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Lezioni di storia celestiniana
Lezioni di storia celestiniana
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E-book517 pagine7 ore

Lezioni di storia celestiniana

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Essendo che di Pietro de Marone (o Celestino V) chi se ne è occupati, l’ha fatto, sin dalle prime fonti e poi … sempre, con prospettiva di partigianeria (la presentazione agiografica o la ricostruzione asservita ad un interesse; i fautori del potere franco-angioino che cercano la damnatio memoriae di papa Bonifacio VIII o i difensori-seguaci di costui che ne cassano i documenti emessi; le Vite e le Historie degli esponenti dell’Ordo dei Celestini o la storiografia altra e laico-positivista; i favorevoli alla nascita nel “castrum Sancti Angeli” o gli isernisti; i giustificatori della sua rinuncia o i contrari ad essa; gli schiavi acritici dei documenti, talvolta anche ‘falsi’ se non voluta-mente falsificati, o chi fa ricostruzioni asettiche delle vicende; …) e da punti di vista diversi e tra loro quasi inconciliabili (e, comunque, sempre contrapposti), sin dal primo approccio emerge la difficoltà a potersi districare tra posizioni più o meno affidabili (ma mai sicure e ben definite), rese ancor più complicate dal correntismo (nel miglior dei casi, semplice dualitalismo), che caratterizza la storia ecclesiastica, e non solo, dei secoli dal XIII al XVII ed oltre.
Con le “Lezioni di storia celestiniana” l’autore, dopo averne analizzate le diverse ‘questioni’ storiografiche, si propone – e riesce a farlo – di ‘sezionare’ il personaggio e, cassatene le etichette appiccicategli addosso (e quella del gran rifiuto è emblematica), a reinterpretarlo, raccordando le diverse situazioni, micro e macro, nelle quali egli, con il suo specifico culturale, venne a trovarsi.
Ne emerge il rilievo, nuovo ed innovativo, sia dell’uomo che del personaggio rigorosamente autentico. E, dopo la rilettura delle diverse problematiche, spesso ‘oscure’ e nascoste, che ne contribuivano a perpetuare i frutti dei pregiudizi, ne viene, nell’ultimo capitolo, ricostruita una vita credibile e ‘vera’.
LinguaItaliano
Data di uscita24 mar 2014
ISBN9788896771983
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    Anteprima del libro

    Lezioni di storia celestiniana - Francesco Bozza

    ricordo

    CAPITOLO 1°:

    LE TRADIZIONI E LA CULTURA AUTOCTONA NELLA PERSONALITA’ DI PIETRO DE MARONE

    CAP. 1: – Le tradizioni e la cultura autoctona nella personalità di Pietro de Marone

    1.1 - Le geografie molisane al tempo di Pietro

    Il matrimonio (27 gennaio 1186) di Costanza, ultima erede della casata normanna degli Altavilla, con il di lei più giovane, di circa undici anni, Enrico, figlio dell’imperatore tedesco, della casa sveva degli Hohenstaufen, Federico Barbarossa (morto nel 1190 durante la crociata) e, più di esso, la morte (1189) del re Guglielmo II il Buono (nipote di Costanza) stanno per favorire quella "unio regni ad imperium"1, che dapprima viene contrastata dal tentativo (1189-1194), riconosciuto dal papa, del principe Tancredi (figlio illegittimo e naturale di Ruggero, duca di Puglia, e di Emma dei conti di Lecce) e, poi, dalla politica tesa a mantenere sempre affermata la sovranità feudale2 sul regno meridionale da parte di papa Celestino III (1191-1198), assai fedele al permanente obbiettivo della separazione del Regno di Sicilia dall’Impero3. E, mentre da quel matrimonio, il 26 dicembre 1194, nasceva a Jesi, nella marca di Ancona, quel Federico Ruggero, il puer Apuliae, che, conosciuto col nome di Federico II, condizionerà non poco le evoluzioni politiche, e, con esse, personaggi ed eventi, della prima metà del XIII secolo, la relativamente nuova situazione delle cose, in cui la parte sannitica dell’attuale Molise, essendo divenuto, in quanto nella posizione di confine e di fronte, il punto focale nello scontro tra il conservatorismo tradizionalista del potere religioso (con, a questo intimamente legato, il guelfismo) e le istanze innovatrici della laicalità antagonista (con, ad esse riconducibili, il ghibellinismo ed i movimenti riferibili all’eresia), se ne viene quasi a trovare al centro, caratterizzerà fortemente i rapporti e le relazioni del regnum meridionale con il resto del mondo.

    La morte, appena qualche anno prima della fine del secolo ed in rapida successione, degli attori principali di tale trasformazione (l’ancor giovanissimo Enrico VI, imperatore del Sacro Romano Impero, viene a mancare il 28 settembre 1197; papa Celestino III muore l’8 gennaio 1198 e la regina Costanza li segue il 27 novembre 1198, appena dopo aver affidato con mossa abile ed accorta il figlio, partorito solo in età avanzata e che ha, al momento, poco meno di quattro anni, sotto la tutela del nuovo pontefice Innocenzo III e, per quanto riguarda l’amministrazione diretta delle cose del regno, di Gualtieri di Pagliara4) lascia delineato e ben definito lo scenario dei condizionamenti e delle influenze, all’interno del quale si potranno muovere i personaggi che attraverseranno il secolo che va ad iniziare.

    Nel Regnum il passaggio, favorito non poco dalla mancanza di ogni autorità costituita e, come tale, riconosciuta, delle strutture organizzative ed istituzionali dalla nobiltà feudale franco-normanna, portata, meno di due secoli prima, ai vertici del potere dalle inefficienze e dalle effeminate debolezze della autoctona classe dirigente greco-longobarda5, alla voracità opportunista di esponenti, già un po’ borghesi e molto pragmatici, della rampante cavalleria tedesca, assai laica e poco incline alla religione, porta ad una situazione confusa e poco governabile; tanto che l’imperatore Federico II faticherà non poco a tenerli a freno.

