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La prova della fame
La prova della fame
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E-book388 pagine5 ore

La prova della fame

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Info su questo ebook

"La prova della fame" si configura come un esplicito affresco pacifista sin dalle prime pagine, segnate dall’assenza di rivalità tra i soldati di eserciti nemici. Tuttavia la situazione dell’autunno del 1939 induceva a una tragica premonizione: Questo immane flagello che gli uomini hanno voluto non li farà rinsavire […]; è chiaro che la fine di questa guerra e la pace che la seguirà non saranno che il semenzaio di altre guerre future, e già il cuore a pensarle ne trema. Carlo Pastorino sentì il bisogno di lasciar trascorrere molti anni prima di decidersi a fornire la propria testimonianza sulla enorme e spaventevole carneficina della guerra e sulla dura prigionia che soffrì. Così solo nel 1939 La prova della fame fu pubblicato, non senza qualche difficoltà, presso una piccola casa milanese, che ne fece due edizioni di 1000 copie ciascuna. Le due edizioni, accompagnate da giudizi molto lusinghieri della critica e da un buon successo di pubblico, andarono esaurite e nel 1943 la SEI ristampò il libro. Nel 1954 ancora la SEI fornì un’ulteriore edizione, ampliata e definitiva; ed è quella che abbiamo seguito in questa nostra ristampa, attentamente curata da Maria Teresa Caprile, che l’ha arricchita di note utili a contestualizzare la narrazione e di Appendici dedicate alla Grande Guerra e a un’esauriente biografia dello scrittore.
LinguaItaliano
Data di uscita28 dic 2016
ISBN9788899415136
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    Anteprima del libro

    La prova della fame - Carlo Pastorino

    133-136.

    PREMESSA

    da La prova del fuoco

    LXXXI

    CERCHIO DI FUOCO

    […] Ora la linea alla nostra destra è rotta, e la stessa cosa sta avvenendo alla nostra sinistra: ma il nostro battaglione, quasi non se n’avvedesse, non piega e resiste. A destra e a sinistra galoppano colonne di nemici: noi siamo isolati, soli, e vana parrebbe ogni difesa. Pure i fucili non hanno posa, le mitragliatrici cantano, ringhiano le sipe e le thevenò. I nemici, di fronte a noi, si sono fatti più radi; sono soldati alti e magri: appaiono pallidi e colore d’erba. Molti di qui e di là stramazzano. Il piano è coperto di cadaveri. Distinguo un giovane nemico pallidissimo: è una visione fugace, un lampo; perché a troppe cose è necessario avere l’occhio: il giovane nemico vacilla, fa alcuni passi premendosi una mano sul petto e cade bocconi sull’erba del prato.

    Ma le colonne dei nemici a destra e a sinistra galoppano sempre. E, tutt’a un tratto, comincia un fitto fuoco alle nostre spalle; e non alle spalle soltanto, ma anche ai fianchi. Siamo chiusi in un cerchio di fuoco: il cerchio gradatamente si stringe; ci preme, ci soffoca. Anche la dolina¹ del comando viene invasa: io vedo facce accese, occhi iniettati di sangue, labbra tumide bianche di spuma: odo urla e rauche voci di comando e sento il freddo di una rivoltella puntata contro la mia tempia. La rivoltella è di un graduato il quale mi scaglia in faccia non so che laceranti grida d’imperio. Egli mi è così da presso ch’io ne sento un fetore di sego e di alcool inacidito, Io non capisco. Dico: «Che vuoi?» La rivoltella è sempre puntata contro la mia tempia. Ma perché non parte il colpo? Perché il graduato non mi uccide? Egli è rosso di capelli e di barba e di guance: anche i suoi abiti mi paiono rossi. Ma anch’io ho la rivoltella in mano. Se non che, ahimè!, essa è scarica, tutte le pallottole sono esaurite, i caricatori sono tutti vuoti: finché ho avuto un colpo, ho sparato: ora stringo nella mano l’arma inerte che non scatterà più: mi guardo attorno: sono solo, dei miei. Intorno non mi vedo che facce rosse in tutto simili a questa del graduato. Uno col calcio del fucile mi batte sulla mano che stringe la rivoltella, e l’arma cade al suolo. Dal dorso della mano il sangue schizza sui panni del graduato il quale, mentre io per il dolore mi torco su me stesso, scosta dalla mia tempia la rivoltella, e sorridendo stranamente mi addita il monte: quindi, sempre sorridendo, si allontana.

