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Studi in ricordo di Attilio Carosi
Studi in ricordo di Attilio Carosi
Studi in ricordo di Attilio Carosi
E-book820 pagine10 ore

Studi in ricordo di Attilio Carosi

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Per lunghi anni Attilio Carosi è stato il prezioso e puntuale riferimento degli studiosi e dei lettori della Tuscia ed anche di tanti altri ricercatori italiani e stranieri, dapprima come Direttore della Biblioteca Provinciale “Anselmo Anselmi” (1953), indi come Direttore del Consorzio di Gestione delle Biblioteche della Città di Viterbo (dal tempo dell’unione della Biblioteca Provinciale con la storica Biblioteca degli Ardenti, 1973).
A questi impegni istituzionali si aggiunse il suo costante impegno di studioso con la dedica di numerosi libri e articoli alla storia di Viterbo e della Tuscia, la cura degli annali dell’editoria viterbese dal 1400 al 1700 e la preziosa edizione delle epigrafi medievali cittadine.
L’ampiezza e la qualità della produzione scientifica, costantemente caratterizzata dal rigore del metodo e dall’acribia esegetica, hanno fatto individuare in lui uno degli eredi più rappresentativi di quella tradizione storiografica ed erudita viterbese legata ai nomi di Cesare Pinzi, Giuseppe Signorelli, Pietro Egidi.
La sua scomparsa, avvenuta nel 2008, ha creato un forte rammarico nel mondo accademico e culturale viterbese per la perdita di un caro amico e di un valente studioso. Rapidamente si fece strada l’idea di tributare al suo ricordo l’omaggio di un volume di studi rappresentato da questa pubblicazione cui hanno aderito numerosi e qualificati ricercatori.
LinguaItaliano
Data di uscita6 lug 2016
ISBN9788878537200
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    Anteprima del libro

    Studi in ricordo di Attilio Carosi - Alfio Cortonesi

    IX

    RICORDANDO L’AMICO ATTILIO

    ​Bruno Barbini

    Bruno Barbini

    ricordando l’amico ATTILIO

    Il 16 ottobre 2008 segna la data della morte del dott. Attilio Carosi.

    La sua improvvisa ed inattesa scomparsa ha segnato la conc1usione di una fase della vita culturale viterbese, di cui egli ha rappresentato per lunghi anni un vero e proprio punto fermo.

    Infatti, già nei primi anni della sua attività si può riscontrare il suo costante contributo alla nascita, a Viterbo, della Biblioteca Provinciale intitolata ad Anselmo Anselmi di cui fu il primo direttore. Nel frattempo alla Biblioteca era stato affiancato il sistema bibliotecario provinciale e, quindi, dal 1973, nasceva la Biblioteca Consorziale con l’unione della Biblioteca Comunale degli Ardenti. Carosi divenne il Direttore unico fino al suo collocamento a riposo per limiti d’età ma assicurando, ancora e comunque, la sua collaborazione non lesinando consigli a quanti si rivolgevano a lui per avere i suoi illuminati consigli.

    II suo ricordo, pertanto, è vivo e presente in tutti coloro che, da studenti e da studiosi, sono stati e sono tuttora soliti frequentare le biblioteche cittadine, teatro della sua instancabile ed insostituibile attività, culminata nei lunghi anni in cui gli era stata affidata la mansione di direttore dei due organismi culturali unificati, ai quali aveva dato la sua personale impronta. In particolare, gli appassionati di ricerche sul passato di Viterbo e della Tuscia avevano sempre trovato, nella sua personale consulenza e nelle sue numerose pubblicazioni, un valido punto di partenza per lo svolgimento dei loro lavori.

    Ho avuto occasione di farne viva e personale esperienza fin dai lontani anni dei miei studi universitari, quando avevo cominciato ad interessarmi con sempre maggiore impegno della documentazione, esistente in biblioteca, relativa alla storia del Viterbese; e, nell’effettuare queste ricerche, avevo trovato sempre in lui un’ampia ed esauriente collaborazione.

    Questi rapporti divennero progressivamente più frequenti e abituali quando, con il mio inserimento nella struttura organizzativa del sistema bibliotecario viterbese, ho aggiunto al mio ruolo di semplice studioso quello di membro del consiglio di amministrazione dell’ente e di redattore capo di Biblioteca e Società, il periodico trimestrale da esso edito a partire dalla fine del 1978 e del quale divenni direttore responsabile dopo la scomparsa del prof. Alessandro Vismara.