    E, mentre i baroni, senza speranza di ordine alcuno, si schierano con la parte che promette loro la continuazione di un proficuo disordine, si ha che … le contee si moltiplicavano e i nuovi titolari si staccavano completamente da ogni potere centrale, tanto più che né il consiglio di reggenza né il giovane re, potevano frenare la privatizzazione delle istituzioni pubbliche e l’impossessarsi dei redditi ordinari da parte dei signori della guerra che si spartivano il territorio. Prima del 1208, il potere regio non esisteva più in Sicilia6, intesa come il Regnum dove le condizioni della lotta e di contrapposizione politica (guelfismo e ghibellinismo) e non solo (religioso e laico, clericus e monachus), connotate da disordini radicali, vanno, negli ambiti locali, ad estremizzare le già forti esasperazioni campanilistiche originate e collegate, già da lungo tempo, alle fenomenologie contestatrici, che sempre di più vanno a sfociare nelle eresie, di predicatori che, più o meno improvvisati, escono fuori dalla Chiesa, messa in discussione, per costruirsi e costituirsi, anche in senso fisico, delle chiese proprie (si pensi solo alla prima fraternitas, completamente laicale, di Francesco d’Assisi [1182-1226], chiamato, non del tutto casualmente, dal Cristo crocifisso a riparare la chiesetta di S. Damiano che sta per crollare).

    Relativamente alle cose più propriamente molisane, una siffatta complessa situazione di evoluzioni-rivoluzioni assai mutevoli porta, favorito dallo stato di anarchia in cui gli opposti estremismi, vissuti con passione, fanno precipitare il Regnum, ad un vortice di rimescolamenti e di cambiamenti improvvisi, la cui conseguenza più evidente verrà ad essere il riassorbimento, con la scomparsa, del Comitatus Loritelli (formatosi, a suo tempo ed in origine, sul nucleo del preesistente Contado di Pantasia) e, seppur non nel nome, il superamento, ma con lunga agonia, del Comitatus Molisij.

    È, molto probabilmente e se non già da prima (vale a dire, con le nuove ripartizioni e le riorganizzazioni amministrative operate dai normanni), con la riunificazione7 delle due distinte unità amministrativo-feudali, appartenute in precedenza a rami diversi della casata normanna dei de molisij, sorte e, nella logica della continuità, formatesi sulle persistenze dei gastaldati longobardi ‘bovianensis’ e ‘biffernensis’, che il territorio dell’ambito del medio Biferno, il cui abitato di riferimento rimane sempre Limosano, viene fatto rientrare8 nello Justitiariatus Terre Laboris, al quale, nel nome, viene ora affiancato anche quello del Comitatus Molisij ed il cui titolare arriva9 – e continuerà, almeno sino alla fine del XV secolo, ancora ad arrivare10 – proprio a Limosano per esercitarvi giustizia e giurisdizione.

    A riprova della estrema volatilità, e quasi contraddittorietà, delle situazioni (con le conseguenti assai poche decifrabilità e ricostruibilità del continuum storico), sulle quali, come anche per le scelte di vita delle persone e dei personaggi, non potevano non esercitare influenze le facili scomuniche (e scioglimento dall’obbedienza) dell’imperatore11, va solo detto che, ad un’area medio bifernina dominata dalla ghibellina Limosano, la quale, come indicava una iscrizione nel castello di Lucera, era "nobis fedelissima, corrisponde il significativo fatto che, dopo la ribellione dell’anno precedente, solo nel marzo del 1230 quedam Apulie civitates, scilicet Civitate, Alarinum, Sanctus Severus, Casale Novum et Fogia venerunt ad mandatum Imperatoris, que sibi antea rebelles extiterant et redeunt ad mercedem suam12 tanto che, già nel successivo mese di maggio, imperatoris iussu fossata et muri Fogie Casalis novi et Sancti Severi replentur et sternuntur ad solum"13.

    Un ulteriore fattore di condizionamento dovette sicuramente risultare il grado – cui ognuno può reagire in maniera unica ed assai personale – della ribellione, della paura di entrarne a farvi parte (o considerati tale) e della assuefazione all’eresia14, fenomeno di non certo limitata durata nel tempo e, specie in epoca medioevale, più dell’altro non ininfluente. E, del quale, specie per quanto attiene alle vicende molisane, rimane da indagarne forme ed ampiezza, in quanto risulta ancora assai poco, se non per nulla, considerato.

    Circa la strutturazione delle istituzioni religiose sul territorio dell’area medio bifernina, Limosano, durante la prima metà del XIII secolo15, è documentata essere ancora diocesi, dipendente, come suffraganea, dalla sede metropolitana di Benevento, alla quale, sempre come suffraganea, era soggetta anche Bojano (con tutte le altre sedi rientranti nel territorio dell’attuale provincia di Campobasso). Ed è possibile riferire la perdita di tale istituzione al probabile atteggiamento filo-svevo dei suoi esponenti durante il decennio, gli anni sessanta, che vide il passaggio del Regnum, voluto, concordato ed organizzato dal papato romano, dagli eredi-successori di Federico II alle mani francesi degli angioini. A differenza di quelle menzionate, la sede diocesana di Isernia era, storicamente e sin dalla sua relativa istituzione (966), dipendente dalla chiesa metropolitana di Capua, il cui insediamento era quello più preminente dello Justitiariatus Terre Laboris; ed il suo Justitiarius, come sopra si è visto, aveva un certo tipo di giurisdizione civile, e vi arrivava per esercitarlo, anche su Limosano, come residuale persistenza derivata, quasi certamente, da tradizione e diritti normanni16.

