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A Podhum io scrivevo sui muri
A Podhum io scrivevo sui muri
A Podhum io scrivevo sui muri
E-book600 pagine7 ore

A Podhum io scrivevo sui muri

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Info su questo ebook

C’è una data per noi italiani che ogni anno passa senza tanto clamore. Da sempre. Nessuno ha interesse a ricordare. Non porta voti, elettoralmente non fabbrica consenso. È il 12 luglio 1942, il giorno del massacro di Podhum. Ma lì non fu versato sangue italiano, ma sangue degli slavi. Eravamo noi i carnefici, gli altri le vittime. Il copione all’opposto che vedrà, già solo dopo quindici mesi, i primi eccidi delle foibe slave. Ma se oggi quel crimine (quello degli italiani uccisi in terra di Jugoslavia o sul confine) ha trovato un padrone, che mediaticamente lo manovra a proprio uso e consumo politico, dell’altro crimine (quello dei massacri italiani in terra di Jugoslavia o sul confine) resta sempre tabù parlarne. Rincresce dire che noi italiani non siamo ancora maturi per riconoscere le colpe dei nostri padri e dei nostri nonni. Perché? Cosa c’è di diverso? Questa pubblicazione fa luce su vicende note e meno note dell’eccidio di Podhum a 80 anni dall’avvenimento.
LinguaItaliano
EditoreVentus
Data di uscita1 giu 2022
ISBN9791221345575
A Podhum io scrivevo sui muri

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    Anteprima del libro

    A Podhum io scrivevo sui muri - Rinaldo Battaglia

    podhum_fronte.jpg

    © Pubblicato da Ventus

    Marchio editoriale indipendente

    Disponibile in rete e in libreria

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    Rinaldo Battaglia

    A Podhum io scrivevo sui muri

    A Podhum io scrivevo sui muri

    Rinaldo Battaglia

    12 luglio 1942, anno XX dell’Era Fascista

    Se non si apre la porta al passato,

    la verità resterà ancora fuori

    e gli errori, inevitabilmente, si ripeteranno.

    Dedicato a chi sa che il dolore è senza frontiere,

    non conosce confini, non distingue bandiere.

    Sommario

    Premessa

    Contesto storico

    Introduzione

    Capitolo 1: Podhum non esiste

    Capitolo 2: un’associazione a delinquere

    Capitolo 3: una domenica senza Messa

    Capitolo 4: l’altra metà del cielo

    Capitolo 5: prima gli italiani

    Capitolo 6: il dolore degli altri

    Bibliografia

    Ringraziamenti personali

    Ringraziamenti generali

    «La pace richiede quattro condizioni essenziali:

    verità, giustizia, amore e libertà.»

    Papa Giovanni Paolo II

    Premessa

    C’è una data per noi italiani che ogni anno passa senza tanto clamore.

    Da sempre. Nessuno ha interesse a ricordare. Non porta voti, elettoralmente non fabbrica consenso.

    È il 12 luglio 1942, il giorno del massacro di Podhum.

    Ma lì non fu versato sangue italiano, ma sangue degli slavi.

    E come diceva Fabrizio de André: Il dolore degli altri è dolore a metà.

    Chi conosce la mia passione per la storia contemporanea del nostro paese, ricorda che ho dedicato molto tempo allo studio al crimine delle foibe, tanto da arrivarne a scrivere un libro (La colpa di esser minoranza – ed. AliRibelli).

    Con altrettanta onestà intellettuale, vedo però che se il crimine delle foibe (quello degli italiani uccisi in terra di Jugoslavia o sul confine) ha trovato un padrone, che mediaticamente lo manovra a proprio uso e consumo politico, dell’altro crimine (quello dei massacri italiani in terra di Jugoslavia o sul confine) è sempre tabù parlarne. Soprattutto oggi.

    Rincresce dire che noi italiani, a differenza di altri paesi, non siamo ancora maturi per riconoscere le colpe dei nostri padri e dei nostri nonni.

    Perché? Cosa c’è di diverso? E questa diventa così inevitabilmente – ora – colpa nostra.

    Mi permetto, pertanto, nell’80° anniversario di Podhum di raccontarvi un qualcosa di quella criminale vicenda.

    Nella speranza di farvi nascere domande in merito. E quando qualcuno si ritrova delle domande, poi le risposte (le proprie risposte non quelle altrui, da altri manovrate) di certo arriveranno.

    La Storia insegna, la Storia illumina. La Storia va tenuta in memoria più della password del p.c. o della combinazione dell’allarme di casa. La Storia è sempre grande maestra, se agli alunni interessa crescere.

    Ma in Italia conviene davvero far crescere il nostro paese? Conoscere la verità scomoda?

    Martin Luther King, poco prima di esser ucciso nel 1968, in un comizio pronunciò una frase che mi ha sempre colpito e che mi permetto ora qui – indegnamente – di riprendere per dare un senso a queste pagine: Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla, per cambiarla.

    Parimenti Fëdor Michajlovič Dostoevskij, un secolo prima, scriveva che chi cerca la verità fa spaventosamente paura a chi detiene il potere, qualsiasi potere, economico, politico, mediatico (ammesso che vi siano differenze) che sia.

    O se vogliamo restare su personaggi più di attualità, amo riprendere le parole di Desmond Tutu (Premio Nobel per la pace 1984, deceduto pochi mesi fa), parole più mai eloquenti e semplici:

    Se siete neutrali in situazioni di ingiustizia, avete scelto la parte dell’oppressore.

