccisione di innocenti?

    Uno spazio, per quanto piccolo, lascia intravedere quell’immensa tragedia che è la morte di migliaia di migranti nel Mediterraneo. Uomini, donne e bambini morti nel tentativo disperato di raggiungere le nostre coste. Uomini, donne e bambini che avevano il diritto, secondo le norme internazionali, di raggiungere le nostre coste, senza dover mettere a rischio le proprie vite per questo. Uomini, donne e bambini che fuggivano alla guerra, alle persecuzioni o, semplicemente, cercavano una speranza.

    Nel mese di marzo del 2015 si è tenuto a Palermo un convegno, al termine del quale è stata redatta una carta⁹. Il sindaco del capoluogo siciliano, Leoluca Orlando, ha inviato la Carta di Palermo ai maggiori leader europei e mondiali. Vi è scritto che la mobilità è un diritto umano e che occorre abolire il permesso di soggiorno:

    Unione Europea – troppo spesso ne sottovalutiamo o ne stravolgiamo il significato a causa di logiche contabili, speculative, finanziarie – è un esempio straordinario di volontà di convivenza e coesione a partire dal suo essere una unione di minoranze. In Europa nessuno è maggioranza per ragioni identitarie: non i tedeschi né i musulmani, non gli ebrei o i francesi. Nessuna identità è maggioranza. In Europa si sono, coerentemente, rifiutate schiavitù e pena di morte. È tempo che l’Unione Europea promuova l’abolizione del permesso di soggiorno per tutti coloro che migrano, riaffermando la libertà di circolazione delle persone, oltre che dei capitali e delle merci, nel mondo globalizzato¹⁰.

    L’orizzonte indicato nella Carta può apparire utopistico, ma, da una parte, occorre considerare che nel documento sono indicate anche soluzioni e percorsi concreti, attuabili immediatamente, nell’attuale quadro normativo, o con opportune modifiche alla legislazione europea: l’apertura di corridoi legali di ingresso per lavoro, garantire la libera circolazione dei profughi in Europa, rivedere il sistema di accoglienza italiano, per evitare che diventi «un nuovo canale per riprodurre le clientele ed una fabbrica di emarginazione che peserà su tutti»¹¹, semplificare tutte le procedure per l’iscrizione anagrafica e al Servizio sanitario nazionale, senza distinzione tra migranti e cittadini, garantire effettivamente la tutela nei confronti dei minori stranieri non accompagnati, superare «l’arcaico riferimento allo ius sanguinis»¹²; dall’altra parte, bisogna tenere conto che la storia ci ha abituato ad accelerazioni impensabili e che, spesso, le sollecitazioni più feconde sono venute dalla periferia, non dal centro, rispetto al potere economico e finanziario. Dalla Sicilia può allora venire una nuova visione dei rapporti tra gli uomini, nell’epoca che chiamiamo della globalizzazione. Ha scritto sempre Davide Camarrone: «Le migrazioni di cui parliamo sono la nostra condizione di vita: esse si costituiscono come processo ordinario e punto di vista originale: ci consentono di spiegarci il mondo»¹³.

    Infine, alcune delle morti di seguito menzionate non sono frutto di delitti in senso proprio, poiché a volte non è possibile individuare una volontà di uccidere. Se ho scelto di inserire queste storie nell’elenco, è perché esse rinviano a un contesto più largo, qual è per esempio la malasanità nell’isola, in cui la loro morte è maturata; oppure perché raccontano un disprezzo per la vita altrui che, a volte, a parte ogni considerazione penale, è divisa da una sottile frontiera rispetto a una volontà vera e propria di offendere. Ma, al di là delle motivazioni degli agenti, le storie che raccontiamo sono state scelte perché lasciano intravedere non solo le tragedie, ma le trasformazioni nella vita di un intero popolo, osservate nell’arco di un lungo periodo storico. Per descrivere l’isola e il suo genius loci, Gesualdo Bufalino distingueva la solitudine dall’isolitudine. Con questa parola voleva esprimere il fatto che