    Nel territorio della diocesi di Limosano, la cui estensione comprendeva l’intera area del corso mediano del Biferno17 (che, nella continuità storica, coincideva all’incirca con quello che aveva fatto riferimento all’antico municipium romano di Fagifulae, almeno sino a quando esso era esistito 18), oltre a strutture di organizzazioni monastiche, tutte situate alla sinistra del fiume Biferno, soggette e che ancora dipendevano da una delle grandi storiche abbazie, come il cenobio di S. Illuminata di Limosano da Montecassino, il monastero di S. Maria "in castanieto prope pimianum" (nel sito dell’attuale Annunziata di Casalciprano) da S. Vincenzo al Volturno e quello di S. Angelo in Altissimis (posto tra S. Angelo Limosano, Civitacampomarano e Lucito) da S. Sofia di Benevento, di formazione assai antica e le ultime due fondate, o rifondate, sin da qualche anno prima del monastero del Volturno19, posizionavano, e queste, a differenza di quelle sopra menzionate, alla destra del corso del fiume Biferno e, soprattutto, mai dipendenti da nessuna delle grandi abbazie storiche, ben tre – le prime tre dell’elenco riportato nel Synodicon20 – delle dodici abbazie insigni della arcidiocesi di Benevento: S. Maria de Strata (agro di Matrice), S. Maria de Faifolis (agro di Montagano) e S. Maria de Heremitorio (agro di Campolieto)21.

    Perché di queste dodici strutture abbaziali, che – ed, a parte la circostanza, singolare e, perciò stesso, da non trascurare affatto, per cui gran parte di esse (ben nove su dodici) risultano essere dedicate alla Vergine Maria, una condizione di particolarità e di unicità la si può individuare nel fatto che risultano essere sempre state indipendenti ed autonome – pure la chiesa beneventana considerava insigni "inter caetera S. Metropolitanae Ecclesiae nostrae decora"22 (e la ecclesia abbatialis di S. Maria di Faifoli, che sul territorio si presentava una cum eremitorio contigua [e non con un cenobio o un monastero], era – e come tale fu percepita – la "insignior inter insignes XII huius Beneventanae Archidioecesis abbatias quarum abbates mitrae et crossiae fruuntur"23), le notizie, nonostante esse fossero tra i ‘decora’, come si diceva già sopra, dell’arcidiocesi beneventana, sono assai scarse e la documentazione, per tutte e dodici, rimane pressoché inesistente? E tutto ciò in coincidenza con la circostanza, a questo punto assai significativa, per cui delle strutture monastiche che facevano riferimento, quanto meno come espressioni patrimoniali, alle grandi abbazie di Montecassino, di S. Vincenzo al Volturno o di S. Sofia di Benevento le fonti documentarie si fanno, di massima ed almeno relativamente, più numerose ed abbondanti.

    Tanto la presenza, tra le testimoniate24 residualità riferibili alla condizione dell’essere stata sede di un vescovato, nella chiesa, già cattedrale, di S. Maria di Limosano (nella cui forania, anche dopo la soppressione della diocesi, è stata sempre ricompresa la struttura di Faifoli25) del bacolo (f. 184: baculum), strumento liturgico di derivazione greco-orientale usato sia dai vescovi e sia dagli abati, quanto la documentata26 contemporanea presenza, nel corso dello scisma anacletiano (1130-1138), di almeno27 due vescovi (dei quali uno, Ugo, è espressione della parte ufficiale e ‘latino-occidentale’, favorevole a papa Innocenzo ed al suo processo, iniziato sin da dopo lo scisma del 1054, di imposizione della romanizzazione, e l’altro, Gregorio28, che parteggia per l’anti-papa Anacleto, è il portatore-difensore delle istanze, che, ancora fortemente presenti sul territorio longobardo-meridionale, affondavano le loro profonde radici nelle tradizioni e nei valori, religiosi e culturali, autoctoni) sono, entrambe, elementi tali che, oltre alle forti resistenze, starebbero a dimostrare l’esistenza, ancora vitale e marcata, sul territorio proprio di quelle persistenze, sulle quali andavano ad innestarsi ben anche i contrasti e lo scontro, più che il confronto, politico della lotta, spesso cruenta, tra la parte guelfa e quella ghibellina.

    Certo è che una volta venuta meno Limosano in forme che andrebbero definite (ma essa – va tenuto presente – è ancora ben documentata nell’ultimo periodo federiciano), e solo allora, un elemento-fattore di cambiamenti destabilizzante e, per le situazioni geografiche pre-sveve, rivoluzionario, contemporaneo, e perciò ad essa riferibile, proprio della angioinizzazione, risulta essere "l’emergere di Campobasso è, ancora nella seconda metà del Duecento, appunto in progress giacché, tra le cedole della generale sovvenzione precisamente dell’anno 1277, sono ancora una volta Isernia, Boiano e Venafro in ordine decrescente rispettivamente con 39, 34 e 25 mutuatores regi, a confermarsi come i capisaldi della zona, assai depressa, comunque, nel suo complesso, dal momento che nessuna delle sue diocesi, allo schiudersi del Trecento, è in grado di assestarsi sulla media di 70 oncie di apprezzo per la rispettiva mensa vescovile, …"29.

    Delle particolarità specifiche di una tale cultura tradizionale, e tradizionalista, le cui espressioni più evidenti rimanevano vive e praticate proprio in quelle strutture cenobitiche, i cui abati, molto significativamente, graecanico ritu utebantur, si dirà nella parte in cui ci si andrà ad occupare delle frequentazioni di S. Maria di Faifoli da parte di Pietro. Qui, però, non può farsi a meno di aggiungere, siccome concerne l’aspetto geografico-insediativo, che parallelo al monachesimo cenobitico, come si ipotizzava in altro lavoro30 più specifico, sul territorio aveva notevole diffusione – e, per tanti aspetti, quantitativamente maggiore di esso – anche il fenomeno eremitico, per sua stessa natura molto sfuggente e, per tale ragione, assai poco rilevabile ed, ancor meno, quantificabile, pur se, nella sua naturale evoluzione, "il vocabolo eremita assume significati diversi nei secoli X-XIII, in quanto può riferirsi ad un personaggio solitario accompagnato o no da qualche compagno"31. E che appartenesse ad una mentalità diffusa ben lo dimostra, oltre alla considerevole attrazione ed al richiamo esercitati dalle specificità culturali della parte centro-meridionale dell’Italia (si pensi alla esperienza del tedesco Brunone di Colonia ed a quella di Guglielmo da Vercelli), l’interesse dello stesso Francesco d’Assisi, che detta la sua Regula pro eremitoriis data con il messaggio da destinare proprio alle espressioni delle aspirazioni eremitiche, che, rispetto alle forme originarie, si mostrano già parecchio evolute nella direzione di un vero e proprio semi-cenobitismo32.