    Questo libro – nel mio piccolo – spero sia una goccia, modesta ma utile, nella battaglia contro l’oceano dell’ignoranza storica, oggi più che mai palese anche ai ciechi.

    E forse dopo 80 anni sarebbe opportuno non sprecare altro tempo.

    Se vogliamo veramente un’Italia migliore, se non per noi, almeno per i nostri figli e i figli dei nostri figli. Non meritano di vivere nell’ignoranza o, se il termine disturba, in troppa non–conoscenza, quella che ha caratterizzato il mio e il nostro tempo.

    Non lo meritano per davvero.

    Contesto storico

    Il massacro di Podhum è solo una delle tante atrocità, generate dal nostro progetto di sterminio delle popolazioni slave, sui territori da noi annessi e conquistati dopo l’invasione della Jugoslavia, nell’aprile 1941.

    Era un progetto molto chiaro, ben studiato, dove nulla era lasciato al caso.

    Tutto partiva dal 1°marzo 1942 quando il generale Mario Roatta, comandante in capo della Seconda Armata e lunga manus di Mussolini in quelle terre, firmava la Circolare 3–C, dagli storici definita come la dichiarazione di guerra al mondo civile slavo. Una bibbia di 200 pagine, consegnata a ogni ufficiale del Regio Esercito e che si basava su due punti focali:

    1) lo spopolamento delle popolazioni slave, tramite la deportazione dei civili in campi di concentramento fuori–zona e il massacro dei ribelli che armi in pugno si opponevano, inevitabilmente, al progetto, ma anche dei potenziali ribelli, vale a dire tutti i maschi dai 15 ai 65 anni, a prescindere dalla loro colpevolezza o meno.

    2) l’arrivo in massa di italiani, in loro sostituzione, dopo aver attivato la bonifica etnica della zona, come era già avvenuto con successo nelle terre paludose dell’Agro Pontino. Ma là i nemici da sconfiggere e da sostituire erano le zanzare.

    La sintesi venne riepilogata in un nuovo comandamento: «non dente per dente, ma testa per dente». Non così bene codificato, ma già realizzato con altrettanto successo e gloria, in terra di Abissinia, solo pochi anni prima. Magari ricorrendo là anche all’uso dell’iprite, contravvenendo a tutte le regole internazionali, firmate anche dallo stesso Mussolini, a Ginevra nel luglio del 1929.

    Si può, anche in questo caso, utilizzare il termine spaventoso di Soluzione Finale. Solo 38 giorni prima della promulgazione della nostra Circolare 3–C, sul lago Wannsee nella notte tra il 20 e il 21 gennaio ’42 Reinhard Heydrich e i suoi fidi collaboratori, tra cui Adolf Eichmann, per conto di Hitler e Himmler, definirono il piano operativo per lo sterminio totale di 12 milioni di ebrei.

    I nazisti puntavano a eliminare tutti gli ebrei dalle terre da loro conquistate in Europa, noi italiani – più in piccolo – tutti gli slavi dalla fetta di Jugoslavia di nostra competenza. Con ovvio reciproco aiuto e fattiva collaborazione.

    La Storia ci ha scritto come andò a finire, con pagine di ignobili atrocità e con atroci conseguenze, che – in quelle terre insanguinate – presero anche il nome di foibe.

    Resta a noi – figli dei figli di quegli anni – ricordare tutti quei crimini.

    È l’unico modo che conosciamo, per dire che non dovrà mai più accadere e che ci obbliga – in ogni parte del mondo, in ogni tempo, come l’attuale – a essere costantemente vigili e consapevoli dei rischi possibili e reali che sempre esistono. E la tragica esperienza di questi mesi tra Russia e Ucraina non

    fa che, purtroppo, confermarcelo.

    Senza reticenze, senza giustificazioni d’ufficio in quanto italiani.

    Senza sconti per nessuno, perché nessuno qui merita sconti.

    Per quanto alti siano i muri dell’ignoranza storica che manteniamo a nostra difesa, già da 80 anni, noi italiani abbiamo perso il diritto di non essere giudicati o sentirsi innocenti. O per dirla con più poesia: per quanto ci crediamo assolti, per sempre – per la Storia – siamo stati troppo coinvolti.

    «Dobbiamo indagare sulle cause profonde di quanto è accaduto, costruendo una memoria condivisa. Allontanandoci per sempre da coloro che continuano a coltivare odi e divisione.»

    Mario Draghi10 Febbraio 2022

    Ma la grande campagna di Jugoslavia fu vera gloria?

    Per Lubiana, il Fiumano e il Montenegro: 600 mila uomini impiegati, 729 criminali di guerra individuati (sui 1.283 complessivi per la War Crimes Commission), 125 milioni di dollari di danni provocati, 200 mila slavi civili uccisi a casa loro, 109 mila deportati nei nostri campi di concentramento prima dell’8 settembre 1943.

    E dopo l‘8 settembre 1943 arrivarono le foibe slave contro i nostri connazionali, con oltre 10 mila morti e 300/350 mila esodati dalle terre perdute, causa la nostra sconfitta militare.

    Sì, ci conviene non farla conoscere a nessuno.

    E se qualcuno volesse capire conviene dirottarlo altrove, ricordando i torti subiti, mai quelli commessi.

    Ma la Storia non viene scritta dai vincitori e nemmeno dai vinti.

    La Storia degli ultimi secoli è scritta dai documenti.

    Solo che andrebbero conosciuti e studiati. E questo costa fatica e onestà intellettuale, merce rara.

    «Il fascismo oggi esiste e quindi ha senso essere antifascisti. Ma è una deriva frutto dell’ignoranza, che si combatte con la cultura. Insegnando il significato delle parole.»

