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Ezio Balducci e il fascismo sammarinese (1922-1944)
Ezio Balducci e il fascismo sammarinese (1922-1944)
Ezio Balducci e il fascismo sammarinese (1922-1944)
E-book429 pagine6 ore

Ezio Balducci e il fascismo sammarinese (1922-1944)

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Info su questo ebook

La storia del fascismo nella Repubblica di San Marino è un caso di studio che pone il quesito, in qualche modo paradossale, circa l'effettiva natura fascista del fascismo sammarinese. Il volume ha cercato di rispondere all'interrogativo tenendo in considerazione i principali risultati acquisiti nel dibattito storiografico sul fascismo italiano, che costituisce il modello in base al quale si può misurare la particolarità del caso sammarinese. Per effettuare questa comparazione, la ricerca ha utilizzato documenti fino ad oggi inutilizzati o inediti. Attraverso l'impiego incrociato di fonti provenienti da più archivi pubblici, italiani e sammarinesi, è stato possibile decifrare in modo più dettagliato alcuni dei momenti fondamentali della storia repubblicana tra le due guerre. L'accesso ai documenti lasciati in eredità da Ezio Balducci, rilevante figura del fascismo italiano e protagonista contrastato della vita politica sammarinese, oggi depositati presso l'Archivio di Stato di San Marino, ha fornito, inoltre, un punto di vista privilegiato per approfondire alcuni momenti decisivi per la definizione dell'identità della Repubblica durante il ventennio e oltre. Tra questi risaltano lo scontro interno al regime sammarinese, di cui Balducci è uno dei principali protagonisti, culminato nel presunto tentativo di colpo di Stato del giugno 1933, nonché il coinvolgimento indiretto della Repubblica nella Seconda guerra mondiale. Questi passaggi sono stati inseriti all'interno di una narrazione unitaria che ha seguito la parabola del fascismo sammarinese ricostruendone l'ascesa, le conflittualità interne, l'attività di governo e, in ultima istanza, il crollo repentino.

The study of the fascism in the Republic of San Marino raises the somewhat paradoxical question – what was thw real nature of fascism in the fascist movement in San Marino? In this book yhe author has tried to answer this question, whil bearing in mind the main findings of the historiographical debate about Italian fascism, at this is the model against which it is possible to measure the distinctive characteristics of the situation in San Marino. In order to carry out this comparision, during the research documents were used which prior to this had never been released or consulted. Furthermore, by comparing data from various sources in public archives, both in Italy and San Marino, it was possible to decipher in a more detailed way some of the key moments in the history of the Republic between the two World Wars. Ezio Balducci was an important figure in the Italian fascist movement and a prominent controversial political figure in San Marino. Access to documents bequeathed by him, which are now to be found in the State Archive in San Marino, has given a vantage point from which to explore some of the decisive moments in the definition of the Republic’s identity during the twenty years of the fascist period and beyond. Among these there are the clashes within the regime in San Marino, of which Balducci was one of the main protagonists, culminating in the indirect involvement of the Republic in the Second World War. These episodes have been inserted into the main overall account which follows the rise and fall of fascism in San Marino, retracing its growth, the internal conflicts, the activities of the government and, ultimately, its sudden collapse.

L'autore
Gregorio Sorgonà (1980), dottore di ricerca in Storia politica e sociale dell’Europa moderna e contemporanea, è borsista presso la Fondazione Istituto Gramsci. Ha pubblicato la monografia La svolta incompiuta. Il gruppo dirigente del PCI dall’VIII alll’XI Congresso (Aracne, Roma 2011).
LinguaItaliano
Data di uscita23 giu 2017
ISBN9788898275588
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    Anteprima del libro

    Ezio Balducci e il fascismo sammarinese (1922-1944) - Gregorio Sorgonà

    Poscritto.