    Egli dunque non mi ha ucciso. Non mi ha voluto uccidere. Perché? E gli sarebbe stato tanto facile! E sulla sua faccia rossa è corso anche il sorriso. Che significa tutto ciò? Ora intorno a me non c’è più nessuno. Non ci sono che i morti. Il suolo ne è tutto coperto e non si sa dove porre il piede. Guardo e mi pare di conoscerli tutti. Dio mio, quanti! Ecco qui Annessi che volge a me i suoi occhi spenti. Vorrei andare da Donzelli². Mi muovo, faccio alcuni passi, ma, tutt’a un tratto, mi si para davanti lo stesso graduato: ride stranamente come prima e come prima mi addita il monte. E parla anche; e il suo linguaggio mi è incomprensibile.

    E mi avvio verso il monte: e il monte è l’Hermada³. Poco dopo mi vedo accanto un piccolo gruppo dei nostri. Si va con gli occhi bassi, scorati, desolati. Si passa per piccoli prati verdi, per campicelli recinti di muri e si entra in un sentiero petroso. Il sangue dalla mia mano continua a colare; io fascio la ferita con un fazzoletto e proseguo. Poco dopo il fazzoletto è tutto rosso; e rossi sono anche i calzoni sulla gamba destra. Mi dolgono le ginocchia. Ho strappi nei panni, dovunque.

    Le nostre batterie carsiche hanno aperto il bombardamento: le granate scoppiano nel sentiero petroso, nei campi recinti, nei prati verdi. Esse cadono fitte come cade il grano dalla mano del seminatore. Il bombardamento nemico, dell’alba, pur così terribile, era un nulla a confronto di questo. Noi abbiamo un maggior numero di batterie, noi rovesciamo ferro e fuoco con una prodigalità incredibile. Il sentiero è ingombro di cadaveri: le pietre sono del colore del sangue, e rivi di sangue scorrono. I cadaveri sono dei nostri e sono dei nemici: gli uni e gli altri uccisi, qui, dalle granate delle nostre batterie e dalle bombe dei nostri aeroplani; e gli uni e gli altri sono la stessa cosa: giacciono distesi, aggrovigliati insieme; e non sono più nemici, ma gli stessi poveri figli di mamma, la stessa povera carne che ha finito di soffrire.

    Siamo giunti al villaggetto che ieri si osservava da quota 144. Il villaggetto è distrutto; non un tetto, non un muro è in piedi. Il suo nome, se non erro, è Medeazza. Fra le macerie, come dovunque, sono ammonticchiati i cadaveri, un polverone nero e asfissiante si solleva: non si sa dove porre il piede, dove piegare, come uscirne. Il gruppo dei soldati che era con me si va assottigliando: cadono e non si rialzano più. Non c’è palmo di terra che non abbia il suo corpo: e non uno solo, ma due, ma tre, ma dieci, ma cento. È una cosa fantastica. È miracoloso come qualcuno sia ancora vivo. Non fui mai sotto un bombardamento così sterminatore: viene voglia di pensare che tutti gli altri bombardamenti a confronto di questo fossero giochi.

    Quante batterie dunque sono puntate contro questa nera montagna? Tutte le batterie carsiche, certamente: tutte, da Monfalcone a Gorizia. E sono tutti i calibri. E tutti gli aeroplani sono in cielo. È spettacolo tremendo, inimmaginabile: non c’è lingua d’uomo né penna di scrittore che possano darne la più pallida idea. Le belve di tutti i deserti e di tutti i serragli sono scatenate, affamate e urlanti, su questa nera montagna, Ma no: sarebbero nulla anche le belve. Qui sono tutte le potenze delle tenebre, tutti gli orrori degli abissi, gli spaventi di quando la terra non era che un caos informe in corsa vertiginosa nell’oscurità dello spazio infinito. Ma che dico? È inutile ch’io provi a rappresentare alla fantasia di chi non vide e non udì ciò che non è rappresentabile.

    Esco dal villaggetto distrutto, attraverso un prato, ed entro in un bosco. I rami stroncati e i tronchi abbattuti rendono faticoso il procedere. Senza ch’io me ne avveda mi trovo impigliato tra le ali d’un aeroplano. È dei nostri. Un altro aeroplano è poco più in là. Gli aviatori giacciono al suolo schiacciati.

    Vedo una piccola buca cinta di pietre. Vi sono dentro alcuni soldati, i quali mi chiamano. E io vado; e sto lì qualche poco per prendere respiro. Poi esco, faccio pochi passi e mi volto: la buca presa in pieno da una bomba da aeroplano è distrutta e i soldati con essa. Penso che non uno solo si sia salvato.

    «O Signore, – dico – che è dunque? Io sento la tua mano sul mio capo. Io vivo e passo di miracolo in miracolo: tu vuoi ch’io sia salvo: tu vuoi ch’io viva. Perché io, o Signore, e non tutti questi altri poveretti? Perché proprio io? Per quale misteriosa causa, o Signore? Per quale tuo recondito disegno?».