    Carlo Lucarelli

    Introduzione

    Sui muri di una casa distrutta dal fuoco rimase la scritta W IL DUCE!

    Una sola casa fu risparmiata a Podhum, quella di una vecchia donna quasi novantenne inchiodata al letto accanto al marito gravemente ammalato…

    Giacomo Scotti

    Il villaggio fu dato alle fiamme e la restante popolazione deportata nei campi di concentramento. Tutt’oggi quella di Podhum è considerata la più grave rappresaglia condotta dalle Forze Armate italiane durante la Seconda Guerra Mondiale …

    Pietro Cappellari

    Anche se la presenza dell’Italia fascista nei Balcani ha superato di poco i due anni, i crimini commessi dalle truppe di occupazione sono stati sicuramente, per numero e ferocia, superiori a quelli consumati in Libia e in Etiopia. Anche perché, nei Balcani, a fare il lavoro sporco, non c’erano i battaglioni amhara–eritrei e gli eviratori galla della banda di Mohamed Sultan. Nei Balcani il lavoro sporco, lo hanno fatto interamente gli italiani, seguendo precise direttive dei più bei nomi del gotha dell’esercito: i generali Mario Roatta, Mario Robotti, Gastone Gambara, Taddeo Orlando, Alessandro Maccario, Vittorio Ruggero, Guido Cerruti, Carlo Ghe, Renzo Montagna, Umberto Fabbri, Gherardo Magaldi, Edoardo Quarra–Sito. Si aggiungano i governatori della Dalmazia Giuseppe Bastianini e Francesco Giunta, l’alto commissario per la provincia di Lubiana, Emilio Grazioli, il governatore del Montenegro, Alessandro Pirzio Biroli.

    Angelo Del Boca

    Dobbiamo indagare sulle cause profonde di quanto è accaduto, costruendo una memoria condivisa.

    Allontanandoci per sempre da coloro che continuano a coltivare odi e divisione.

    Mario Draghi (10 febbraio 2022)

    I confini italiani nel biennio 1941–1943, dopo l’invasione della Jugoslavia. Nella linea in nero la Provincia di Lubiana (Slovenia italiana) e in quella tratteggiata la Provincia di Fiume.

    La frazione di Piedicolle – Podhum si trova a 12 km a Nord di Fiume

    «Esiste un solo bene, la conoscenza, e un solo male, l‘ignoranza.»

    Socrate

    «Se le lacrime ti offuscono l’occhio

    e le piaghe ti sfigurano il volto,

    o madre, non cercare la mia tomba.

    Questa libera terra

    è la vera immagine di tuo figlio vivo.»

    Jurai (Jure) Kastelan,

    poeta croato, aveva 22 anni ai tempi del massacro di Podhum

    Capitolo 1: Podhum non esiste

    Chi era mio padre?

    A tutti sembra una domanda normale, retorica, per nulla strana. Quasi banale. Ma chiederselo quando hai da tempo oltrepassato le 60 primavere e dopo che tuo padre è mancato già da oltre 20 anni, non è consueto per nessuno.

    Chi era mio padre?

    Un giorno, un grande eroe della mia terra, come Mario Rigoni Stern (in Sentieri sotto la neve del 1998) scrisse che i ricordi sono come il vino che decanta dentro la bottiglia. Restano là, invecchiano, tengono separata la parte limpida da quella torbida, che si deposita in fondo, piano piano. Ma se agiti la bottiglia, tutto improvvisamente cambia e non sai più distinguere il buono dal cattivo, la parte utile da quella da buttare. E servirà molto altro tempo per ricostituire la situazione precedente.

    E talvolta il tempo non rimane a sufficienza per le tue esigenze.

    Chi era mio padre?

    Questo, il film del protagonista: una vita normale di lavoro, una famiglia normale, due figli ora grandi, una brava moglie ancora dolce compagna di vita. Niente di strano. Poi all’improvviso in una fredda sera dell’inverno vicentino, una semplice parola ti fa cambiare i tuoi obiettivi, la direzione della tua strada, ti obbliga a guardarti indietro e cercare quello che prima mai avevi cercato. Una semplice parola, non più in uso e quando fu creata e inserita con violenza nel vocabolario di Dante già sapeva di truffa, di inganno.

    Chi era mio padre?

    Mario, da quando un paio di anni fa arrivò alla pensione, ritenne opportuno dedicare parte del tempo anche agli interessi che prima aveva necessariamente depositato in cantina, in attesa di momenti più idonei, come fosse davvero una bottiglia di vino d’annata. Iniziò a incontrare vecchi amici, a perdersi in qualche discussione su tutto e niente, persino a partecipare a qualche serata di presentazione di libri o di quegli eventi che qualcuno in paese definiva pomposamente culturali. Ora poteva anche fermarsi fino a tardi, non avendo necessità di far suonare la sveglia al mattino presto. Vantaggi del nuovo status di pensionato.

    Fu così che una sera in occasione della Giornata della Memoria o, forse, una settimana dopo nel Giorno del Ricordo, tra discorsi e analisi su Auschwitz e le foibe dell’Istria o del Carso, fu così che sentì quella parola. Imprevista, nuova e vecchia nello stesso tempo, decisamente sconvolgente anche per chi era nato dopo.

    Probabilmente, ad averlo saputo, avrebbe di certo preferito andare al bar come al solito a litigare sul calcio, con gli amici.

