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Giudeicidio: Chi, quando, cosa sapeva? Fu indifferenza?
Giudeicidio: Chi, quando, cosa sapeva? Fu indifferenza?
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E-book157 pagine2 ore

Giudeicidio: Chi, quando, cosa sapeva? Fu indifferenza?

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Info su questo ebook

Il lontano ricordo di un episodio, avvenuto nel suo palazzo romano durante la guerra, induce l’autore, a distanza di anni, a porsi una domanda semplice ed impegnativa insieme: chi sapeva, che cosa esattamente sapeva, quando esattamente è venuto a sapere che in alcuni lager era in corso lo sterminio di milioni di persone. Dopo anni di sommarie letture, nel mare sterminato degli scritti e documentari che ne trattano, pesantemente inquinato da confusioni ed interessi nei decenni consolidati, l’autore decide di approfondire il tema. Ne nasce un libro da cui emergono tesi che potranno apparire pure audaci, ma che hanno il pregio innegabile di proposte comunque robustamente e preziosamente innovative, al punto da prefigurare filoni di ricerca che in futuro potrebbero avallare e sviluppare le innegabili circostanze che alimentano le tesi che in questo libro trovano spazio propositivo.
LinguaItaliano
Data di uscita8 gen 2021
ISBN9791220246538
Giudeicidio: Chi, quando, cosa sapeva? Fu indifferenza?

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    Anteprima del libro

    Giudeicidio - Fausto Carratu'

    Apuleio

    PREMESSA DELL’AUTORE

    Sono nato a Roma il 10 febbraio del 1944. Solo dopo parecchi decenni, e con inquietitudine via via crescente, mi sono reso conto di essere venuto alla luce nel più buio periodo italiano della più sanguinosa guerra della storia, in modo particolare per quella Roma in cui nascevo, occupata da tutti e da tutti attraversata, capitale di un paese nelle mani di eserciti stranieri tra loro in guerra, con e contro gli italiani, e percorso al proprio interno da una duplice guerra civile. Nessun altro paese europeo, salvo forse la tartassatissima Polonia, ha vissuto una vicenda paragonabile a quella italiana.

    All’alba del 10 luglio 1943 gli anglostatunitensi erano sbarcati in Sicilia, da dove hanno intrapreso la risalita della penisola, durata due anni, con altri sbarchi a Taranto, Salerno, Anzio, mentre i tedeschi, dopo la caduta del governo Mussolini, del 25 luglio 1943, l’avevano occupata velocemente. Il risultato della doppia invasione fu un’Italia spaccata in due, con la linea di frattura e scontro che ha percorso l’intera penisola, dall’estremo sud all’estremo nord. La frattura non fu solo militare, ma anche politica, con l’esplosione di una totale, duplice guerra civile. Una prima guerra civile, di stampo militare, divise quegli italiani che vollero continuare a combattere a fianco del primo alleato germanico, seppure trasformatosi poi in occupante, da quegli altri italiani che preferirono schierarsi a fianco degli iniziali avversari, nuovi occupanti, seppure alla fine risultati liberatori. Una seconda guerra civile, di natura ideologica, si sovrappose alla prima, dividendo gli italiani tra coloro che intendeva instaurare in Italia un regime occidentale, di tipo democratico-liberale, simile a quello vantato dagli alleati occidentali, e quelli che vedevano nella caduta del fascismo l’occasione per instaurare in Italia un regime simile a quello dell’alleato orientale, comunista e filosovietico. Questo secondo scontro ebbe modo di rivelarsi nei frequenti conflitti organizzativi e decisionali tra il CNL, Comitato di liberazione nazionale, e la direzione del PCI, Partito comunista italiano, a cui esclusivamente o primariamente rispondevano i Gap, Gruppi di azione partigiana. Dopo la forzata conversione della Russia comunista, da primo paese alleato della Germania nazista a suo avversario, conversione non dovuta ad una scelta etico-politica, ma resa di fatto obbligatoria dall’invasione subita ad opera dell’ex alleato, i comunisti italiani si risolsero alla resistenza antinazista e antirepubblichina, manifestando però decisa intolleranza ideologica verso le posizioni degli antifascisti non comunisti. L’episodio di Porzus, dove partigiani comunisti (rossi) massacrarono partigiani non comunisti (bianchi), assieme all’episodio dell’arbitraria esecuzione di Mussolini e della sua amante, assieme, ancora, all’avventato episodio romano di via Rasella, trovarono radice e spiegazione proprio in quella caotica dicotomia ideologico-militare registrata tra le file dei resistenti italiani, dove un mai seriamente indagato internazionalismo del Partito Comunista Italiano dell’epoca, rese quel partito succube delle mire espansionistiche del sovietico Stalin, sul piano ideologico, e, sul piano territoriale, del croato Tito, da poco designato da Stalin a segretario del partito comunista jugoslavo. Quella duplice guerra interna lasciò conseguenze pesanti e strascichi duraturi nel subconscio della politica e degli eventi italiani per i successivi decenni, mentre la frattura di stampo ideologico-politico perdurò per un intero mezzo secolo, con la cosiddetta guerra fredda, terminata solo con il repentino e clamoroso fallimento planetario dell’ideologia comunista, a fine anni Ottanta del secolo.