    Allo spontaneismo ed all’indipendentismo solipsista (che non di rado, ed anzi assai di frequente, rappresentavano l’espressione di individui con estrazione da classi socialmente, e culturalmente se è vero, come è vero, che diversi fondatori frequentano le università più prestigiose, medio-alte), attinti a piene mani alle radici della tradizione locale, presente ed ancora forte (nonostante la radicalità della ‘romanizzazione’), ed esemplati sugli influenti, e, per diversi aspetti, accattivanti (in quanto rappresentanti la forma della liberazione), modi di essere dell’anacoretismo greco-orientale (e non benedettino)33, corrispondono, all’interno di quei cenobi che dispongono di studia e di biblioteche più o meno ricche, le ricerche e le teorizzazioni di organizzazioni sociali ed, ancor più, religiose nuove e rivoluzionarie basate sulla postulata preminenza, nella preconizzata come imminente Ecclesia spiritualis (del Santo Spirito), del mondo monastico su quello clericale, corrotto e vizioso, della Ecclesia carnalis romana, tanto messa in discussione che lo stesso Francesco d’Assisi, nel suo Testamentum (del quale il rispetto e l’integrale osservanza saranno le sole pretese di quella corrente spiritualista, cui Pietro de Marone non risulterà affatto estraneo tanto da renderla ‘ufficiale’) dettato non appena ha coscienza che l’Ordo, diventato, proprio in quanto tale, strumento della ‘chiesizzazione’ (che ne precederà la sua clericalizzazione) ed istituzione della – e nella – Chiesa, viene rinunciando allo spirito-sogno, semplice ed autentico, della originaria e primitiva fraternitas e dopo essersi messo in disparte34, giunge ad imporre che: "Praecipio firmiter per obedientiam fratribus universis quod ubicumque sunt non audeant petere aliquam litteram in curia Romana per se neque per interpositam personam, neque pro ecclesia neque pro alio loco neque sub specie praedicationis neque pro persecutione suorum corporum". Quelle teorizzazioni (come le idee trinitaristiche dell’abate Gioacchino da Fiore [+ 1202], dapprima, e lui vivente, approvate da papa Celestino III e condannate poi come eretiche dal Concilio del 121535), proprio come queste novazioni, considerate assai spesso al confine-limite, quando non proprio marchiate come tali, dell’eresia e, per questa ragione, combattute anche mediante il ricorso alla crociata, sono utilizzate come strumenti di annientamento esiziale del ghibellinismo filo imperiale e più in linea con il progredire del tempo da parte del guelfismo papista, tradizionalista e conservatore, della Chiesa di Roma preoccupata quasi esclusivamente di mantenere il privilegio del potere e dell’avere di pochi preferito a quello dell’essere di, e per, tutti. Tanto le idee gioachimite, che rappresentano la promozione delle attese del cambiamento nella società in fermento, quanto il pauperismo spiritualista, con il riscatto sociale ad esso annesso dai contemporanei, andranno ad improntare ed a caratterizzare il nuovo rappresentato dal personaggio di Pietro.

    Il papato della Ecclesia carnalis, che si attribuiva la potestà-possibilità di organizzare crociate contro il dissenso bollato, a seconda delle convenienze, di eresia; che negli eccessi delle interessate autodifese usava – poteva arrogarsi il diritto di usare – lo strumento, specifico del suo essere istituzione custode del divino, della scomunica del rappresentante il potere terreno-imperiale, accreditandolo come antagonista-contendente e privandolo della legittimazione, per liberare, con finalità contingenti, i sudditi del dovere dell’obbedienza-rispetto dell’autorità politica (in spregio dell’evangelico "date a Dio quel che è di Dio ed a Cesare quel che è di Cesare"); che, pretendendo di riformare la Chiesa senza riformarsi, ritiene di poter condizionare, ancora ed a scopi esclusivamente personali e di famiglie più o meno emergenti delle quali l’appannaggio del cardinalato era funzionale al prestigio ed all’arricchimento, il sovvertimento degli equilibri internazionali; questo papato, passionale e carnale esso stesso, nella cui curia i personalismi, senza esclusione di colpi, dei cardinali italiani favoriranno sia l’affermarsi della corrente francese, coesa e nazionalista, e sia, con esso, tutti i cambiamenti riferibili alla conquista (1266: morte di Manfredi a Benevento; 1268: sconfitta e morte di Corradino) del regnum meridionale da parte degli angioini ed alla conseguente angioinizzazione36 rappresentata da una maggiore visibilità vendicativa della partigianeria guelfa, dalla sostituzione del ceto dirigente e dal favoritismo e dai privilegi per la nuova classe feudale, nobiliare ed avventuriera, di provenienza franco-provenzale o dal rampantismo finanziario-borghese romano (che ne sponsorizza la discesa), da una nuova organizzazione dello stato (ed anche la capitale viene spostata da Palermo a Napoli). Non è, al riguardo, proprio del tutto casuale che, a differenza di quanto accaduto in epoca sveva, nel corso della quale egli, di cui ora si hanno solo pochi e confusi elementi al fine di una accettabile ricostruzione della prima metà della vita, sembra fuggire (da Faifoli, quando è "iuventute progrediente"), scappare (a Roma, per diventare sacerdote) e quasi nascondersi (negli Abruzzi, mentre avrebbe ben potuto preferire, come faranno i fraticelli del Clareno – ancora "pauperes heremite domini Coelestini" di Fra Liberato? –, le non lontane asperità della montagna molisana di Frosolone), si ha che il personaggio di Pietro de Marone prende la visibilità, la sicurezza e la consistenza dimensionale proprio dai cambiamenti legati alla chiamata degli angioini, alla loro discesa ed all’affermarsi del loro potere.

    Con la francesizzazione (conseguenza della quale sarà anche il suo venir trasferito ad Avignone, oltre che una certa sua subordinazione all’autorità della casa regnante), il papato, paradossalmente, entra in una crisi di identità. Tanto da essere spesso considerato solo uno strumento di politica – e per la politica – da usare per interessi contingenti e di parte. Sarà contro questo papato della Ecclesia carnalis che si coaguleranno le attese rivoluzionarie per un papa angelico da parte dello spiritualismo pauperista alimentatosi con le idee profetiche dell’abate calabrese Gioacchino.