    Il relatore, un anziano professore, dalla barba bianca, che spendeva gli ultimi anni della sua vita ancora a insegnare quello che ora i nuovi maestri– i media – avevano smesso da secoli, spiegò in modo diverso, più completo e da più angolature le complesse vicende del confine orientale come le definì, riprendendo peraltro fedelmente il testo della legge del 2004. Quella che trattava e istituiva la Giornata del Ricordo sul crimine delle foibe. Ma non furono le parole di Basovizza, di Villa Surani, della foiba dei colombi o di Norma Cossetto, di Tito o dei 43 giorni di Trieste che lo colpirono. Quelle cose già le sapeva. Magari non tutti, ma Mario di quelle cose ne era a conoscenza, sufficientemente. Fu il resto che non conosceva, di cui non sapeva nulla. Ma, come scriveva bene lo storico inglese Aldous L. Huxley, non è che i fatti non cessano di esistere solo perché tu non li conosci e li ignori totalmente.

    Il relatore, con molta convinzione ed enfasi, disse più volte che per capire correttamente la tragedia delle foibe era necessario contestualizzare il tutto nel periodo storico in cui avvenne. Contestualizzare. Non si poteva, oggettivamente, separare la vicenda delle foibe jugoslave dal momento e dal contesto generale della guerra, che in quelle terre iniziò, almeno, dall’invasione italiana e tedesca dell’aprile 1941. Almeno, disse. Perché per una parte della Dalmazia e dell’Istria, il dramma dell’occupazione, il dramma della snazionalizzazione della popolazione locale, in netta maggioranza slava, era sorto sin dalla fine della Prima Guerra Mondiale, con l’assegnazione di quelle terre all’Italia, dopo il Trattato di Versailles. Certo, Trieste, Pola, Zara e Gorizia erano città a maggioranza italiana, che si sentivano e volevano essere italiane. Ma fuori dalle città, nelle campagne, nei paesetti rurali, nei villaggi, qui si sentivano slavi ed erano slavi. Da generazioni e generazioni. Totalmente. Convintamente.

    Il relatore andò ancora più a fondo. Per contestualizzare bene, andava adeguatamente conosciuto il modo in cui avvenne l’occupazione italiana, nei territori invasi dopo l’aprile ‘41. Un’occupazione molto violenta, feroce, assassina e coloniale. Perfettamente in linea con la situazione generale della guerra, da vera apripista a quella che, a settimane, sarà una delle campagne più cruenti della Storia: la campagna di Russia. L’operazione Barbarossa, in fondo, aveva per i tedeschi il medesimo obiettivo: il lebensraum, lo spazio vitale, la volontà di allargare il proprio potere territoriale: Hitler nelle terre russe, Mussolini in quelle slave. Il tutto con le dovute proporzioni, ma analoga strategia. Che poi quello spazio vitale fosse lo spazio di altri, riconosciuto – noi compresi – da trattati internazionali come Versailles nel nostro caso,a chi importava? Avanti tutta.

    Anche per il comportamento degli italiani, sui territori slavi, non fu molto diverso o, in altre parole, meno criminale di quello che, notoriamente, conosciamo dell’occupazione nazista. Ne sappiamo bene noi, nel vicentino, come si sono comportati i nazisti durante l’occupazione del 1943–1945. In ogni paese ci sono croci, capitelli, vie dedicate ai martiri di mille stragi. In ogni paese, non mancarono lacrime tristi e cicatrici profonde nel cuore.

    E forse sarebbe nella mia terra opportuno, ogni giorno, ringraziare la Madonna di Monte Berico per come poi la guerra andò a finire. Potremmo nel Veneto essere ora tedeschi, crucchi come qualcuno, con poca diplomazia e una punta di disprezzo, spesso da noi dice. Pochi sanno infatti che nei piani di Hitler, a guerra finita, sottomessa l’Europa e il mondo, Il Veneto sarebbe divenuto parte integrante del Terzo Reich, come l’Austria o i Sudeti. Goebbels più volte lo disse e lo scrisse anche nel suo Diario intimo (pag. 632 edizione 1947 – Mondadori Milano). Cose da non credersi. Ma qui nel Veneto nessuno lo sa.

    Peraltro, in alcuni aspetti, addirittura, si può arrivare a dire che l’occupazione italiana fascista fosse peggiore di quella nazista. Nella lingua, ad esempio. Da vero paese coloniale, per l’Italia di allora, le terre slave conquistate dovevano perdere totalmente l’identità personale: ogni paese, ogni città, perdeva il nome slavo, originario, sostituito col nome italianizzato. Talvolta senza una logica, senza una continuità etimologica. E senza tanta diplomazia e con molto disprezzo. Peggio ancora con i nomi e i cognomi delle persone. Riprendendo una legge del 1927 (il regio decreto n. 494 del 7 aprile ’27) che già aveva fortemente colpito le minoranze slave acquisite dopo la guerra (minoranze in città, ma maggioranza nelle periferie), ora anche le nuove terre invase seguivano il medesimo destino. E chi parlava o usava termini slavi veniva punito severamente, come fosse un crimine. Anche se fosse un bambino o poco più.

    Come il caso di Miroslav (o Mirco in italiano) Brezavšček, torturato e ucciso a tredici anni, nel 1931, dalla polizia fascista, poco lontano dalla sua natia Gorizia.

    Dalla sera alla mattina, famiglie storiche slave si trovarono col cognome italianizzato: i Pulich divennero Pulli, i Valisich solo Valli. Ad altri andò peggio: i Kmet (che in slavo voleva dire contadino) vennero chiamati Meti, la storica famiglia Zupan (sindaco) divenne Soppano o Suppano, i Knez (conte, in croato) Nesi.