    Abbreviazioni usate

    ACS Archivio Centrale dello Stato

    AP Affari Politici

    ASMAE Archivio storico diplomatico del Ministero degli Affari Esteri

    ASRSM Archivio di Stato della Repubblica di San Marino

    CGG Verbali del Consiglio Grande e Generale

    CR Carteggio Riservato

    PCM Presidenza del Consiglio dei Ministri

    PS Pubblica Sicurezza

    RP Rapporti politici

    RSI Repubblica Sociale Italiana

    SPD Segreteria Particolare del Duce

    TSDS Tribunale Speciale per la Sicurezza dello Stato

    ​Presentazione di Ercole Sori

    I libri di storia talvolta hanno una storia. Questo è uno di quei libri. Presso l'Archivio di Stato di San Marino giacevano le carte di Ezio Balducci, un fondo archivistico che il prof. Alessandro Balducci, figlio di Ezio, aveva depositato temporaneamente con il lodevole intento di offrire un importante strumento di lavoro alla ricerca sulla storia della Repubblica nel periodo tra le due guerre. Era, inoltre, desiderio della proprietà del fondo valorizzarlo attraverso un rigoroso esame del suo contenuto e un suo inserimento nel lavoro storiografico sammarinese. Per realizzare questi obiettivi il prof. Balducci, il direttore dell'Archivio di Stato dott. Michele Conti e il direttore del Centro Sammarinese di Studi Storici firmarono una convenzione che, ai fini della suddetta valorizzazione, prevedeva l'assegnazione di un contratto di ricerca a uno storiografo di provata qualificazione, nonché la pubblicazione di un volume presso la collana del Centro. Questi obiettivi si sono in gran parte realizzati sia attraverso il lavoro di Gregorio Sorgonà, un giovane ricercatore allievo del prof. Piero Bevilacqua, professore ordinario di storia contemporanea presso l'Università della Sapienza di Roma, sia con la pubblicazione di questo 38° volume della collana. Risultato implicito, ma non meno importante, di questi accordi e queste realizzazioni è la stabile conservazione del fondo Balducci presso l'archivio di Stato, che in tal modo arricchisce i beni culturali della Repubblica con un patrimonio documentario di indubbio valore per chi voglia studiare e conoscere il Novecento sammarinese. Si tratta, tra l'altro, di una operazione con la quale si esplicita il crescente interesse verso la possibilità che l'archivio pubblico acquisisca, in proprietà o in deposito, fondi privati in grado di accrescerne l'offerta documentaria.

    A operazione ormai conclusa sul fondo Balducci, sono stato invitato a esaminare l'archivio della famiglia Gozi, le cui dimensioni, natura e im-portanza non hanno bisogno di essere qui sottolineante. Confesso di aver provato, durante la visita, un certo rimpianto per una occasione mancata, quella di ricostruire la storia del fascismo sammarinese attraverso il parallelo confronto tra le voci contrapposte e discordanti che sarebbero emerse dalle due fonti documentarie. In ogni caso credo che il Centro Sammarinese di Studi Storici abbia assolto con rigore al compito, ormai improrogabile dopo gli oltre settanta anni trascorsi dalla chiusura di quella esperienza politica, di inserire nuove tessere nel mosaico che descrive il ventennio di oscuramento della democrazia in Italia e nella Repubblica di San Marino. Con rigore, dicevamo, ma anche con la consapevolezza che le immagini restituite dai mosaici storiografici non sono mai compiute, definitive: esse attendono sempre nuove tessere da inserire e ricollocazioni di quelle già inserite.

    Il Centro Sammarinese di Studi Storici ha sostenuto di buon grado, sia scientificamente che finanziariamente, l'intera operazione, valendosi della competenza del dott. Michele Conti, per gli aspetti archivistici, del prof. Maurizio Ridolfi, come tutor per gli aspetti relativi alla storia del fascismo italiano e degli altri membri del Consiglio Scientifico del Centro, che hanno letto e approvato il lavoro di Gregorio Sorgonà. È dovuto, infine, un riconoscimento a Maria Chiara Monaldi, il cui prezioso lavoro di editing ha valicato i normali confini della traduzione di un manoscritto in un testo a stampa.

    Ercole Sori

    Direttore del Centro Sammarinese di Studi Storici

    Il fascismo a San Marino, tra periferia e autonomia

    Fascismo e fascismi: il dibattito storiografico

    Riprendere in mano, oggi, a circa quarant'anni dalla monografia di Anna Lisa Carlotti, attualmente la prima e l'unica sul tema[1], la ricostruzione delle vicende storiche del fascismo sammarinese comporta, innanzi tutto, un tentativo di ricollocazione storiografica del caso di studio in questione. Questa esigenza è dovuta all'evoluzione del dibattito sul fascismo, e in particolar modo sul fascismo in periferia. La necessità di storicizzare il fenomeno fascista ha dato vita, a partire dagli anni Sessanta, a uno dei più robusti, e probabilmente dei più riusciti, esempi di lavoro storico collettivo, spesso animato da un duro dibattito al suo interno, che ha tentato di comporre una definizione della sua specificità.

    Il caso sammarinese va letto all'interno di questo lungo tentativo di specificazione perché sia possibile capire fino a che punto la Repubblica, tra il 1922 e il 1943, si sia assimilata al vicino regime fascista. Se la prospettiva dev'essere, innanzi tutto, quella dell'analisi comparativa all'interno del filone degli studi sul fascismo in periferia, occorre precisare, però, che nel caso sammarinese non siamo di fronte a una provincia dell'Italia fascista ma a un caso in cui la perifericità e l'autonomia del fascismo locale convivono.