    Da non sottovalutare e neppure, così come pure è stato fatto37, da caricare, sino alla forzatura dei contorni e dell’immagine, di significati eccessivi e distorsivi della verità, un ulteriore elemento di condizionamento, tanto religioso quanto, e forse ancor di più, sociale ed economico, è costituito dalla presenza diffusa sul territorio dei possedimenti fondiari e del potere degli ordini monastico-cavallereschi e, più nello specifico, dei Templari e degli Ospitalieri38. Di questa, discreta e non molto appariscente39, formatasi nel lungo periodo, ne sfuggono le influenze – o, meglio, spesso dalla storiografia se ne tralasciano le analisi e le letture – sulle psicologie e sulle geografie del periodo; e, maggiormente, quelle, a parte qualche punto di contatto, ma appena sfiorato, relative alla figura di Pietro.

    Pianta topografica del territorio dell’ex Commenda di Malta .sita in agro di S. Angelo Limosano

    All’interno, o, se si vuole, all’esterno, di tutte quelle geografie, ricostruibili più o meno facilmente (ma con fedeltà e precisione di certo assai più relative), esercitavano influenze e condizionamenti le geografie delle appartenenze alle strutture organizzative e, se non delle vere e proprie classi, corporative della società ed, ancor più, gli elementi della coercizione psicologica esercitati dalle sovrastrutture e dai pregiudizi fideistici ed ideologici.

    Circa la strutturazione della società, della sua composizione e dei rapporti di essa con il mondo circostante, è possibile, per Limosano (dal cui ambito il "castrum S.cti Angeli" era intimamente dipendente), ricavarne (come è stato fatto altrove40) e tracciarne un disegno sufficientemente preciso. Molto più difficile e complicato, invece, risultano le analisi e la lettura di elementi di condizionamento delle psicologie umane esercitati dalle sovrastrutture fideistiche ed ideologiche.

    Come veniva ‘applicata’ la romanizzazione e quale resistenza (o, che è la stessa cosa, quale accettazione)41 essa incontrava nell’animo delle persone, singole o associate? Quale poteva essere, per una società (con particolare riferimento a quelle locali e più piccole) che, con lo scontro tra potere papale e quello imperiale, sta favorendo la crisi dell’autorità e la messa in discussione del rispettarla, la credibilità ed il carisma di chi ricorre ad usare – e ad abusarne – l’arma della minaccia degli strumenti religiosi (specialmente quelli punitivi)? Il poter disporre di una tradizione (modi di pensare, di vivere i riti e le liturgie, di rapportarsi agli altri, …) di lunghissima durata come poteva condizionare l’affermarsi sul territorio e la trasformazione, con la relativa accettazione (e si pensi ai codici delle liturgie beneventane che in questo periodo vengono trascritti ed aggiornati), della romanizzazione? Quanta e quale – e ciò ne mette in evidenza la reale consistenza interiore – poteva essere, ed era, la forza di una siffatta tradizione che affondava le radici nella specifica longobardicità della Longobardia minor, che, con i vicendevoli scambi, una volta venutane a contatto (dapprima di scontro e, successivamente, di accettazione e collaborazione42), con la vivacità della cultura islamica (ed interessante potrebbe essere lo stabilire, ad esempio, le influenze sullo gioachimismo delle teorie di Averroè, riprese, confluite e condivise, poi, nelle riflessioni di Tommaso d’Aquino, che situa sul confine tra i territori dell’ex-principato beneventano e quelli del papato romano, e della scolastica), può prendere una direzione, seppur ancora non adeguatamente studiata, ben ipotizzabile e definibile? E, se, ben mezzo secolo dopo la morte di Pietro de Marone, alla data del 17 novembre 1346 lo stesso papa Clemente VI, manda qui (= nella sede della chiesa metropolitana di Benevento) Arcivescovo il Patriarca di Costantinopoli, Stefano al quale il papa restringe la facoltà di provvedere di Vescovi quelle sedi che dipendevano dal reame di Napoli43, i tempi, per il superamento totale, sino alla definitiva ininfluenza, di quella tradizione, quali furono? Perché, se è vero che come il probabile mezzo di conservazione per la conoscenza della liturgia e del canto beneventano arcaico sarebbe utile l’identificazione di antifonari dell’osservanza celestina44, e cosa può stare a rappresentare la decisione di volerla annullare totalmente e sino alla sua più radicale cancellazione? Perché, come e dove era potuto accadere che essa, la tradizione culturale di ispirazione e di matrice ‘beneventana’, abbia avuto la possibilità di essere fatta propria dalla ‘osservanza celestina’ (e non da altre)? In cosa ne consistevano la diversità e l’autentica specificità che riuscivano a darle connotazione e caratterizzazione (e che era evidentemente tale da poter essere ritenuta anche pericolosa) e quanto difficile da sradicare e da estirpare fu tale cultura per cancellarla? E di essa poté, o meno, essere aspetto significativo e caratteristico, quasi prerogativa di identificazione, la motivazione di quella assai diffusa reviviscenza dello stile di vita eremitico, che nel Meridione bizantino d’Italia non era mai scomparso45? E, se tale stile di vita eremitico era così storicizzato nel Mezzogiorno (con ivi ricompreso anche l’intero territorio della Longobardia minor) e ne rappresentava quasi una prerogativa che lo differenziava dalle altre zone italiane, non sta a significare che esso era espressione, oltre che di un modo di pensare tutto suo, di un tipo – e di una idea46 (intesa, nel suo significato il più ampio possibile, come espressione di una cultura) – di un monachesimo che, per la sua emanazione e derivazione diretta dal mondo bizantino ed, ancor meglio, greco-orientale, aveva – e la tradizione faceva proprio che non potesse che avere – assai poco di quello occidentale e benedettino?