    Questa serie d’impegni resero pressoché quotidiani i nostri incontri per motivi di lavoro, tanto da trasformarli ben presto in un reciproco, costante, rapporto professionale. Ne era sorto un legame di sincera amicizia, che ha reso, per me, più doloroso il distacco.

    Penso, quindi, d’interpretare il pensiero di tutti coloro che l’hanno conosciuto e stimato se esprimo il vivo dolore per la perdita di un valido studioso e di un caro amico, il cui nome rimarrà certamente tra quelli delle persone che hanno lasciato un valido ricordo di sé nel contesto della storia culturale cittadina. 

    ATTILIO CAROSI: BIBLIOGRAFIA DEGLI SCRITTI

    ​Sandro De Amicis

    Sandro De Amicis

    ATTILIO CAROSI: bibliografia degli scritti

    Spesso nel ricordare un uomo di cultura, uno studioso, si usa dire: Egli dedicò tutta la vita allo studio; credo che non ci sia frase più appropriata come in questo caso. Il percorso professionale ed umano di Attilio Carosi è intimamente legato alla passione per la ricerca storica, alla storia di Viterbo ed al suo divenire. Appare superfluo ricordare che il lavoro di Carosi è stato per molti studiosi un punto di riferimento, una traccia ed uno stimolo per ulteriori ricerche ed approfondimenti, e chi, tra questi, ancora oggi continua il percorso dell’indagine storica, avverte quanto sia stato importante e proficuo confrontarsi e discutere con lui, avverte la mancanza dei suoi consigli e, perché no, dei suoi giudizi, alle volte severi e per nulla diplomatici, ma sempre basati sul rigore e la puntigliosità scientifica.

    La produzione di Carosi, raccolta in questa bibliografia, sta a dimostrare l’interesse e la curiosità intellettuale di chi segue la propria passione nell’indagare il passato, nell’interrogarsi sulla storia di una comunità, di un paese. Libri, saggi, articoli compongono l’itinerario dello studioso che percorre i secoli di storia puntualizzando aspetti che, - si pensi ai lavori sugli stampatori, i cartai, i tipografi a Viterbo e nella Provincia del Patrimonio attraverso i secoli 15-18, pubblicati nella collana degli Annali della Tipografia Viterbese, opera cui Carosi teneva in modo particolare - rappresentano non solo, in questo caso, l’elemento culturale del periodo, ma la ricaduta sociale ed economica sul territorio viterbese che tale attività comporta. Il lavoro dunque, e la scienza, come nel saggio L’arte degli speziali in Viterbo nel ‘400, dove la struttura corporativa, fin dal ‘300, dà dignità alla scienza medica.

    Il passato e la storia della città, impressa nelle testimonianze, non solo documentarie degli statuti e delle cronache, si rileva anche nelle numerose epigrafi disseminate nelle vie cittadine. O meglio ciò che di esse rimane, perché il tempo non perdona e gli uomini fanno il resto. Ecco allora il certosino lavoro di ricerca e catalogazione delle epigrafi medievali. Foto e trascrizione di ciò che fu. Salvare ciò che è ancora possibile salvare, sembra essere la motivazione primaria, neanche tanto velata, - l’appello agli amministratori della città è messo nero su bianco - che anima il paziente ricomponimento epigrafico. Se si vuole, una guida, necessariamente parziale ed incompleta (molto è andato perso) di storia civile e religiosa che si snoda tra chiese e torri, tombe e palazzi nobili, a rammentare personaggi, eventi e fatti.

    Un salto temporale ci porta a un passato vicino. Un libro a due mani con il prof. Bruno Barbini sull’istituzione della Provincia di Viterbo (1927). Un racconto che si conclude con il decentramento regionale del 1970, nel quale il tema principale fa da sfondo alla vita politica, sociale ed economica di Viterbo e della Tuscia. Quarant’anni e oltre di vicende: il fascismo, la resistenza, la guerra e il dopoguerra. I momenti salienti che attraversa il Paese si riflettono nella storia della città; storia nazionale e storia locale s’intrecciano nel processo di trasformazione del territorio che compone la geografia della provincia, con le sue peculiarità e caratteri

    Libri e saggi dunque, ma anche articoli su riviste. Tra queste è in evidente rilievo Biblioteca e Società, la rivista del Consorzio Biblioteche sorta nel 1979, alla quale Carosi ha dato il suo insostituibile apporto, fin dalla fondazione, seguendone i primi passi, insieme a Sandro Vismara e Bruno Barbini, e continuando poi, incessantemente, la collaborazione negli anni seguenti. L’ultimo articolo risale al 2006. Tratta della pubblicazione dell’edizione critica de Lo Statuto di Viterbo del 1469, un omaggio, un atto di stima e di amicizia verso Corrado Buzzi, curatore di questa decennale fatica.