    L'esigenza di ritornare a indagare questa parte della storia sammarinese è suscitata anche dalla disponibilità di nuovi materiali archivistici, su tutti il Fondo Ezio Balducci. Protagonista della vita politica sammarinese e figura importante sia del fascismo emiliano-romagnolo che di quello universitario italiano, Balducci divenne un personaggio eminente all'interno di entrambi i regimi. La sua presenza fu determinante in momenti decisivi per la vita sammarinese (lo dimostra il fondo da lui lasciato in eredità), come il periodo a cavallo tra anni Venti e anni Trenta e l'anno, per certi versi terribile e per altri eccezionale, che tra il 1943 e il 1944 mise a dura prova la comunità sammarinese nel momento in cui venne a trovarsi a ridosso della Linea gotica, tra i due fuochi dell'esercito anglo-americano e delle forze del nazifascismo. A questi anni si rivolge, in modo particolare, la nostra attenzione ma tenendo ben saldo un obiettivo: quello di una ricostruzione cronologica che, nei limiti del possibile, non presenti vuoti o salti diacronici.

    La figura di Balducci assume importanza perché è grazie a essa che possono essere ricostruite le modalità della lotta politica a San Marino sotto il fascismo e le ragioni di merito, oltre che le differenze di carattere politico-culturale, che animarono quel conflitto. Lo scopo, tuttavia, è quello di una comparazione sistemica, al cui interno i percorsi individuali sono fondamentali per comprendere caratteri e particolarità di sistemi organizzati di potere.

    Una sintetica, recente e per molti versi convincente, ricostruzione di argomenti e acquisizioni del dibattito storiografico è quella fornita da Tommaso Baris nel suo studio sul fascismo nella provincia di Frosinone[2], che riconduce i nuclei tematici del fascismo periferico a quelli già evidenziati da Ernesto Ragionieri nel testo del 1971 sulla Toscana in periodo fascista[3]. Nella descrizione di Ragionieri questi nuclei tematici possono essere ricondotti al ruolo del Partito nazionale fascista in periferia, ai meccanismi di selezione e costruzione di una classe dirigente fascista, al grado di identificazione che la società civile esprime nei confronti del progetto totalitario e al conseguente livello di attrito tra questa imposizione verticistica e una periferia caratterizzata da propri specifici assetti sociali ed economici[4]. Al di là del merito delle interpretazioni di Ragionieri, affrontare il tema dei fascismi in periferia e della costruzione di una classe politica fascista, pone necessariamente il problema di sottoporre ad analisi quella struttura – il partito – sul quale la storiografia italiana degli anni Settanta si presenta più sguarnita.

    La connessione tra studi sul partito fascista e studi sul fascismo in periferia è inestricabile. Solo affermando una autonomia del partito rispetto a una catena di comando in cui gli elementi del binomio di potere sono costituiti dal duce e dai prefetti e, quindi, solo specificando ulteriormente la particolarità del fenomeno fascista, la storia delle sue articolazioni periferiche acquisisce respiro e interesse perché questi ultimi non appaiono più come mera riproduzione di una volontà, esterna sia ai territori sia, in ultima istanza, al fascismo stesso.

    Se la natura tendenzialmente poliarchica del fascismo è una acquisizione della storiografia che si può datare quantomeno ai volumi di Renzo De Felice sul regime negli anni Venti, lo studio del fascismo in periferia si inserisce in un dibattito successivo sulla sua natura totalitaria che tentò di riassumere o di assimilare a un modello ideologico la struttura decentrata del regime.

    Il tema del totalitarismo diventa nodale, nel dibattito storiografico, sulla scorta delle fondamentali opere di Mosse relative al processo di nazionalizzazione delle masse che hanno trovato, nel nostro Paese, probabilmente il loro interprete più profondo in Emilio Gentile. La definizione fornita da Gentile, per molti versi pioneristica, della specificità del fascismo nel suo tentativo di farsi centro in periferia, rivolge la propria attenzione al ruolo svolto e al carattere assunto dalla organizzazione fascista per eccellenza, il partito, diretto portato degli studi sul fascismo in periferia, mentre la visione di Renzo De Felice tendeva a subordinare il ruolo del partito, e conseguentemente il peso del totalitarismo, alla preminenza della figura carismatica di Benito Mussolini. Partito, ideologia, canali della lotta politica, ruolo della figura carismatica, ridefinizione degli spazi urbani e dei riferimenti simbolici: sono questi i caratteri di fondo su cui si gioca il tentativo totalitario e la specificità vera e propria del fascismo.

    La connessione di metodo tra storia del partito e storia del fascismo in periferia assume ancora più rilevanza nei primi anni Novanta, quando al dibattito metodologico iniziano a sommarsi studi sempre più specifici e suddivisi per aree territoriali, secondo una lettura ormai andata oltre la prospettiva regionalista che aveva improntato sia il lavoro di Ragionieri sia l'impianto della Storia d'Italia per Regioni pensata dalla casa editrice Einaudi. Un contributo importante lo forniscono gli studi di Nicola Gallerano e Marco Palla. Anche in questo caso la storia del partito diviene a tutti gli effetti il banco di prova per testare il dibattito su che tipo di regime sia quello fascista e sul grado di penetrazione totalitaria che esso riesce a raggiungere.