    Dopo che Re e governo Badoglio avevano abbandonato Roma, trasferendosi nei territori occupati dagli Alleati, nel settembre 1943 i tedeschi si erano acquartierati nella capitale ed avevano avviato anche in Italia quelle tragiche deportazioni che, sino al 25 luglio 1943, gli ebrei italiani non avevano né conosciuto né temuto. Infatti, tra la data della caduta del fascismo (quello classico mussoliniano, non quello repubblichino, ormai di totale sudditanza alle direttive naziste), e il giugno 1944, quando Roma passò dalle mani dei tedeschi agli Alleati, anche la popolazione ebraica italiana fu investita dall’orrore della folle determinazione giudeicida messa in atto dagli occupanti nazisti.

    Questo, per veloci linee, il disastroso quadro all’interno del quale la sorte mi portava a nascere, bombardato, non solo metaforicamente, da luttuosissimi e drammatici avvenimenti. Appena prima della mia nascita, l’11 gennaio 1944 era stato giustiziato dai nazisti nientemeno che il genero dell’ex onnipotente capo del decaduto regime fascista ed allora capo della neocostituita Repubblica Sociale Italiana, la cui sovranità si rivelò ben presto puramente nominale, retta da un Mussolini che nella lettera all’amante si definiva " fantoccio grottesco", senza reale potere, condannato alla totale subordinazione, al punto da non essere neppure in grado di usare clemenza verso il padre dei suoi nipoti, Galeazzo Ciano, come nulla aveva potuto per soccorrere la figlia di Pietro Nenni, suo compagno delle prime battaglie socialiste, e come nulla aveva potuto, laddove lo avesse voluto, per soccorrere Mafalda di Savoia, deportata e poi morta a Buchenwald, pur sempre figlia di quel Re italiano che lo aveva chiamato e tenuto al governo del Paese per due decenni.

    Appena dopo la mia nascita, a Cassino, il 15 febbraio, veniva distrutta la millenaria abbazia di Montecassino e il 15 aprile, a Firenze, veniva assassinato il filosofo Giovanni Gentile, già ministro e rilevante personaggio culturale del ventennio.

    Limitandoci a Roma, dal 30 gennaio erano iniziati i bombardamenti alleati sui Colli romani, con oltre un migliaio di morti. Il primo febbraio, rastrellamenti in via del Tritone e via Merulana, vicino alla mia abitazione. Il 2 febbraio, venivano fucilati 11 partigiani a Forte Bravetta, mentre sulla via Casilina venivano uccisi i due conducenti di un autocarro tedesco. Il 4 febbraio una colonna tedesca era attaccata a Centocelle ed il 7 un camion tedesco saltava in aria a poche centinaia di metri da casa mia, in via Carlo Alberto. Il giorno antecedente la mia nascita, il 9 febbraio, i partigiani facevano esplodere un ordigno nella sala ristoro dei militari tedeschi, nella stazione Termini, con morti e feriti. Il giorno successivo alla mia nascita, l’11 febbraio, un aereo, sembra degli Alleati, scaricava bombe sull’area verde del Colle Oppio, dove sono i resti delle Terme di Traiano e della sottostante Domus Aurea neroniana. Alcune bombe cadevano sul bordo del parco, colpendo la Clinica Sant’Antonio, all’incrocio di via Mecenate con quella via Pascoli dove abitavo da appena un giorno. Nella clinica morirono medici e infermieri, mentre tutti i vetri delle case del circondario andarono in frantumi. Quelli di una finestra-balcone della mia casa, finirono persino nella mia culla. Distavamo dalla clinica bombardata solo qualche decina di metri. Il 12 febbraio, bombardieri alleati colpiscono l’area delle basiliche di Santa Maria Maggiore e di San Giovanni in Laterano. Il 14 febbraio, tocca agli scali ferroviari dell’Ostiense e del Tiburtino, il 15 di nuovo ai quartieri Ostiense, Tiburtino, oltre a quelli di Monteverde e Nomentano. La banda di Pietro Koch tortura partigiani nella pensione Oltremare, nella vicina via Principe Amedeo 2. Sempre in febbraio, il 16 e 17, sono bombardati il Portonaccio, il Tiburtino, il Prenestino. Terminiamo la certo non esaustiva sequela di disastri romani e laziali con il ricordo del già citato attentato comunista di via Rasella, del 23 marzo 1943, che espose la città di Roma ad un rischio spaventoso. Pare infatti che un Hitler furibondo avesse immediatamente ordinato la totale distruzione di Roma, poi si fosse limitato a chiedere la distruzione dell’intero quartiere dove era avvenuto l’attentato, rappresaglia che, alla fine, si risolverà con l’ordine di giustiziare solo 335 malcapitati romani, vittime della avventatezza dei partigiani comunisti ( il CNL tendeva ad evitare gli attentati nelle città, per ragioni che i comunisti romani non vollero considerare) e della ferocia bellica tedesca. Tra di loro, molti antifascisti, molti comunisti e socialisti, ed oltre 70 appartenenti alla comunità ebraica.