    è destino di ogni isola essere sola nell’angoscia dei suoi sigillati confini; infelice e orgogliosa di questo destino. Donde viene che i suoi figli, stretti tutt’intorno dal mare, sbanditi dalla florida terraferma, prede ricorrenti d’ogni razza di marinai, quindi obbligati a mescersi con cento sangui stranieri, siano spinti a farsi isole dentro l’isola e a chiudere dall’interno la porta della propria solitudine col presuntuoso proposito di rovesciare le parti, diventando a loro volta carcerieri e tiranni del mondo…¹⁴

    Ogni storia qui narrata appartiene a quest’isola e ai suoi confini, aperti controvoglia al mondo e a una continua migrazione di esistenze, culture e sentimenti, che rende ciascuno di noi migrante di altre vite.

    ¹ http://livesicilia.it/2015/06/25/la-facile-arte-del-delitto-palermo-e-lassuefazione-alla-violenza_642109.

    ² D. Camarrone, post della sua pagina Facebook del 30 giugno 2015.

    ³ E. Lee Masters, L’antologia di Spoon River, Einaudi, Torino 1947, p. 2.

    ⁴ S. Quasimodo, Lamento per il Sud, in Id., Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1960, p. 193.

    ⁵ G. Chinnici – U. Santino, L’omicidio a Palermo e provincia negli anni 1960-66 e 1978-84, Università di Palermo, Palermo 1986, p. 10.

    ⁶ Ivi, p. 11.

    ⁷ G.C. Marino, Globalmafia, Bompiani, Milano 2011, pp. 114-125.

    ⁸ Una parte dei delitti di mafia qui considerati è stata da me trattata, con ben altra ampiezza e con un diverso approccio, nei diversi saggi già pubblicati, nel corso di circa un decennio, su riviste locali e nazionali. Rimando in particolare al mio Uomini contro la mafia, Newton Compton, Roma 2012, per una loro trattazione particolareggiata.

    ⁹ Convegno internazionale

    IO SONO PERSONA

    , dalla migrazione come sofferenza alla mobilità come diritto, Palermo, 13-15 marzo 2015.

    ¹⁰ Carta di Palermo, p. 3.

    ¹¹ Ivi, p. 5.

    ¹² Ivi, p. 8. La nuova legge approvata alla Camera si è mossa nella direzione auspicata dalla Carta e prevede, tra l’altro, l’introduzione dello ius culturae, per cui può ottenere la cittadinanza il minore straniero, nato in Italia o entrato nel nostro Paese entro il dodicesimo anno di età, che abbia frequentato regolarmente per almeno cinque anni uno o più cicli di studio o seguito percorsi di istruzione e formazione professionale.

    ¹³ D. Camarrone, Letterature migranti, «InComune», n. 0, Novembre 2015, p. 12.

    ¹⁴ G. Bufalino, Saldi d’autunno, Bompiani, Milano 1990, p. 17.

    1. I Vendicosi o i Beati Paoli (1186)

    Una leggenda può commettere un delitto? Non è un’ipotesi da escludere. Del resto, se a una leggenda si può intestare una strada – come ha fatto il Consiglio comunale di Palermo con apposita delibera tra il 1873 e il 1874 – si crede abbastanza nella sua esistenza da attribuirle perfino dei delitti.

    Nel capoluogo siciliano, sulla via omonima, troverete anche una targa, su cui è indicata appunto la sede dei Beati Paoli, cioè il luogo da cui si accedeva a una galleria e che conduceva a una sala sotterranea. Qui si sarebbe riunito un tribunale segreto, che decideva della vita e della morte degli accusati, in base a criteri di giustizia stabiliti dalla stessa tenebrosa congregazione. Ecco perché, in un libro che tratta di delitti commessi in Sicilia, non abbiamo il diritto di escluderla. Come ha scritto lo storico Francesco Renda: «Se la gente ci crede, i Beati Paoli sono realmente esistiti»¹⁵.