    Marco Palla individua l'obiettivo, e la lacuna storica da colmare attraverso la ricerca, degli studi sul fascismo in periferia nel compito di ricostruire la composizione sociale del ceto politico fascista, affermando che è esistito, con esso, anche una struttura, il partito, che è riuscita a garantirne l'organizzazione. L'analisi, a questo proposito, è la traduzione pratica di un imperativo storiografico comune alla stagione di studi che nasce con gli anni Settanta, ossia che il fascismo non può essere considerato come il frutto di un'invasione esterna, secondo il paradigma crociano degli Hyksos. Questo imperativo è il banco di prova per prendere sul serio non solo il fascismo ma anche il suo grado di penetrazione nella società italiana. Si può dire che Palla adotti per il movimento fascista, nella fase della presa del potere, quella definizione, resa celebre da Palmiro Togliatti, di regime reazionario di massa, quando afferma che il fascismo squadrista si presenta come «una risposta di massa, una violenta reazione dei ceti intermedi mobilitati militarmente contro le organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio e contadino, sia di orientamento socialista sia di ispirazione cattolica». Il movimentismo, che a più riprese il partito tenta di ricondurre dentro una gerarchia verticale, è forse la ragione principale per cui lo studio del rapporto triangolare tra partito, Stato e società è essenzialmente uno studio su quell'oggetto difficile per definizione che è la conflittualità politica all'interno di un regime totalitario[5]. Argomenti, questi, pressoché tutti ripresi in un importante numero della rivista «Italia contemporanea» dedicato, nei suoi saggi introduttivi, interamente allo stato degli studi sul fascismo in periferia e che consente a Palla di fornire questa utile definizione dei caratteri della dialettica politica all'interno del regime:

    Il rapporto partito-Stato [...] ha spesso condotto a generalizzazioni improprie, che sopravvalutano la sconfitta del partito e la portata della preminenza dello Stato sugli organismi partitici di periferia, espressa con la circolare di Mussolini ai prefetti del 1927. Ma questo rapporto appare tanto più conflittuale quanto più lo si guardi dall'alto e dal centro; mentre fu al contrario un rapporto di storico stabilimento di accordi, di patteggiamenti, di spartizione di poteri se lo si inquadra anche dal basso e dalla periferia. Si trattò di una serie continua di concreti adeguamenti – nelle forme peculiari possibili, e dunque eminentemente locali oltre che nazionali – di una struttura politica e sociale [...] che aveva grande forza e perfino una certa rappresentatività solo in alcune aree del paese, ed era palesemente gracile in altre[6].

    Sempre all'interno di questo contributo collettivo, si inseriscono altre due importanti riflessioni di Nicola Gallerano e Pier Paolo D'Attorre.

    Nell'interpretazione di Gallerano, la storia del fascismo in periferia è, oltre che una difficile acquisizione, anche il modo per riformulare la scissione più rilevante tra le interpretazioni degli studiosi del fascismo fornendo, attraverso la storia locale, uno sguardo globale più compiuto sul regime. I due approcci individuati da Gallerano sono quelli di chi analizza il fascismo da un punto di vista politico-sociale e ne privilegia il ruolo rivoluzionario, e di chi, invece, lo affronta da un punto di vista economico; questi ultimi tendono a sottovalutarne l'incidenza e a individuare i momenti di rottura nella storia d'Italia negli anni di più rilevante accelerazione industriale, come il periodo che intercorre tra la fine dell'Ottocento e il primo decennio del Novecento, e gli anni del miracolo economico. Tale difetto di valutazione è considerato, da Gallerano, parallelo a quello di chi legge il fascismo senza una prospettiva di lunga durata e sottolineandone pressoché esclusivamente la natura rivoluzionaria[7].

    All'interno di questo settore politico-sociale, Gallerano distingue due ulteriori approcci, quelli proposti da Paolo Pombeni e da Emilio Gentile[8], accomunati nella ricerca del ruolo attribuito al partito. I due studiosi suggeriscono di portare altrove quella ricerca dato che, all'epoca, era «assente o insufficientemente tematizzato [...] lo studio del funzionamento effettivo delle organizzazioni fasciste e del grado di coinvolgimento degli organizzati», mancando «in altri termini una storia locale di queste istituzioni, sulla quale si misurano invece le migliori ricerche locali».

    Gallerano introduce un primo giudizio sul successo dell'esperimento fascista per aree geografiche, distinte tra un Mezzogiorno al cui interno, pur con tratti di ambiguità, il fascismo tenta di rompere il sistema notabilare e clientelare, una seconda area qui esemplificata con il Piemonte, che vede la capacità d'iniziativa del fascismo inibita e fortemente condizionata da uno schieramento conservatore e legittimista e, infine, il caso toscano, che registra il primato dei fascisti sugli elementi fiancheggiatori, raggiungendo una penetrazione molto consistente nei ceti medio-alti[9].