    A tutte queste domande – ma, come è facile immaginare, se ne potrebbero proporre tante altre – ognuno, purché non si lasci influenzare dai condizionamenti degli stereotipi e dei pregiudizi radicati nella storiografia più o meno di parte (e la storia altomedievale è stata scritta quasi in toto da monachi benedettini), potrà dare, e darà, le risposte che meglio crede. Tra essi, poi, non meno fuorvianti sono – e bisognerebbe che sempre se ne tenesse doveroso conto – gli interessi sottesi alle costruzioni, da parte dell’agiografia (che è cosa assai diversa dalla storiografia), di personaggi-immagini-santi finalizzati solo ad una più o meno probabile esemplarizzazione. Ed, al riguardo, ci sarebbe anche da chiedersi sulla evoluzione del concetto di santità47; o, nello specifico, cosa abbia rappresentato e quali condizionamenti esso, relativamente al XIII secolo, abbia potuto esercitare sulla psicologia degli uomini di quel periodo. Ma non rientrano, tali domande, nell’economia del presente lavoro, che si propone solo di leggere e di riflettere sulla figura di Pietro de Marone.

    Vi rientra, invece ed in quanto non poté non connotarne e segnarne la personalità, la mentalità e le psicologie dell’uomo Pietro de Marone, uno sguardo, seppur necessariamente sommario, sulla storicizzazione e su qualche aspetto della tradizione e della cultura, specie religiosa, autoctone48.

    Le grec a été la langue le plus communément employée dans le bassin méditerranéen pendant les trois premiers siècles de l’Église. A Rome même, la langue ecclésiastique, y compris celle utilisée dans les réunions liturgiques, fut d’abord le grec49. Cambiamenti, da proiettarsi sempre nel lungo periodo e da rapportarsi alla non facile e lenta penetrazione, pur’essa di lungo periodo, del Cristianesimo tra le popolazioni, possono farsi iniziare solo nel secolo VI, anche se la dipendenza della chiesa romana da quella oriental-imperiale, documentata, del resto, dal significativo fatto che, dalla morte di Gregorio Magno (604) e sino al termine della prima metà dell’VIII secolo, sulla cattedra vescovile di Roma si sussegue una lunga serie di papi di origine greca e, comunque, di lingua greca, sta proprio a dimostrare che essi, i cambiamenti, dovevano proprio essere di assai scarsa rilevanza e consistenza50. E resistenze ancora maggiori dovettero incontrare nell’area longobarda del ducato di Benevento, per la quale vale piuttosto l’affermazione del cronista bizantino Menandro Protettore che, in quel tempo, la più parte dei duchi longobardi obbediva all’imperatore di Bisanzio, avendone accettato i doni51.

    In questo contesto socio-religioso, percorso – e siamo appena dopo la morte di papa Martino e, pertanto, nel bel mezzo di quel lungo periodo, durante il quale il monastero di Monte Cassino, distrutto dai Longobardi (fine secolo VI) da circa un sessantennio, non esiste, come sede di struttura monastica e tantomeno come punto di irradiazione culturale, e non è frequentato se non da pochi eremiti sino a quando (717) vi arriverà Petronace per restaurarvi la cultura benedettina – da quelle schiere di missionari greci che, dalla colonia di Roma, passava nel regno, con a capo Damiano, futuro vescovo di Pavia52, e nella Longobardia meridionale, che, ancora non convertita al cattolicesimo, è, almeno nella sua classe dirigente, di fede ariana53, anche il monachesimo, che è prevalentemente eremitico ed anacoretico, presenta – e non potrebbe proprio essere altrimenti – forti legami con le matrici orientali. Non solo; ma questo monachesimo meridionale ed autoctono, che è assai diverso, in quanto più individualistico, da quello, per così dire, centro-settentrionale, andrà a rafforzarsi nelle sue idealità culturali e tradizionali, oltre che numericamente, con gli afflussi, durante i periodi dell’iconoclasmo, di monaci iconoduli in fuga dall’oriente.

    Va tenuto, del resto, nella più dovuta considerazione il fatto che "il monachesimo benedettino non emana dalla personalità eccezionale di un creatore, né costituisce (…) la risposta originale a mutamenti profondi della Chiesa e della società. Esso è da un canto il risultato di due secoli di esperienze cenobitiche, che Benedetto ha raccolto, legiferando modestamente e senza pretese di originalità; dall’altro canto è, ai suoi inizi, e resta a lungo, un episodio locale e limitato. La diffusione della RB (nota: Regula Benedicti) è lenta e … è solo nell’VIII secolo che la Regola viene recuperata e attualizzata in centri monastici … Essa viene accolta dapprima, com’è nell’uso cenobitico del tempo, accanto alle altre regole; successivamente, in età carolingia, si afferma sulle altre, come regola unica ed esclusiva, e diventa un mezzo per riportare ordine nell’anarchia imperante e ristabilire l’allentata osservanza del costume monastico. E’ soltanto allora, con Carlo Magno, Ludovico il Pio e con Benedetto di Aniane, che la RB si avvia a diventare strumento di unificazione e di riforma"54. Ed è più che evidente come, prima dell’età carolingia, il movimento benedettino fosse molto limitato e con influenze assai poco significative, ma erano altre le culture, con rispettive regole monastiche, a trovare diffusione, specialmente nel meridione italiano55.

    Anche se va tenuto sempre presente che il territorio, di per sé già molto conservatore, del principato beneventano sembra essere caratterizzato da considerevoli resistenze e da veri e seri ostacoli, principalmente dovuti sia alle continue – ma pure discontinue – influenze orientali56 e sia ad un geloso isolamento preservativo delle proprie specificità che lo ha sempre caratterizzato, trasformazioni ed evoluzioni, comunque mediate dal monastero cassinese57 e dalla sua posizione di vicinanza geografica, ma anche politica, è possibile registrarle con e successivamente a Carlo Magno e, per quanto riguarda il monachesimo benedettino e, solo da adesso, il suo espansionismo e le sue influenze, all’opera di riforma da parte di Benedetto di Aniane. A conversione dei longobardi avvenuta, la titolarità delle chiese sul territorio si tenne da quei preti ‘greci’ che, importante perché di fonte bizantina, l’igumeno di Studion (nelle immediate vicinanze di Costantinopoli), che, perseguitato, arriverà in Italia, "Teodoro Studita (nota: 759-826) ricorda i preti greci ordinati a Roma, a Napoli e in Longobardia58. Situazione che dovette rimanere assai stabile ancora per un periodo di tempo assai lungo, se è vero che trova la sua perfetta conferma nello stato di cose descritto dallo stesso papa Leone IX (1048-1054), il quale, appena qualche mese prima dello scisma (che avviene mentre lui è a Benevento), poteva registrare che cum intra et extra Romam plurima Graecorum reperiantur monasteria sive ecclesiae, nullum eorum adhuc perturbatur vel prohibetur a paterna traditione, sive sua consuetudine"59. E questi di tradizione e di consuetudine sono entrambi concetti che lasciano ipotizzare, più che una situazione di durata breve ed occasionale, una condizione di lunga persistenza nel tempo.