    Parlo così col Signore; e intanto striscio fra gli alberi, brancico fra i morti, salgo lentamente e affannosamente verso la vetta. Non mi domando se piegando a destra o a sinistra io possa uscire prima dal terreno bombardato: guardo alla vetta del monte, voglio salire lassù: così facendo mi pare di avvicinarmi al cielo, di ascendere più presso al Signore, di cui mi sento sul capo la mano.

    Giungo finalmente sulla vetta, mi fermo, mi volto indietro. Qui i colpi di artiglieria sono più radi. E qui c’è il sole; un sole grande e sfolgorante. Ma laggiù dov’ero poc’anzi, la distruzione continua,e le tenebre e la caligine vi sono dense e nere come nella notte più fonda.

    Con la mano che tuttora sanguina mi faccio il segno di Croce e rivolgo a Dio una preghiera per quelli che laggiù sono morti e per quelli che continuano a morire.

    Ma, terminata la preghiera, un improvviso sfinimento mi piglia, la vista mi si appanna, tento due passi, barcollo e cado.

    Non perdo tuttavia i sensi. Un «bu bu» enorme come il fragore di mille cascate s’agita nel mio cervello; e mi pare di essere in un treno che corra pazzescamente sulle sponde rocciose di oscuri mari in tempesta. Odo suoni di trombe e rulli di tamburi; e campane dal sommo di campanili altissimi squillano ininterrottamente. E sento lunghe implorazioni di bimbi e gemiti disperati di donne. Voglio riaprire gli occhi, e non posso. Cerco di puntare le mani al suolo per rialzarmi; non mi è possibile. E le implorazioni dei bimbi e i gemiti delle donne mi si fanno più presso. È cosa tanto straziante, che anch’io ne piango. Le mie lacrime scendono giù lungo l’orlo degli occhi e cadono sul terreno. E prendo a lamentarmi anch’io; e gemo flebilmente e imploro. E ho l’impressione che una mano gelida mi cinga tutt’intorno il cuore; la mano ha lunghe dita ossute e forti, e le dita terminano in unghie adunche come artigli. La mano è sull’atto di stringere, ma esita. Temporeggiando, accresce il mio tormento. E la sensazione di freddo è già di per sé simile alla morte. Fra poco il cuore non pulserà più, il sangue non correrà più e tutto sarà finito. La morsa della gelida mano va serrandosi a poco a poco: l’unghia del mignolo fa le sue prove, tenta infiggersi nella carne, e un rivolo di sangue scorre... Io getto un grido e riapro gli occhi.

    Allora, dolce apparizione, vedo curvo su di me il mio più fido soldato, Luigi Scagnetti: egli mi sbottona la giacca sul petto e con una fronda di quercia mi fa aria alla fronte. «Ah, sei tu? – esclamo. E mi pongo a sedere. – È nulla – aggiungo, sospirando, e con uno sforzo riesco ad alzarmi. Mi guardo attorno smarrito. Il sole è rovente. – Dove siamo? Che è avvenuto? E come sei qui anche tu?».

    «Siamo prigionieri » dice. Egli ha la mia borraccia piena d’acqua: me la porge e io bevo.

    «Prigionieri, hai detto? Ma ne sei proprio sicuro? E chi ci impedisce di fuggire e di rientrare fra i nostri?». A poco a poco le forze ritornano. Le gambe non vacillano più. Scendiamo a ridosso del monte e troviamo un riparo e ci proponiamo di nasconderci lì e di attendere la notte. Siamo completamente soli. Pensiamo che non sia difficile, a notte, poter tornare dentro le nostre linee.

    «Bisognerebbe – dice il soldato – poterci vestire come vestono i nemici. Se avessimo ciascuno una loro divisa...»

    Non ha finito egli di dire queste parole che i nostri occhi, contemporaneamente, si posano su due cadaveri che sono poco lungi da noi, addossati a uno scoglio. Sono dell’esercito nemico: non li avevamo visti prima.

    «Oh, ecco – diciamo – è la Provvidenza. Li spoglieremo e ci vestiremo dei loro panni».

    E stiamo lì a guardarli, sorridiamo ai miseri cadaveri e ci pare che ora, per essi, tutto ridiventerà possibile e facile.

    I raggi del sole, pur essendo ardenti, non cadono a piombo: sono anzi molto obliqui e lontani. Io penso che là dove ora è il sole debba essere la parte del tramonto. Lo dico al soldato.

    «Ma io non credo – osserva egli – non credo che il sole stia per tramontare. Forse è il levante,

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