    Nel soffermarmi, con questi accenni e brevi note, sulla produzione di Carosi storico che volge lo sguardo a decifrare il passato, non posso fare a meno di ricordare il Carosi direttore di Biblioteca, immerso nella sua professione e nel suo ruolo, strenuo sostenitore dell’istituzione nata nel lontano 1973, e spettatore di intenti e promesse dimenticate. Una navigazione, quella del Consorzio Biblioteche, in un mare che, ieri come oggi, si è dimostrato in perenne burrasca.

    Anche dopo aver lasciato, Carosi non aveva mai smesso di chiedere, informarsi delle sorti del Consorzio. Ricordo ancora, erano pochi giorni prima della sua scomparsa, l’espressione di delusione e di rassegnazione nell’apprendere delle difficoltà sempre maggiori che stava (e sta) attraversando l’istituzione, quella stessa delusione che mi è capitato di ritrovare nelle pagine che Carosi dedicò alla figura di Leto Morvidi, primo presidente della Provincia di Viterbo eletto nel dopoguerra e fautore, fin dal 1956, dell’idea di un consorzio tra Provincia e Comune che gestisse un’unica biblioteca.

    L’opuscolo su Morvidi fu pubblicato nel 1995 e proprio in quei giorni il Consorzio era stato sciolto, di comune accordo, dagli Enti promotori: con sommo e personalissimo rammarico che oggi assisto al suo scioglimento, malgrado le rimostranze di studiosi viterbesi e non viterbesi. Ma non perdiamo le speranze: sembra che anche a Viterbo sia recentemente arrivato uno dei tanti unti dal Signore che girano l’Italia in vista delle elezioni. Ha assicurato che entro un anno, o poco più, sorgerà per suo merito un modernissimo, ampio palazzo dove una sfavillante biblioteca aprirà le sue ali ai nostri figli. E Leto Morvidi sorriderà dalla sua tomba.

    Il Consorzio poi, si gridò al miracolo, non fu più sciolto, ma l’ampio palazzo che avrebbe dovuto riunire le due biblioteche, non si realizzò mai. Ebbe inizio invece una lunga quanto lenta agonia che ancora prosegue inarrestabile. I vari unti del Signore che si sono avvicendati nel tempo si sono persi tra proclami e progetti, senza che nulla cambiasse, anzi.

    Oggi resta soltanto l’amarezza e il rammarico di Attilio Carosi e di tanti che come lui hanno sempre creduto, e credono che la cultura e il sapere siano un bene comune, una risorsa civile e umana, e non mera merce di scambio da esibire, tra parole vuote e promesse facili, per volate elettorali e ambizioni politiche.

    Bibliografia Carosi

    Esecuzioni capitali a Viterbo. L’opera misericordiosa della Confraternita di S. Giovanni Decollato, in Strenna viterbese per l’anno MCMLVI, Viterbo Oggi n. 6 1955 pp. 5-6.

    Mostra storica del libro viterbese a tutto il secolo XIX, Catalogo a cura di Attilio Carosi, Viterbo, Comune di Viterbo, 1957.

    Diligenze poste e viaggi d’altri tempi, in Viterbium, Anno I 1959 n. 1, p. 12.

    San Giovanni in Zoccoli. Vecchi quartieri viterbesi, in Viterbium, Anno I, 1959, n.2, pp. 17-19.

    Girolamo, Pietro e Agostino Discepoli (1603-1631), Viterbo, Agnesotti, 1962, (Annali della Tipografia Viterbese).

    Miscellanea di studi viterbesi, a cura di Augusto Egidi e Attilio Carosi, Viterbo, 1962.

    Mostra storica del Risorgimento viterbese, catalogo a cura di Attilio Carosi, Viterbo, Amministrazione Provinciale, Istituto per la storia del Risorgimento italiano-comitato di Viterbo 1967.

    Il Bulicame: primo giornale della provincia di Viterbo, in Notiziario dell’Amministrazione provinciale di Viterbo, [1969], n. 2, p. 9.