    La proliferazione dei centri, come viene ricordato sempre su queste pagine da Pier Paolo D'Attorre, parte dalla consapevolezza che criticare la descrizione del rapporto tra regime e periferia nei termini di una cinghia di trasmissione verticale equivale a indebolire un altro paradigma, quello della dipendenza, visto che «non sembra reggere più, neppure per il Mezzogiorno più profondo, l'idea di una passività della periferia contrapposta ad un onnipotente centralismo burocratico», mentre l'obiettivo auspicabile per le ricerche future è quello di «rintracciare, tra le due guerre, quanto meno, le origini di un modello di sviluppo nazionale misto e multi regionale, cioè fondato sulla sinergia tra una forte presenza dello Stato e dinamiche locali differenziate». Pier Paolo D'Attorre applica, a partire dall'analisi del fascismo in periferia e del caso specifico a lui più noto del fascismo emiliano-romagnolo, la categoria di modernizzazione passiva[10].

    La categorizzazione esce confermata anche dal testo che Vittorio Cappelli dedica, nel 1992, al caso calabrese. Nell'introduzione al testo Piero Bevilacqua, uno dei precursori dello studio del fascismo nella dimensione territoriale-regionale[11], ricorda come il regime sia stato analizzato e studiato non tanto nella sua composizione politica, quanto nella sua capacità di esercitare violenza mancando, proprio per questo, una descrizione del regime mediante il suo carattere politico e la sua articolazione geografica[12]. A partire da questo modello, Cappelli sostiene come anche nel caso calabrese i caratteri del fascismo avrebbero teso a fondere una spinta modernizzatrice con la ricomposizione di un nuovo blocco dominante. Cappelli rigetta il paradigma della stagnazione e, con esso, l'idea che la costruzione del regime totalitario comporti un periodo di stasi economica – o, al solito, un momento parentetico – cui associare parallelamente un fenomeno politico improntato alla restaurazione sociale. In tal modo, restituisce i caratteri specifici del blocco sociale che cresce attorno al fascismo e i potenziali episodi di attrito interno, oltre che i rapporti di forza che dentro l'eterogenea compagine del fascismo, divenuto regime, vengono a stabilirsi[13].

    Argomenti simili sono quelli introdotti da Salvatore Lupo che contesta, a un autore come Luigi Ponziani e al suo studio sul fascismo nel Mezzogiorno, un taglio datato perché tendente a riprodurre l'interpretazione secondo cui il fascismo, al Sud, si rivelerebbe, a conti fatti, un caso di trasformismo politico[14]. Lupo sostiene invece che il fascismo non giunge al Sud come invasione straniera, poiché le basi del suo successo risiedono in movimenti altri rispetto a quello fascista. A questo proposito, sulla scorta di Salvatore Lupo, si ricorda che la prima, fondamentale acquisizione delle ricerche locali sul fascismo è avvenuta all'interno di una struttura storica complessa e attraversata da un fermento diffuso, e dal destino non determinabile a priori, quale fu l'Italia del primo dopoguerra.

    Lo studioso, inoltre, suggerisce di leggere il movimento fascista come il convergere di determinate periferie alla conquista del centro e propone un tentativo di interpretare i caratteri della lotta politica dentro il fascismo attraverso i mezzi, o le retoriche, cui essa fa riferimento. Lupo riesce così a fornire questa definizione degli strumenti della lotta politica che è, anche, un carattere specifico e ineludibile di una organizzazione totalitaria, quale lo Stato fascista:

    Non importa qui comprendere quanto ci sia di reale, di verosimile, di strumentale e di inventato nelle accuse. Importa invece riconoscere il fatto che questo è l'involucro retorico dei conflitti interni al regime. Il fascismo abolisce per decreto la lotta politica, anche all'interno del partito, e soprattutto in periferia dove a maggior ragione bisogna credere, obbedire, combattere. Non sempre lo schema interpretativo basato sull'opposizione tra radicali e moderati [...] vale a spiegare la persistenza dei conflitti di fazione; peraltro non è sempre utile per i fascisti stessi spiegare il conflitto secondo un simile schema, che in fin dei conti legittima e il copione e gli attori. Delegittimare il contrasto relegandolo nella sfera della morale pubblica, o privata, o anche sessuale, è più semplice, più rapido, e in ultima analisi più consono a un'ideologia profondamente imbevuta di antipolitica [...] Non intendo dire che la diffamazione rappresenti un'esclusiva del regime fascista. Ma certamente la chiusura del sistema, la mancanza di libero dibattito, il carattere sospettoso e paranoide del rapporto centro-periferia, lo rendono il campo ideale per la trama e il complotto[15].

    Il regime fascista mostra il suo carattere peculiare nella verticalità potenzialmente assoluta, perché indiscriminata, al cui apice si pone un Mussolini cui va stretto il vestito di principe o di monarca feudale[16], che costituisce un «parallelo appropriato purché si tenga conto che manca in questo regime un insieme di princîpi di legittimità che regoli i rapporti tra l'aristocrazia e il tiranno, il gioco complesso delle fazioni che coinvolge il duce, la sua corte, l'élite del partito e le forze esterne ad esso»[17].