    Alla famiglia Sirk toccò il ridicolo: i tre fratelli ebbero tre cognomi: il capofamiglia che rimase in Istria divenne Serchi, uno che viveva ora a Trieste venne chiamato Sirca, quello goriziano Sirtori. Per loro fortuna erano solo in tre.

    È strano a dirsi, ma il regime fascista che si rifaceva nella sua retorica al grande Impero di Cesare Augusto, si comportò all’opposto, venti secoli dopo. I Romani quando conquistavano un nuovo paese, ne mantenevano le tradizioni, talvolta persino il re, talvolta assorbivano il meglio, come avvenne per la cultura dell’antica Grecia, e ne fecero patrimonio proprio.

    La Storia insegna che tra tutti gli imperatori dell’Impero di Roma solo 35 fossero italiani e persino oltre 30 originari dell’attuale Croazia e Serbia. Tre invece i nativi della penisola iberica, peraltro alquanto importanti, quali Adriano e Traiano. Addirittura alcuni nativi dell’Africa e tra questi Settimio Severio, dalla Libia.

    Già ai suoi tempi Caracalla rese cittadino ogni uomo libero dell’Impero, senza distinzioni di razza, origini o colore della pelle. Era il 212 d.C.

    1700 anni dopo, Mussolini sarebbe arrivato all’opposto, con le prime leggi anti–slavi e fascistissime del 1925, seguite da quelle del 1927 per non parlare delle leggi anti–ebrei dell’estate 1931, viatico per quelle criminali della Razza del 1938.

    Forse anche qui si può ben capire come mai l’Impero di Roma sia durato cinque secoli, il regime di Mussolini appena due decenni. Fortunatamente.

    Provate a pensare – insistette il relatore – cosa significasse in quel momento, in quella realtà rurale perdere il proprio nome, la propria identità, la propria origine.

    Pensate se da noi nel ‘44 i nazisti avessero cambiato il nome alla nostra città, a Vicenza o Venezia, se il nostro cognome fosse diventato un nome tedesco!

    Se ci avessero vietato di parlare una sola parola in italiano o in dialetto veneto.

    Per fortuna di Mario, il relatore non volle andare oltre, perché i nazisti – i crudeli nazisti, quelli della Risiera di San Sabba col suo forno crematorio, non altri, per capirci – quando arrivarono al totale comando di quelle terre slave, subentrando a noi dopo l’8 settembre ’43, permisero il totale plurilinguismo, con possibilità di usare sia lo sloveno o il croato con pari dignità all’italiano, oltre – ovviamente – al tedesco. Fu lo stesso Alto Commissario, l’Orberster Kommissar, Friedrich Rainer, nominato a Berlino personalmente da Hitler già il 16 settembre ’43, a ordinarlo. Ripresero persino giornali in più lingue, per quanto controllati e gestiti dalle S.S. In Dalmazia si arrivò a pubblicare in serbo–croato l’ Adria–Illustrierte. Analogamente riviste in sloveno.

    I fascisti italiani talvolta, nelle terre slave, peggiori dei nazisti di Hitler.

    Strano a dirsi.

    Del resto in più documenti militari, anche nostri ufficiali durante la guerra lo confermavano tranquillamente. Un po’ vantandosi, un po’ lamentandosi.

    In una lettera indirizzata al suo capo Emilio Grazioli, il commissario del distretto di Longatico (o meglio Logatec) in Slovenia, il nostro Umberto Rosin, nel 1942, scriveva:

    «Si procede ad arresti, a fucilazioni di massa fatte a casaccio, a incendi dei paesi fatti solo per il gusto di distruggere. La frase Gli italiani sono diventati peggiori dei tedeschi, che si sente mormorare dappertutto, compendia i sentimenti degli sloveni verso di noi».

    I fascisti italiani spesso, in terra di Jugoslavia, falsi e mistificatori come i peggiori nazisti di Hitler. Sin dalla loro alba. Strano da dirsi.

    Un giorno in Parlamento, subito dopo il trattato di Rapallo del 16 aprile 1922, che aveva regolato, post 1918 e post Versailles, l’Istria e la Dalmazia all’Italia e peraltro su precisa richiesta da parte delle opposizioni – a quel tempo ancora permesse e tra cui spiccavano, molto aggressivi, pure i fascisti, quelli prima della marcia – Carlo Sforza, il ministro per gli Affari Esteri, aveva garantito che: «A questi cittadini (delle nuove terre) noi assicureremo la libertà di lingua e di cultura. Ciò è per noi un punto d’onore e anche di saggezza politica».

    Era l’aprile 1922. Sei mesi, arrivò Mussolini e la saggezza politica e il punto d’onore del nostro Paese divennero spazzatura.

    Era il 1922. Pochi mesi dopo iniziò uno dei mille esodi sofferti di quelle terre, con molteplici destinazioni e diverse, se non opposte, nazionalità delle vittime.

    Solo nel primo ventennio, dal 1922 al 1941, almeno 70mila slavi passati sotto l’Italia scelsero altre strade, quasi in toto il nuovo Regno di Jugoslavia ma anche posti lontani, come l’America e l’Australia. A facilitare la scelta contribuirono, di certo, anche 200 condanne per complessivi 2.000 anni di carcere e almeno 10 a morte (e tutte eseguite) inflitte loro dai fascisti. Ed eravamo solo agli inizi.

    I fascisti italiani spesso, in terra di Jugoslavia, peggiori dei nazisti di Hitler.

    Roba da non credere.