    Mostra di bolle, pergamene e statuti dell’Archivio storico della città di Viterbo, Palazzo dei Priori 10-20 giugno 1972, a cura di Attilio Carosi, Viterbo, Banca del Cimino, [1972].

    La Biblioteca Consorziale di Viterbo, in Biblioteca e Società. Rivista del Consorzio per la Gestione delle Biblioteche di Viterbo, Anno I, n. 1-2, 1979, p. 8-12.

    Le carte da gioco in Viterbo e Ronciglione, in Biblioteca e Società, Anno I, 1979, n. 3, pp. 23-26.

    Il culto della Madonna Liberatrice di Viterbo attraverso le stampe, in Biblioteca e Società, Anno II, 1980, n. 4, pp. 23-26.

    Pinzi Cesare: Le Missioni a Viterbo nel 1858, a cura di Attilio Carosi, in Biblioteca e Società, Anno II, 1980, n. 4, pp. 33-34.

    La prima edizione delle Regole per le scuole delle Maestre Pie Venerini, in Biblioteca e Società, Anno II, 1980, n.4, p. 29.

    Rarissima edizione del Quattrocento rinvenuta nella Biblioteca degli Ardenti, in Biblioteca e Società, Anno II, 1980, n. 4, p. 28.

    Scipione Moscatelli fabbricante di carte da gioco e di fiammiferi: vissero soltanto le carte da gioco viterbesi, in Biblioteca e Società, Anno II, n. 1, 1980, pp. 21-28.

    Una poco conosciuta vita di Santa Rosa, in Biblioteca e Società, Anno II, 1980, n. 4, pp. 23-26.

    Il domenicano Padre Pio Semeria e le sue memorie, in Biblioteca e Società, Anno III, 1981, n. 1, pp. 27-30.

    Porta San Sisto o Romana, in Biblioteca e Società, Anno III, 1981, n.2-3, pp. 54-55.

    San Crispino nelle stampe, in Biblioteca e Società, Anno III, 1981, n. 4, 1981, pp. 35-39.

    Storie di tutti i giorni nei graffiti di S. Rocco a Montecalvello. Presso Viterbo una delle prime cappelle dedicate in Europa al Santo invocato contro la peste, in Biblioteca e Società, Anno III, 1981, n. 2-3, pp. 5-11.

    Dal Convento di Santa Maria in Gradi due pergamene del secolo XIV, in Biblioteca e Società, Anno IV, 1982, n. 3-4, p. 45.

    Libri e manoscritti di Francesco Orioli (1783-1856). Catalogo della mostra a cura di Attilio Carosi, Viterbo, Palazzo Santoro, 15-31 ottobre, 1983, Viterbo, Consorzio Gestione biblioteche di Viterbo, 1983.

    Vincenzo degli Atti: Il terremoto del 1695 a Civita di Bagnoregio in una inedita relazione. Introduzione e note a cura di Attilio Carosi, in Biblioteca e Società, Anno V, 1983, n. 1-2, pp. 9-13.

    Tre rarissime edizioni ebraiche nella Biblioteca degli Ardenti, a cura di Attilio Carosi, in Biblioteca e Società, Anno V, 1983, n. 1-2, p. 14

    Il Card. Pietro La Fontaine a Giocondo Pasquinangeli. Un’amicizia esemplare in un epistolario dei primi del secolo, a cura di Attilio Carosi, in Biblioteca e Società, Anno VI, 1984, n. 1- 4, pp. 3-13.

    S. Maria delle Grazie e S. Maria della Grotticella sulla vecchia Strada Romana al Ponte di Roma, in Biblioteca e Società, Anno VII-VIII, 1985-1986, pp. 89-93.

    Le epigrafi medievali di Viterbo, Traduzione di Domenico Mantovani, foto di Giovanni Firmani, Viterbo, Consorzio Gestione Biblioteche di Viterbo, 1986.

    Bussi Feliciano: Monumenti degli antichi etruschi ritrovati nel territorio viterbese... [nel] 1787, Trascrizione di Attilio Carosi. Riproduzione anastatica a cura della Cassa di Risparmio di Viterbo, Roma, Stabilimento di Arti grafiche di Luigi Salomone, 1986.

    I fondi antichi delle biblioteche di Viterbo e provincia, in Rassegna degli studi e delle attività culturali dell’Alto Lazio, 1987, n. 7, pp. 128-133.

    Gregorio XIII e la Riforma Gregoriana nello Stato Pontificio, in La Torretta. Rivista quadrimestrale a cura della Biblioteca Comunale di Blera, Anno IV, 1987, n. 3, p. 4.