    Spiegava infatti il grande intellettuale:

    Siano o non siano esistiti i Beati Paoli, si trovino o non si trovino le carte finora mancanti che comprovino con certezza la loro tenebrosa attività giustiziera, ciò che soprattutto importa è il dato inconfutabile – di ben più sostanziale importanza – che nella memoria siciliana si è formata da tempo, e ancora vive e resiste, una robusta tradizione, insieme popolare e letteraria, che vuole e considera quella setta come un momento precipuo e significante del plurisecolare intreccio della storia isolana¹⁶.

    Archiviata la questione della loro esistenza, il mito dei Beati Paoli ci interessa in quanto riporta una modalità ricorrente con cui la violenza viene rappresentata in Sicilia: una setta di vendicatori che, di fronte all’inerzia dei pubblici poteri, si organizza per punire in maniera efficace e brutale la prepotenza dei forti sui deboli. Va detto che si tratta di mito moderno, che connette l’isola alle correnti culturali del romanticismo europeo, anche se da noi ha trovato espressione letteraria più modesta sebbene più popolare, perché non vi è a Palermo chi non conosca la storia dei Beati Paoli. Soprattutto tra gli abitanti del quartiere del Capo, in cui si trova la presunta sede storica della setta, quasi nessuno dubita della veridicità della leggenda. In particolare, la versione di Luigi Natoli, scritta alla fine dell’Ottocento, prende le mosse dal complotto di un nobile spietato contro la cognata, rimasta vedova, e il figlio di lei, legittimo erede delle ricchezze del casato¹⁷. Le poche fonti documentarie fanno risalire la prima manifestazione della setta al 1186, sotto il dominio normanno in Sicilia: «Sorse in questo anno nel Regno di Sicilia una certa setta di uomini vani, i quali si facevano chiamare Vendicosi, e tutti i mali che potevano commettere, portavano ad effetto non il giorno ma la notte»¹⁸.

    Il marchese di Villabianca, i cui opuscoli sono consultabili presso la Biblioteca comunale di Palermo, raccontava dei Beati Paoli alla fine del Settecento. L’aristocratico siciliano non dubitava della loro esistenza, ed è con lui che «formalmente la cultura ufficiale siciliana accoglie e legittima la tradizione popolare della setta»¹⁹. Altra questione, non trascurabile, è quella per cui il riferimento ai Beati Paoli attraversa tutta la storia della mafia, secondo una linea ideologica che vuole rappresentare gli uomini d’onore come «espressione della società tradizionale»²⁰. La credulità popolare è stata alimentata nel corso dei secoli dalla reale esistenza, nel sottosuolo di Palermo, di una miriade di tunnel e cunicoli, in parte resti di un complesso cimiteriale cristiano risalente al

    IV

    secolo. Secondo la vulgata, le antiche gallerie sarebbero stati utilizzati anche da capimafia intenti a sfuggire alla giustizia. Talvolta, però, la vox populi coincide con le indagini della magistratura. Nel 2005 la Direzione distrettuale antimafia effettuò una vera e propria radiografia delle strade di Bagheria, alle porte di Palermo. In particolare, vennero prese di mira le vie intorno alla clinica di Michele Aiello, il re della sanità privata siciliana. Oltre a essere l’uomo più ricco della regione (i magistrati gli avrebbero sequestrato in seguito un patrimonio di oltre ottocento milioni di lire²¹), Aiello era sospettato di avere ospitato e curato nella sua struttura sanitaria il latitante più ricercato e longevo della storia della mafia, Bernardo Provenzano da Corleone²². Gli investigatori avevano più di un motivo per cercarlo nella clinica di Aiello: l’imprenditore, qualche anno dopo, verrà condannato per associazione mafiosa²³. Gli inquirenti avevano più di un motivo

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