    Come si intende, la Roma in cui vedevo la luce viveva la fase più violenta ed oscura della più sanguinosa guerra della storia, con allarmi, bombardamenti, razionamenti, coprifuoco, retate, deportazioni, attentati, delazioni, torture, rappresaglie.

    Accostandoci al tema di nostro specifico interesse, se il 16 ottobre 1943 Roma aveva assistito alla prima deportazione di un migliaio di ebrei romani, nel resto d’Europa era ormai in corso da parecchio tempo quel gigantesco succedersi di discriminazioni, spoliazioni, espulsioni, massacri, deportazioni, il cui conclusivo sterminio ebraico solo decenni più tardi sarebbe stato conosciuto e misurato in tutta la sua inimmaginabile entità, oltre che nella sua storica incomprensibilità.

    Personalmente ho cominciato a prendere cognizione della tragedia ebraica quando, ancora adolescente, ascoltai raccontare in casa quanto era successo ad una famiglia di ebrei che abitavano nel palazzo, in via Giovanni Pascoli, al civico 1. Una sera un camion militare tedesco si era fermato nella via, poco distante dal portone del palazzo. Mio padre ne temette per i suoi figli maggiori, dato che in quei mesi si ripetevano a caso i rastrellamenti di giovani da parte dei nazisti. Ma non si trattava di questo. La mattina successiva, alle ore sette, un tedescone con elmetto e fucile battè alla porta di casa dei miei, per errore. Cercavano una famiglia di ebrei, i Romanelli, che abitavano due piani sopra, con una donna anziana semiparalizzata. Non presero un figlio giovane, perché fortunatamente fuori casa. Nessuno dei deportati fece più ritorno. I miei rapporti con deportazioni e sterminio degli ebrei per molti anni si ridussero a questo episodio, rimasto indelebile nella memoria di tutti i condòmini. Del resto dello sterminio, per alcuni decenni, non si trovarono informazioni e riscontri, mentre ricerche ed attese dei deportati, sperabilmente vivi e sopravvissuti, durarono alcuni anni, dopo la fine della guerra, per lo più vanamente.

    E’ in riferimento a questo quadro che è maturata la più elementare delle domande: qualunque persona delle successive generazioni non può non chiedersi, infatti, chi fosse informato della terribile determinazione che mirava a sopprimere letteralmente tutti gli ebrei esistenti nei territori occupati dai nazisti, che cosa precisamente sapesse, e quando, esattamente, ne fosse venuto a conoscenza. Solo dopo un simile riscontro è ammissibile emettere giudizi sulle colpe morali e politiche di chiunque.

    Piero Terracina, ebreo romano sfuggito al sabato nero del 16 ottobre 1943, ma catturato il 7 aprile 1944, a seguito di una delazione, deportato in un lager da cui fu tra i pochi a sopravvivere, in occasione della celebrazione del 75° anniversario della tragica retata romana, ormai novantenne, ancora si chiedeva " come è possibile che sia accaduto tutto questo nella più totale indifferenza, indifferenza che ho riscontrato anche quando sono tornato dall’inferno? " (Avvenire, 31/10/2018).

    Si tratta di una domanda che mette a fuoco il nucleo della nostra ricerca, oberata sia dalla mai soddisfacente ricostruzione storica del massacro degli ebrei, sia dalla obiettiva difficoltà che una simile ricerca comporta, stante la frammentarietà dei riferimenti, complicati e resi indecifrabili dalla stessa evoluzione dell’antigiudaismo, da fenomeno solitamente discriminatorio e persecutorio a quello del tutto nuovo, irrazionale ed inimmaginabile, di sterminio sistematico, industrialmente organizzato. Su tutto questo pesa infine non poco una secolare distorsione dei fatti volutamente posta in atto da tutti coloro, ebrei non esclusi, che di questa immane tragedia si sono occupati e continuano ad occuparsi, con interessi variegati che con la scienza della storia poco hanno da spartire.

    Proprio dopo il personale impatto con l’episodio della deportazione avvenuto nel mio palazzo, ed assistendo al graduale ma inarrestabile sradicamento della vicenda ebraica da quella bellica, mi sono trovato a maturare la impegnativa domanda riguardante il comportamento delle persone che quei drammatici anni hanno vissuto, a cominciare dai parenti, dagli amici e conoscenti, dall’intera comunità nazionale e internazionale. E’ la domanda che concretizza il sottotitolo del libro, che va a ricercare chi ne fosse a conoscenza, di che cosa esattamente fossero a conoscenza, in che

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