    L’arte degli speziali in Viterbo, in Speziali e spezierie a Viterbo nel ’400, Viterbo, Edizioni libri d’arte, 1988, p. 13-25.

    Librai cartai e tipografi in Viterbo e nella Provincia del Patrimonio di San Pietro in Tuscia nei secoli XV e XVI, Viterbo, Comune di Viterbo, 1988 (Annali della Tipografia Viterbese, I).

    Note sul Palazzo comunale di Viterbo: gli artisti e le iscrizioni della Cappella, della Sala della Madonna, della Sala Regia e della Sala del Consiglio, Viterbo, Comune di Viterbo, 1988.

    Statuta magnifice artis spetiariorum et aromatariorum civitatis Viterbii, trascrizione di Attilio Carosi, traduzione di Domenico Mantovani, Viterbo, in Speziali e spezierie a Viterbo nel ’400, Viterbo, Edizioni libri d’arte, 1988, pp. 129-233.

    Viterbo e la Tuscia: dall’istituzione della provincia al decentramento regionale (1927-1970), Bruno Barbini, Attilio Carosi, Viterbo, Cassa di Risparmio di Viterbo, 1988.

    Bagnaia di fuori, la chiesa di San Carlo, a cura dell’Associazione "Amici di Bagnaia – Arte e Storia, [testo di Vincenzo Frittelli], ricerche di Attilio Carosi e Vincenzo Frittelli, Bagnaia, Amici di Bagnaia, 1989.

    Come ricordo Giuseppe Signorelli, in Faul, Anno I, n. 5, 1989, p. 25.

    Le carte da gioco del Patrimonio di San Pietro, in Biblioteca e Società, Anno I , n. 3, 1989-1990, p. 35.

    Le edizioni di Bernardino, Mariano e Girolamo Diotallevi (1631-1666) e di Pietro Martinelli (1666-1704), Annali e documenti. In appendice: ancora edizioni Discepoli, Viterbo, Comune di Viterbo, 1990 (Annali della Tipografia Viterbese, III).

    Barche per il porto di Sipicciano, in Biblioteca e Società, Anno X, 1991, n. 1-2, p. 10.

    Le fazioni viterbesi in una novella di Matteo Bandello, in Biblioteca e Società, Anno X, 1991, n.1-2, p. 18.

    Porta Vallia, una porta fantasma, in Biblioteca e Società, Anno X, 1991, n. 3-4, pp. 3-6.

    Volpini, Bene: Versi in onore di Callisto III papa (1455-1458), tratti dai protocolli del notaio di Matteo da Montefiascone, a cura di Attilio Carosi, in Biblioteca e Società, Anno X, 1991, n. 1-2, p. 26.

    A zonzo per archivi e biblioteche, in Biblioteca e Società, Anno XI, 1992, n. 1-2, pp. 37-42.

    Agide Gottardi, Viterbo: guida storico-artistica, a cura di Attilio Carosi, Viterbo, 1992.

    Gli ex voto del santuario della Madonna della Quercia di Viterbo: immagini e testimonianze di fede, Attilio Carosi, Gianfranco Ciprini, Viterbo, Cassa di Risparmio della Provincia di Viterbo, 1992.

    Prezzo dei libri alla fine del Quattrocento: una nota di spese della Biblioteca dei Domenicani di S. Maria della Quercia, in Biblioteca e Società, Anno XI, 1992, n. 1-2, p. 20.

    Il complesso conventuale di S. Maria in Gradi di Viterbo dell’Ordine dei Padri Domenicani, Il profilo storico è artistico è dovuto alla cortese e disinteressata collaborazione di Attilio Carosi Viterbo, Camera di Commercio Industria e Agricoltura di Viterbo, 1993.

    Girolamo, Pietro e Agostino Discepoli (1603-1631), Seconda edizione, Viterbo, Agnesotti, 1993 (Annali della tipografia viterbese, 2).

    Opere a stampa di Alessandro Donzellini, in Alessandro Donzellini. Letterato e storico di Bolsena tra i secc. XVI-XVII, Atti della giornata di studio, Bolsena 10 luglio 1993, Bolsena, Città di Bolsena Editrice, 1993, pp. 107-110.

    I disordini del 1849 nella città di Orte, l’arresto del padre gesuita Giampietro Secchi e la fuga del prelato Stefano Serra, arcivescovo di Orope in partibus e segretario della Congregazione dell’Immunità ecclesiastica, a cura di Attilio Carosi, inserto n.21 di Biblioteca e Società, Anno XIII, n. 3 1994, p. 15.