    Tra il 1993 e il 1998 vengono proposti, invece, dei percorsi di studio selettivi particolarmente interessanti, anche ai fini della particolarità dello studio che qui si intende condurre, perché affrontano specificamente il tema del fascismo romagnolo.

    Nel 1993, «Memoria e Ricerca» dedica i primi due numeri a questo argomento a partire dagli interventi di storici, come Pier Paolo D'Attorre e Marco Palla[18], che svolgono un ruolo pioneristico per ciò che riguarda la storia del rapporto tra fascismo e territori. Il primo dei due volumi ha come oggetto di studio la provincia di nascita di Mussolini, Forlì, e prova a individuare quanto e se abbia influito la rete clientelare di Mussolini nella sua terra di nascita. Per D'Attorre, il peso della rete mussoliniana è circoscritto, da considerarsi pressoché non rilevante dal momento che non dà luogo «a nulla di comparabile a quanto avvenuto in altri contesti». Il modello della modernizzazione passiva, introdotto dallo stesso D'Attorre, sembrerebbe essere meno vincolante per questa singola realtà urbana, negli anni Venti, quando vive un periodo di stagnazione economica mentre, negli stessi anni, le iniziative imprenditoriali più vitali, come quelle di Paolo Orsi Mangelli nel campo della produzione di fibre tessili, non ricevono un rilevante sostegno da parte dello Stato. Gli anni Trenta, invece, si caratterizzano per un'azione di sostegno territoriale che non mancherà di produrre risultati soprattutto per i beneficiari politicamente più vicini al regime, registrando però un relativo ammodernamento produttivo, soprattutto nella seconda metà del decennio, che sembra confermare anche per Forlì il modello di interpretazione generale fornito da D'Attorre[19].

    Il saggio di Palla consente, invece, di tracciare una prima mappa territoriale del potere fascista nella provincia forlivese delineandone alcuni caratteri specifici, come la forte rissosità al limite del personalistico, che verranno confermati anche da studi successivi. L'intervento di Palla applica, inoltre, a un caso di studio selezionato, un modello di analisi del fascismo periferico e del modo in cui esso si fa Stato, che contempera il tentativo ideologico di selezionare una nuova classe dirigente e l'attrito con il contesto su cui va a incidere tale ideologia. Anche in questo caso sembra confermata la dialettica tra l'affermazione della nuova ideologia e il contesto storico della società su cui essa si innesta, con delle scansioni cronologiche precise che datano alla seconda metà degli anni Trenta la normalizzazione della provincia ma senza che il progetto di costruire una classe dirigente locale possa dirsi soddisfatto vista la prevalenza, testimoniata dalle biografie dei podestà, di un ceto politico tradizionale dai tratti notabilari e costituito da possidenti[20].

    Il secondo numero monografico dedicato dalla rivista al fascismo romagnolo specifica ulteriormente in che modo esso venga inquadrato: espressione locale dal carattere reazionario che si relaziona sia con le tendenze totalitarie del regime sia con una società civile la cui sopravvivenza alla fascistizzazione rende incompiuto lo stesso tentativo totalitario, almeno in questo territorio[21].

    Un ulteriore contributo giunge dal volume curato da Massimo Lodovici sul fascismo in Emilia Romagna, la cui pubblicazione risale al 1998. Lodovici parte dal presupposto che, della Romagna fascista, si debba fornire un inquadramento storico in base a problemi quali la mobilità dei ceti al potere, il rapporto dialettico tra politica e società, la capacità di penetrazione del regime a livello pubblico e privato. In altri termini, Lodovici e gli autori di questo volume, sulla scorta delle indicazioni e degli studi di Pier Paolo D'Attorre, individuano nel fascismo locale, e in quello romagnolo in particolare, un fenomeno storico da analizzare nella sua politicità e non come frutto esclusivo di una azione violenta, muovendosi dentro una interpretazione storica per cui il regime viene tratto fuori dal cono d'ombra della parentesi. Le ricerche di storia locale o dei fascismi in periferia, annota Lodovici, possono servire a restituire l'immagine del fascismo attraverso le biografie dei fascismi e dei fascisti e quindi esercitandosi sulla specificità che compone dialetticamente il regime[22]. Anche nel caso emilianoromagnolo viene circoscritto il primato della lettura classista della reazione agraria, fondata su un paradigma binario, quale quello basato sul rapporto tra reazione e progresso.