    Non abbiamo elementi per confermarlo ma, forse, Jean Paul Sartre, il grande intellettuale francese, pensava proprio a questo, quando arrivò a dire che il fascismo non lo si identifica dal numero delle sue vittime, ma essenzialmente dal modo in cui le uccide. E uccidere la persona, l’anima dell’uomo, estirpare le proprie radici talvolta è come ammazzarlo fisicamente con un colpo di fucile.

    Anzi, probabilmente, è un’azione ancora più vigliacca.

    Agli increduli o semplicemente più ignoranti, sotto il profilo storico, ricordo le parole di una delle molteplici vittime italiane di quel nefasto matrimonio di loschi interessi tra il Duce e il Fuhrer:

    «Il nazismo in Germania è stato la metastasi di un tumore che era in Italia».

    Quanta ragione, purtroppo, nella tesi di Primo Levi.

    Fu il nostro paese a concepire in una notte buia, partorire, allattare e poi, giorno su giorno, allevare il fascismo, difendendolo anche da tutte le naturale insidie che un figlio può avere in tenera età. E poi, quando un po’ più grande e autonomo, offertolo al mondo e, con malcelato orgoglio, regalato a tutti.

    E di questo, a un secolo giusto di distanza, la Storia ci riconosce il merito e il brevetto storico. Quando si parla di regimi dittatoriali di destra, come quello di Pinochet in Cile, Salazar in Portogallo, Papadopoulos in Grecia, Videla in Argentina, – solo per farne alcuni nomi maggiori e più noti al pubblico – si etichettano sempre come regimi fascisti, non nazisti.

    Le parole contano sempre e identificano per bene chi e come le usa.

    Fu in quel discorso del professore che venne pronunciata la parola maledetta che tanto condizionò Mario e la sua esistenza successiva. Il relatore, nel rafforzare la sua tesi, a un certo punto, disse chiaramente che persino il più grande campo di concentramento fascista – in cui vennero deportati molte migliaia di jugoslavi ed ebrei – mentre per i croati era nell’isola di Rab, per noi diventava Arbe. Il campo di Molat era Melada. Lo stesso più importante eccidio fascista in terra slava, quello del villaggio di Podhum, per noi era indicato come Piedicolle.

    Piedicolle: ecco la parola maledetta. Per tutti i presenti, relatore a parte, era di certo la prima volta che la sentivano nominare o almeno così definire. Non per Mario. Il suo nome non era nuovo. Lo aveva già letto e ora la cosa lo spaventava. Perché se Piedicolle era il nome italianizzato di Podhum, la cosa non poteva ora lasciarlo indifferente. Doveva subito verificare, accertarsi se fosse o meno vero, o magari – in cuor suo lo sperava assiduamente – un ricordo confuso ed errato della propria memoria.

    Scappò via subito dall’incontro, senza salutare nessuno, velocemente. Quasi come avesse dimenticato un appuntamento importante e solo allora se ne fosse ricordato.

    Una corsa in auto, rapida, sbrigativa. Entrò in casa, quasi correndo, quasi senza salutare ancora nessuno e si diresse subito nella stanza degli ospiti. Nel passato era quello lo scopo e l’uso. Ora più che altro raccoglieva cose secondarie, poco utili. Un ripostiglio. In fondo vi era un armadio un po’ consumato dal tempo, dove erano andati a finire residui del passato, vecchi oppure già allo stadio precedente a quello della rottamazione, nella discarica del paese. Ma nell’armadio vi erano anche ricordi di suo padre e di sua madre, raccolti in una vecchia scatola da scarpe bianca: una foto del loro matrimonio a metà degli anni ‘50, un libretto delle preghiere, qualche santino di papa Giovanni XXIII, una piccola corona del Rosario di sua madre.

    Ma quello che ora cercava era altro: una foto, una vecchia foto ingiallita, ovviamente in bianco e nero. L’aveva vista solo dopo la morte della madre, che se l’era tenuta in segreto e nascosta dentro le cose a lei più care dopo la morte del marito, dieci anni prima. Mario l’aveva recuperata e tenuta, ma senza darle un particolare valore.

    Fino ad allora.

    Cercò affannosamente e tra le ultime foto vecchie: eccola. Era la foto che cercava.

    Era di suo padre: giovane, vestito da militare, quand’era in guerra. Faccia seria, preoccupata, quasi triste, affiancato da un altro militare più allegro, forse spensierato. Ma era la parte dietro, il retro, che lo interessava. Vi erano scritte poche parole, di certo di suo padre, quando l‘aveva spedita, forse dentro qualche lettera, alla famiglia.

    Le parole erano ancora chiare e ancora ben leggibili.

    Purtroppo. Luglio 1942. A Piedicolle io scrivevo sui muri.

    Non era un messaggio in codice degno di Enigma che tanto fece bestemmiare Churchill, finché Alan Turing proprio in quel periodo lo tradusse in realtà. Non era un messaggio in codice. Era solo una vecchia foto, firmata e datata. Ed era quello che lo preoccupava. Suo padre, soldato del Regno, classe gennaio 1922, nel luglio 1942 era a Piedicolle o meglio a Podhum, villaggio distrutto e massacrato dagli italiani proprio in quei giorni.

    A Piedicolle io scrivevo sui muri. E quindi, meglio: A Podhum, io scrivevo sui muri.

    A Podhum, io scrivevo sui muri

    Poi, cosa scriveva sui muri? Quali parole? E dirette a chi?

    Ma che suo padre fosse rimasto, o anche solo transitato, a Podhum in quel periodo maledetto non poteva lasciarlo indifferente.