    Che, questa, è comprovata dall’esistenza, a Benevento, di festività liturgiche di origini orientali, oltre che antichissime, con culti, specialmente mariani, propri, sconosciute però a Roma60. Non solo; ma, sempre per l’area meridionale, con in essa ricompresa anche quella longobarda del ducato (e, dal 774, principato) di Benevento, sono documentate istituzioni particolari religiose, come l’esistenza della diaconesse (e diaconesse potevano essere anche le superiori dei monasteri femminili delle moniales), per la somministrazione del battesimo per immersione, e come usi liturgici e costumi rituali propri, documentate ancora nel secolo X, e non diffuse nell’area direttamente soggetta alle influenze romane61.

    Un episodio, di rilevanza assoluta (in quanto, tra l’altro, suggerisce di dover guardare anche alla complessità della rete delle relazioni e dei rapporti tra quello ‘occidentale’ ed il monachesimo ‘orientale’ e, più ancora, perché avviene in data significativa e precedente lo scisma), è quello che riferisce dell’Abate di S. Vincenzo al Volturno, Giovanni, che nel 998 "… donò a D. Giacomo Monaco, e Abbate de genere Graecorum la foresta di Ferosili, per fondarvi un Monistero (poi detto S. Pietro di Foresta) ma con legge, che ipsum Monasterium de vestris Graecis Monachis sit amodo, et usque in sempiternum; quicumque exinde hanc regulam, quod dicitur, Atticam, in Latinam convertere voluerit, maledictus, et excommunicatus fiat"62. Ed è significativo questo associamento del genere Graecorum alla foresta, che tanto caratterizzerà ed affascinerà anche il personaggio di Pietro de Marone63.

    A costituire il momento della svolta e, con la proibizione di papa Stefano64 dell’uso del canto ‘ambrosiano’ (che è da intendersi non romano), l’inizio di quel complesso processo di romanizzazione-latinizzazione, che, a motivo delle forti resistenze (e sarebbero tutte da indagare quelle incontrate nelle varie realtà locali), impiegherà secoli per affermarsi e solo nel XVI secolo si potrà avere l’atto definitivo, sarà proprio la rottura, ancora non sanata, dello scisma (1054).

    Circa i passaggi intermedi, un momento di ripresa della religiosità (con riti e liturgie) e della cultura greca può essere collegato con le contrapposizioni, le lotte ed i contrasti per lo scisma (1130-1138) di Anacleto II, che non poco si alimentò proprio da quella tradizione e da quella linfa65. E farebbero pensare alla continuità ed alla persistenza di collegamenti e di rapporti con il mondo greco da parte delle istituzioni religiose dell’area beneventana anche i viaggi che l’arcivescovo di Benevento fa a Bisanzio nel 1161 e nel 116666.

    E che esse si mantennero ancora presenti sul territorio lo dimostra la disposizione di papa Celestino III (1191-1198) che ancora comandava che non si ordinassero più preti greci da vescovi latini. E, dopo le disposizioni (1205) di papa Innocenzo III67 riguardanti la conversione ed il passaggio "de graecis ad Latinos, lo dimostra ben anche la bolla (1254) di papa Innocenzo IV per la definitio quorumdam articulorum circa ritus Graecorum"68.

    Cambiamenti – e questi, pur imposti, furono accettati e condivisi – possono essere individuati negli adattamenti alle mutate condizioni politiche, se è vero che degli exultet di Troia, mentre il primo, quello più antico, riporta nelle sue formule finali una espressione ("memorare, Domine, famulo tuo imperatore nostro illo et eius exercitu universo) di chiara ispirazione greco-imperiale e che ben lascia intendere i riferimenti culturali e religiosi di un lunghissimo periodo, il secondo rotolo, datato intorno alla metà del XII secolo e con evidente riferimento alla incoronazione, a Palermo, di re Ruggero da parte di Anacleto II ed all’avvenuto riconoscimento del potere normanno, riporta su una abrasione la seguente invocazione: memorare, Domine, famulum tuum regem nostrum illum et ejius exercitum universum"69. Tali trasformazioni, ma anche la evidente persistenza delle liturgie più antiche, possono essere desunte dal fatto che, riguardo all’Exultet 2 proveniente da Mirabello Eclano, sappiamo che era usato nel XIII secolo da una nota mnemonica (databile tra il 1254 ed il 1258) presente nella sezione 6 del rotolo, che lascia trasparire come le commemorazioni liturgiche opportunamente aggiornate, testimoniano la nuova situazione politica del territorio rendendo omaggio alla Casa Sveva70.

    E, sempre per quanto riguarda i rotoli di Exultet ma, in questo caso, è possibile riscontrare anche un certo riferimento al mondo monastico, specialmente femminile (oltre che alla circolazione – ed ai rapporti, anche liturgici, tra i monasteri – di tali preziosi documenti) quello dei cambiamenti modernizzatori registrabili per Troia non sono i soli. Difatti, il manoscritto del rotolo di Exultet Vat. lat. 9820, generalmente considerato il più antico esemplare esistente, e "commissionato tra il 981 e il 987 – o poco prima – da un certo Giovanni, presbitero e rettore del monastero femminile di S. Pietro extra muros a Benevento71 per farne dono a quella che era la più importante dipendenza dell’abbazia di S. Vincenzo al Volturno, anch’esso, a poco meno di due secoli dalla stesura, subì un complesso intervento di revisione che ne alterò senza rimedio l’assetto originale. L’antica lectio beneventana fu parzialmente erasa e sostituita dalla versione ‘romana’ del canto. Tale modifica comportò una laboriosa revisione del ciclo iconografico; … Questa travagliata vicenda storica, cui rimonta anche la dispersione di alcune parti della struttura originale, è all’origine delle molte difficoltà che ostacolano l’analisi del rotolo, … ,"72.