    Il volume in questione ritrae la storia del fascismo in periferia non tanto nella sua peculiarità regionale (e la contestazione dell'approccio dei volumi sulle Regioni della Einaudi è dichiarata), quanto come un fascismo territoriale: la caratteristica specifica dei contesti presi in esame è la loro instabilità politica che si estende fino ai primi anni Trenta, a indicare una conflittualità sui cui caratteri e sulla cui datazione si sofferma il dibattito più recente sul fascismo in periferia. Il riferimento metodologico cui viene attribuito particolare valore è quello proposto da Salvatore Lupo nel succitato contributo, che considera gli anni intorno al 1930 uno spartiacque, durante i quali il processo politico fascista si verticalizza e burocratizza proprio al fine di controllare le espressioni e le conflittualità locali del fascismo[23].

    Nella ricostruzione dei temi generali e del contesto regionale del fascismo bolognese fornita da Luca Baldissara, il limite principale ascritto alla storia locale del fascismo è sia quello del mancato dialogo tra situazione locale e situazione nazionale, sia quello di una netta dipendenza dal contesto bolognese, uno degli incunaboli più violenti del fascismo. Questo carattere, per Baldissara, ha spinto erroneamente a sopravvalutare il momento dello squadrismo sminuendone, però, la valenza politica. L'effetto, da un punto di vista storiografico, è riconducibile alla netta perimetrazione delle ricerche sul tema delle origini del fascismo nel bolognese[24], mentre il modello di interpretazione da lui proposto, che fa esplicito riferimento a D'Attorre[25], guarda a questo fenomeno politico applicandogli prevalentemente la categoria gramsciana della rivoluzione passiva o quella, analoga, della modernizzazione conservatrice.

    Il presupposto metodologico utilizzato e secondo il quale, essenzialmente, il fascismo è un fenomeno storico complesso non comprimibile nei vari dittici consenso/dissenso, reazione/modernizzazione, trova un riferimento esplicito nelle già citate riflessioni storiografiche di Nicola Gallerano[26] e quindi nel tentativo di smentire il paradigma della stagnazione sociale.

    Si può così affermare che il modello di lettura del fascismo che esce indebolito è quello legato a una visione stagnazionista. Messo in discussione da Renzo De Felice prima di ogni altro, questo modello consente una ridefinizione degli studi sul fascismo sulla scorta di un'opera di ricognizione del rapporto tra il regime nelle sue articolazioni e la società italiana tra le due guerre[27].

    Il rapporto tra centro e periferia, in ultima sintesi, non è qualcosa di statico o di facilmente riassumibile in un cuore individuabile nell'Italia centro-settentrionale e una periferia prevalentemente meridionale che accoglie, mediandolo attraverso le proprie strutture di potere, un fenomeno esogeno. Piuttosto, è di centri e periferie[28] al plurale, che si deve parlare, affrontando il fenomeno fuori da uno schema di contrapposizioni binarie. Esso, semmai, è frutto di una particolarità e di una sostanziale irriducibilità a un principio unico, del processo di costruzione dello Stato italiano[29], che è costellato di territori divisi tra aree a processo politico attivo e aree a processo politico passivo.

    Su questi argomenti, procedendo dal caso territoriale della Romagna a quello ancora più specifico di Forlì, occorre segnalare il contributo proposto recentemente da Andrea Guiso. Egli parte dall'ipotesi di lavoro, non estranea alla riflessione storiografica della microstoria, che il rapporto tra centro e periferia sia costituito da relazioni in cui la seconda riformula la modernizzazione, piuttosto che bloccarla, secondo i propri linguaggi specifici. Con questa traduzione della modernità in periferia, l'amministrazione statale deve mantenere una dialettica costante e dall'esito niente affatto scontato (anzi a sopravvivere, o vincere, spesso è il periferico). La scelta di Forlì non è casuale, in quanto provincia natale del duce che, con quest'ultimo, instaura un intenso rapporto di patronage. Allo stesso modo, le vicende del fascismo sammarinese mostrano la ricerca costante di una figura protettrice per la Repubblica, quale quella di Mussolini. Ciò che ne emerge, secondo Guiso, è un protagonismo delle élite periferiche, una nuova narrazione locale che deve aggiornarsi facendo riferimento alle acquisizioni della storia del diritto riguardo la crisi del monismo istituzionale e, infine, l'esigenza di studiare il fascismo come sistema a composizione dialettica in cui proprio la distruzione degli istituti del regime liberale rende ancora più urgente la gestione dei rapporti dello Stato con la periferia, con un surplus di carichi di lavoro e di potenzialità carismatica, per la figura del duce.

    Nel caso forlivese – il fascismo a più stretto contatto con quello sammarinese – agiscono alcuni fattori che lo rendono particolare: l'esigenza di intervenire, attraverso il prefetto, per regolare una situazione conflittuale pressoché endemica e la persistenza di reti di patronato politico che mantengono una maggiore continuità con l'età liberale smentendo, almeno per il caso forlivese, una lettura del fascismo in cui sono decisive le categorie di rivoluzione e totalitarismo[30].