    Chi era mio padre?

    Cosa ci faceva là? La risposta più ovvia: far la guerra non poteva bastargli. Certo era un ragazzo di vent’anni, chiamato a partire senza alternative che non fosse la diserzione e quindi la morte, oltre al disprezzo degli altri e le ripercussioni previste sulla sua famiglia.

    Chi era mio padre?

    Doveva approfondire, capire, studiare, trovare delle risposte. Inevitabilmente.

    La notte non riuscì a chiuder occhio e non portò consigli. Se ne accorse anche la moglie che volle esser informata e cercò di capire i tormenti del marito. Anche se era difficile il capire e tanto più spiegarlo. La guerra era finita da oltre 70 anni, erano tutti morti. Era persino morta anche la Jugoslavia, peraltro dopo ancora altra guerra e altro sangue. Come se il milione di jugoslavi, uccisi durante la Seconda Guerra Mondiale, non fosse stato sufficiente.

    Era morto il padre, la madre. Non aveva fratelli. A chi poteva ora rivolgersi per dei chiarimenti? Mai come in quel momento si sentì orfano di padre e di madre, anche se aveva oltrepassato i 60 anni. Neanche un fratello con cui confrontarsi, con cui magari sentirsi dire di lasciar perdere e mollare. Tanto cosa sarebbe cambiato 70 anni dopo? Tutto giusto, tutto corretto. Ma la domanda restava viva: Chi era mio padre? E sarebbe rimasta intatta fino a quando non avrebbe trovato una risposta, qualsiasi risposta.

    Chi era mio padre?

    Facile chiederselo ora. E nella notte rivisse tutti i suoi ricordi col padre, persona squisita, il miglior padre che un figlio potesse mai ambire di aver avuto in dote.

    Era morto poco dopo i 70 anni, appesantito di certo anche dai due anni di campo di concentramento vissuti in Germania, che lo avevano segnato nell’anima e nel fisico e di cui mai, mai volle parlarne con nessuno. In famiglia nessuno sapeva nulla. Neanche sua madre, che aveva conosciuto il padre – così aveva sempre saputo – alcuni anni dopo la guerra. Probabilmente quando suo padre era riuscito a trovare un po’ di serenità e pace dentro di sé, dopo i reticolati e la fame del lager. Forse a uscire finalmente dal carcere del suo passato.

    Era tornato a casa peraltro alcuni mesi dopo gli altri, in piena estate del ‘45. Pesava solo 40 chili. Quando arrivò neanche la madre lo riconobbe, da quanto magro stecchito fosse diventato. Ed era sua madre.

    Riprese a lavorare, chiuse dentro l’anima il passato e gettò via la chiave per sempre.

    Non disse mai nulla a nessuno. Non cercò mai nessuno e se per sbaglio qualcuno dei suoi amici, probabilmente anche loro reduci e disperati, chiedeva qualcosa, lui si bloccava di scatto. Restava anche ore senza parlare, forse giornate intere. Solo così riuscì a sopravvivere e a vivere ancora. Probabilmente le parole nel retro nella fotografia indicavano che doveva scrivere, anche sui muri se necessario, perché con la bocca le parole non uscivano più. Un nodo alla gola le fermava sempre prima.

    Chi era mio padre?

    Cosa aveva visto a Podhum? Cosa aveva visto nei campi di concentramento? Com’era vissuto?

    Chi era mio padre?

    Se il relatore diceva che bisognava contestualizzare per capire correttamente il crimine delle foibe, forse era opportuno ora contestualizzare la guerra vissuta da suo padre per dare risposte di senso compiuto alle mille domande che gli continuavano spontaneamente a nascere, secondo dopo secondo. Maledettamente.

    Di suo padre non sapeva nulla del periodo di guerra. Tanto meno in quale luogo l’avesse combattuta, dove e quando fosse stato catturato dai nazisti e deportato nei lager.

    In quale lager poi ancora meno. Era partito non ancora ventenne, era tornato 4 anni dopo, invecchiato di 4 secoli. Forse solo la famiglia lo aveva salvato, forse la moglie e – perché no – la nascita di un figlio, l’unico figlio, lo avevano più avanti davvero salvato, dimenticando il passato e tirandosi dietro la vita. Dando un senso alle sofferenze patite prima.

    Ma a pensarci bene – solo ora Mario se ne rese conto – ogni tanto suo padre aveva avuto dei flash–back del suo passato, che probabilmente, inconsciamente, senza preavvisi e a sua insaputa tornavano a galla, a farsi sentire. Magari senza rendersene conto appieno. Una volta ne parlò anche con sua madre, cercando di meglio capire, e la risposta non poteva che esser scontata: – è stata la guerra, è stata la guerra –. E lì tutto finiva, tutto si fermava. Chi aveva il diritto di andare oltre? Che ne sapevano loro del significato reale della parola guerra.

    Come quella volta che il figlio più piccolo di Mario – avrà avuto due, massimo tre mesi – si mise improvvisamente a piangere e a gridare. Forse per una piccola colica o chissà cosa. Chi ha avuto bambini sa che non è nulla di particolare o insolito. Un pianto, due gocce di lacrime e tutto ritorna come prima. È da sempre la forza dell’esser bambini, questa. Invece improvvisamente il padre di Mario, presente al momento, si bloccò. Fermo, immobile, ghiacciato, non disse più nulla, continuava e continuava a osservare il nipotino piangere, assorto, quasi con gli occhi sbarrati nel vuoto. Ci vollero vari, eterni minuti perché si riprendesse.