    Quanto alla specifica situazione delle realtà locali nel regno meridionale, è certo che, come risulta dalla "approbatio ordinationum in capitulo Romae acto praefinitorum, pro reformatione monachorum Graecorum S. Basilii in provinciis Siciliae, Calabriae et Apuliae"73 (14 dicembre 1446) da parte di papa Eugenio IV, "… plurima monasteria et loca monacorum Graecorum Ordinis sancti Basilii in regno Siciliae citra et ultra Farum sunt, …".

    Così anche la proibizione di Nicola V del 6 settembre del 144874, con la quale "Catholicos Latini ritus ad Graecum transire non posse decernit", lascia pensare che le espressioni culturali e religiose greche sul territorio meridionale non erano per nulla cessate; ed, al contrario, il fatto che si potevano verificare ‘passaggi’ dalla pratica del rito latino a quella del rito greco sta a dimostrare, con assoluta chiarezza ed evidenza, che quest’ultimo trovasse in ampie zone del territorio del Regnum meridionale ancora relativa, ma visibile, diffusione.

    Ed anche i suoi esponenti o, meglio, i suoi rappresentanti religiosi75 non dovevano proprio essere di numero irrilevante se il 3 settembre 1457 papa Callisto III "Presbyteros Graecos inter missarum solemnia Rom. Pontificis nomen elata voce canere, integrumque credo, iuxta Romanae Ecclesiae ritus, dicere obligatos fore decernit76. Ma, nelle intenzioni romane, è possibile intravvedere già la ricerca di una omologazione, di una uniformazione come anche di una intollerante pretesa di adattamento alla cultura ed alle espressioni liturgico-religiose proprie. Condizioni e ragioni che stanno per determinare la definitiva cancellazione delle forme espressive delle liturgie e del rito ‘beneventano’ da parte di papa Paolo II77, dal quale all’Arcivescovo Alessio de’ Cesarei, …, si spedì ordine di non usare mai più il Regnum Pontificale, …; sembrò offesa alla autorità superiore quella mitra triregalis «quae soli Romano Pontifici competit gestare» mentre invece gli arcivescovi di Benevento «hactenus presumunt eam deferre, in evidens Sedis Apostolicae dedecus, vilipendium et contemptum»"78.

    Sarebbe mai possibile – c’è da chiedersi – che questa cultura tradizionale, di cui la necessità della sintesi ha costretto a soli pochi accenni, non abbia manifestato, e come, delle influenze condizionanti, e quali, sulla personalità, sulle psicologie e sulle scelte di Pietro?

    1.2 - La vexata quaestio del luogo di nascita: problema storiografico e non storico

    Si è potuto già notare che al personaggio viene dato, ad esclusione del periodo del suo pontificato, il nome di Pietro de Marone.

    Perché "Pietro de Marone"?

    A parte che, sin da quando si è principiato ad occuparsi di lui e per la ragione che ivi era riportata79, veniva preferito quel nome, è successivamente emerso come già Tolomeo da Lucca, che, peraltro, fu un "oculatus in multis testis (= teste oculare in molti )" e di persona partecipò alla cerimonia di incoronazione del 29 agosto a L’Aquila, nella sua Historia Ecclesiastica, parlando della canonizzazione, poteva scrivere che papa Clemente V "… mandatque ipsum vocari sanctum Petrum confessorem, quia sic vocabatur ante papatum, videlicet Petrum de Marone"80.

    Si aggiunga a tutto quanto sin qui detto il seguente documento (per quanto a nostra conoscenza ancora totalmente inedito) la cui parte attrice è un "Johannes maronis Juvenis filius quondam Johannis maronis patris e che – ed, innanzi al notaio il quale rogavi[t] dictum rogitum in civitate nostra limosane coram subscriptis testibus, tra i presenti che lo sottoscrivono viene chiaramente indicato + Ego Johannes de Marone [qui] hoc testifico" -viene, per esigenza di brevità, riprodotto e riproposto solamente in parte:

    + In anno dominice Incarnationis M° C° nonagesimo quarto mensis Martij Indictione Xiij. Ego Johannes maronis Juvenis filius quondam Johannis maronis patris haec infradicta [???] infra fines civitatis nostre limosane loco ubi dicitur Maccla de Malis quod est … (ARCHIVIO SEGRETO VATICANO, Fondo Avignonese, Collect. t. 61: Benevent. civitatis et ducatus Varia 1132-1312. Ms. ch(artarum). s(eculi). XIV, f. 1r).

    Tale documento, redatto nel mese di marzo del 1194 (e, quindi, appena quindici anni prima della nascita di Pietro) "infra fines civitatis nostre limosane", oltre a documentare, in quel periodo, l’esistenza della diocesi di Limosano (lo aveva sostenuto – vedi sopra – anche il Pratesi, che seguiva l’indicazione del Liber Censuum del 1192), prova sia che nell’area limosanese vi si trova, sin già da allora, ad operare un esponente dei "de marone" e sia che i de marone non possono non appartenere che alla classe sociale di una borghesia medio-alta documentata per la zona limosanese81 o ad essa immediatamente riconducibile e riferibile.

    Ed è, infatti, solo una estrazione sociale siffatta che riesce a comprovare, oltre a diverse altre circostanze della lunga vita di Pietro, l’ipotesi avanzata da Herde, quando interpreta e propone che "interessante è lo scriptor N(icolaus?) de Limos., che dall’inizio di settembre 1294 è attestato come scrittore di documenti pontifici e che aveva questo ufficio ancora al tempo di Bonifacio VIII

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