    La dialettica del potere fascista va restituita caso per caso e appare difficile, come mostrano molti casi, ricondurre una ricostruzione della sua storia alla facile dicotomia di rivoluzione e reazione, modernità e stagnazione o primato dello Stato e sopravvivenza delle autonomie locali. Seppure non in misura eguale, nei singoli territori, il fascismo si presenta come mediazione tra questi estremi oltre che tra i non convergenti interessi che, dentro le strutture del regime, continuano a muoversi[31].

    I caratteri del regime fascista, prima di affrontare nello specifico il caso sammarinese vanno, infine, ricondotti a un dibattito intorno al discrimine cronologico, da adottare per capire in che momento il processo di traduzione del centro in periferia inizi a realizzarsi in modo organico. Rifacendoci al lavoro di Baris, e sulla scorta di Alberto Aquarone[32], la cesura può essere individuata nella seconda metà degli anni Venti, e in particolare nel triennio che va dal 1926 al 1928, fondamentale per la definizione legislativa di un dispositivo amministrativo e politico che sarebbe venuto meno solo con la fine della dittatura fascista[33]. Gli effetti di questo cambiamento sono esplicitamente ricondotti alla trasformazione amministrativa con l'introduzione della riforma podestarile – 4 febbraio 1926, n. 237, 3 settembre 1926, n. 1910 che la estende ai comuni con meno di 5.000 abitanti – e alla regolamentazione della vita del partito, visto che, a partire dall'estate del 1926, essa subisce un processo gerarchico di verticalizzazione[34].

    Il caso sammarinese si inserisce in questa griglia diacronica. Al tempo stesso, va letto all'interno del tessuto socio-politico ed economico romagnolo, contestualizzando il caso attraverso le opportunità di cui il fascismo sammarinese usufruisce per affermarsi all'interno della Repubblica, facendo riferimento alla bibliografia più recente sul tema.

    1.2. La scoperta dell'Italia: la Repubblica dall'Unità all'avvento del Fascismo

    Il fascismo sammarinese delle origini, nel già citato volume di Anna Lisa Carlotti, è considerato filiazione della lotta di classe, condotta dalla borghesia, che aveva dato al fascismo italiano la sua ragione sociale. Questa interpretazione dà modo di adattare anche al caso di San Marino categorie già utilizzate per comprendere uno Stato più articolato e complesso come quello italiano individuando nel rapporto tra media e piccola borghesia una delle ragioni che conducono il fascismo sammarinese ad affermarsi come forza egemone tra il 1922 e il 1943. La ragione della persistente conflittualità politica tra i suoi protagonisti è ricondotta anch'essa alle origini e a un irrisolto conflitto economico tra gli abitanti della più fertile e ricca zona serravallese, prevalentemente possidenti, e l'area urbana vera e propria[35]. Il testo di Carlotti considera la Repubblica del Titano parte in causa del grande fermento sociale che attraversa il nostro Paese dalla fine dell'Ottocento fino all'affermazione del fascismo, ma non legge il caso sammarinese, né probabilmente poteva, vista l'arretratezza, al tempo, degli studi sul fascismo locale, secondo una griglia interpretativa fondata sulle categorie di centro e periferia. La storia della Repubblica è, semmai, analizzata dentro un paradigma che ne preserva l'autonomia, l'originalità anche all'interno di uno stato di necessità come quello generato dalla conquista del potere dei fascisti in Italia.

    Il volume non ha un taglio comparativo; studi specifici di tal genere avrebbero iniziato a vedere la luce solo con la seconda metà degli anni Ottanta[36], mentre significativi contributi sulle condizioni di possibilità al cui interno si ascrive la vicenda storica del fascismo sammarinese, e che quindi ricostruiscono su uno spettro dalla durata più lunga la storia della Repubblica, vengono prodotti a partire dai primi anni Novanta, in corrispondenza, fra l'altro, con l'irrobustimento degli studi sulla storia locale fra le due guerre condotti contemporaneamente in Italia.

    La prima sintesi che tenta di inquadrare sulla lunga durata la storia della Repubblica in età contemporanea, risale al 1995[37]. Il volume è collettivo, però mostra caratteristiche comuni e consente di approfondire molte delle lacune lasciate in sospeso dal pioneristico lavoro di Carlotti. Il saggio sulla lunga durata, che copre la storia di San Marino tra il 1860 e il 1960, curato da Patrizia Sabbatucci Severini, è importante per ricostruire i caratteri dell'economia e della società sammarinesi tra l'unità d'Italia e l'avvento del fascismo e restituisce l'immagine di un Paese ancora prettamente rurale, a tessuto industriale più debole dell'Italia, nonostante si colgano i segni di trasformazioni sociali rilevanti, quanto contrastate, soprattutto grazie all'intervento pubblico in economia. Il blocco ruralista, a partire dagli anni Ottanta dell'Ottocento, si incrina maturando un conflitto che, prima ancora che di interessi, è di mentalità e di apertura al nuovo. La posizione vincente, inizialmente, è quella che traccia la storia di San Marino quale Stato fieramente autonomo cosicché, quando viene

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