    Come mai? Persino la nuora fu sorpresa e quasi spaventata.

    Successe anche altre volte. E alla fine tutti lasciavano stare, senza dare peso per non imbarazzare nessuno, soprattutto suo padre. Ma si cercava sempre di non lasciare da soli nonno e nipotini. Precauzionalmente.

    Mario ritornò altre volte con la madre sull’argomento e ogni volta poi alla fine si arrendeva. Fu allora che capì perché sin da piccolo non aveva ricordi di grandi abbracci col padre. Anzi, forse non si ricordava mai una volta, una singola volta, che lo avesse preso per davvero in braccio da piccolo. Poi da grandicello sono i bambini a non volerlo. Sbagliando. La madre anni più tardi glielo confermò: è stata la guerra, è stata la guerra –. È stata la guerra a privare a un padre la gioia di abbracciare il proprio figlio, a dimostrargli l’immensità del bene che gli voleva. E, a seguire, coi nipotini.

    E lì tutto finiva, tutto si fermava. Chi aveva il diritto di andare oltre?

    Aveva proprio ragione Simone de Beauvoir nel suo scrivere:

    «Se un tormento viene tenuto temporaneamente lontano, non si può dire che abbia cessato di esistere. È presente persino nella cura in cui si cerca di evitarlo».

    E di guerra, di nazismo e lotta anche lei ne sapeva qualcosa.

    Anche il nome di Mario doveva aver avuto un significato per il padre. Era stato il padre a sceglierlo, a volerlo assiduamente. La madre – più volte in vita – lo confermerà al figlio. Lei non poté neanche esprimere quella volta un’alternativa, un altro nome. Più volte discusse col marito in merito, ma si dovette alla fine arrendere.

    Suo figlio si doveva chiamare Maria se femmina, Mario se maschio. Maria, meglio. Sperava davvero che fosse una bambina. Nessuno seppe mai la vera motivazione di quella precisa richiesta. Probabilmente quel nome al padre ricordava una persona, uomo o donna, chissà. O no: donna, o meglio bambina, quasi di certo. E sicuramente una persona molto importante e cara nel suo passato. Per Mario era forse arrivato il momento di scoprirlo.

    E gli tornarono meglio a mente, ora, anche altre strane situazioni, dimenticate dal tempo ma che adesso, come fossero bottiglie gettate in mare da un naufrago, arrivavano sulla spiaggia trascinate dalla marea. Portando con sé i messaggi rinchiusi per anni. Come quella volta, quando – Mario avrà avuto 8/9 anni – una sera guardando alla televisione una puntata su Zorro, improvvisamente al padre scesero alcune lacrime lente dagli occhi. Senza motivo, a meno che la causa non fosse stata la spada di Zorro contro i malvagi di Monterei. Mario chiese spiegazioni alla madre, il giorno dopo, e la colpa fu data al fumo della sigaretta del papà, andato casualmente agli occhi.

    Un’altra volta, mesi dopo, la colpa fu data altrove. Una domenica la famiglia, dopo pranzo, era ancora davanti alla tv a vedere un film western, sempre in bianco e nero e sempre molto interessante. Mario non si ricordava bene la scena, forse quella in cui un villaggio apache veniva attaccato dalle giubbe blu, ma non si dimenticò come suo padre, sempre all’improvviso, si alzò di scatto ed uscì di casa in tutta fretta. La mamma accusò che il padre aveva esagerato con la pastasciutta e che anche il medico – di certo quale conseguenza degli anni di prigionia – gli aveva più volte ordinato di mangiare poco e spesso per facilitare la digestione. Lo stomaco si era ristretto per la fame prima patita.

    Piccoli flash della vita di un padre premuroso, attento alla crescita e all’educazione del figlio, amato e desiderato come non mai. Probabilmente – Mario più volte lo pensò – suo padre era conscio di quello che soffriva dentro e avrà di certo dato tutto se stesso per recuperare altrove. Riuscendovi di certo. Malgrado la guerra, malgrado il suo passato. Se il nome Mario al padre ricordava qualcuno di caro, non poteva che esser stato infinitamente amato.

    Aveva proprio ragione, la grande Alda Merini, quando scriveva nelle sue poesie che:

    "Non si scappa mai dai luoghi, né dalle persone, né tanto meno dalle circostanze.

    Si scappa sempre da se stessi".

    Come darle torto?

    La notte non volle passare e al mattino presto, prese il computer e andò a curiosare tra le pagine web su Podhum, sulla guerra in Dalmazia, su tutto quello che internet gli poteva offrire.

    Ma era poco, insoddisfacente, scollegato. Mario voleva di più.

    Voleva sapere, conoscere, capire perché dopo oltre 70 anni nessuno mai parlasse della nostra guerra in Jugoslavia, perché non venissero prodotti film, servizi tv, puntate o serie di History Channel. Perché? Cosa c’era da nascondere?

    Chi era mio padre?

    Ok. Era arrivato il momento di scoprirlo, pensò. Quand’era ragazzo un programma alla televisione, che gli piaceva molto, si chiamava: Non è mai troppo tardi. Ebbene, Partiamo. Costi quel che costi.

    Ma che fosse così difficile, chi lo avrebbe mai potuto prevedere. Più che una ricerca del proprio passato divenne una corsa a ostacoli contro la storia, contro quello che, da sempre, gli avevano insegnato, confezionato e venduto.

    Una specie di puntata di Chi l’ha visto? dove però il ricercato più che il padre risultava il figlio. O più correttamente le loro rispettive due generazioni: una vittima della

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