    Il presunto antico disegno della facciata gotica della Chiesa di S. Lorenzo, Cattedrale di Viterbo, in Biblioteca e Società, Anno XIII, 1994, n. 1, pp. 25-26.

    S. Antonino in Via La Fontaine e la sua campana, in Biblioteca e Società, Anno XIII, 1994, n. 4, pp. 26-27.

    Sono guelfe e non imperiali le aquile sulla Loggia del Palazzo dei Papi, in Biblioteca e Società, Anno XII, 1994, n. 2, p. 12.

    Chiese di Viterbo, a cura di Attilio Carosi, Viterbo, Editrice S.ED., 1995.

    Leto Morvidi e le biblioteche, in Ricordo di Leto Morvidi nel centenario della sua nascita, Viterbo, Amministrazione Provinciale, 1995, pp.8-12.

    La bella Galiana: storia e leggenda, in Il sarcofago romano dal monumento rinascimentale della Bella Galiana a Viterbo, a cura Adriana Emiliozzi, Viterbo, Ente Cassa di Risparmio della Provincia di Viterbo, 1995, pp. 11-22.

    Le officine tipografiche ronciglionesi nei secoli XVII e XVII, in Stamperie, carte e cartiere nella Ronciglione del XVII e XVIII secolo. Atti della Giornata di Studio presso la Sala Riunione della Cassa Rurale e Artigiana, 26 ottobre 1991, a cura di Francesco d’Orazi, Ronciglione, Centro di ricerhe e Studi, 1996, pp. 121-130.

    Petrangeli Papini Francesco: Rapporti della città di Bagnoregio con Orvieto e i Monaldeschi nel Medio Evo, Prefazione di Attilio Carosi, Bagnoregio, 1996.

    L’inventario della tipografia ronciglionese di Giacomo Menichelli del 30 marzo 1705. Per una bibliografia delle stampe popolari italiane del secolo XVII, in Biblioteca e Società, Anno XVI, 1997, n.3, pp. 3-7.

    Il Settecento. Giulio De Giulij (1701-1713), Eredi De Giulij (1713-1788), Michele Benedetti (1705-1718), Domenico Poggiarelli (1748-1755), Giuseppe Poggiarelli (1755-1784), Fratelli Poggiarelli (1784-1828), Domenico Antonio Zenti (1761-1794), Viterbo, Comune di Viterbo, 1997 (Annali della Tipografia Viterbese, IV).

    Il Casaletto del Padreterno alla strada Capretta, in Biblioteca e Società, Anno XVII, 1998, n. 4, pp. 27-28.

    Giacomo Leopardi a Viterbo. Un caso sospetto di millantato credito, in Biblioteca e Società, Anno XVII, 1998, n. 4, p. 32.

    Della storia locale e dei suoi scrittori, in Biblioteca e Società, Anno XVIII, 1999, n. 3-4, pp. 15-21.

    Il Monastero di S. Salvatore del Monte Amiata e le sue chiese in Viterbo: S. Giovanni in Sonsa, S. Maria Maddalena, S. Marco, S. Maria delle Rose, in VII Centenario chiesa di San Marco, Viterbo, 2000, pp. 7-103.

    La biblioteca provinciale Anselmo Anselmi di Viterbo, in Le biblioteche nel Lazio, a cura di Luigi Devoti, Roma, 2003, (Lunario romano. Collana di varia cultura romana e laziale) pp. 213-220.

    La chiesa di S. Michele presso la torre di S. Biele in Viterbo, in Medioevo viterbese, a cura di Alfio Cortonesi e Paola Mascioli, Viterbo, Sette Città, 2004 pp.199-212.

    Le scritte moraleggianti sugli architravi delle finestre, in Palazzo Brugiotti in Viterbo, Viterbo, Edizioni Sette Città, 2005, pp. 34-45.

    Lo Statuto del Comune di Viterbo del 1469, in Biblioteca e Società, Anno XXV, 2006, n. 1-2, pp. 65-67.

    AGGIORNAMENTI AL LIBRO DI CAROSI SULLE EPIGRAFI MEDIEVALI DI VITERBO. IL GRECO DI ANNIO

    Corrado Buzzi

    Corrado Buzzi

    Aggiornamenti al libro di Carosi

    sulle epigrafi medievali di Viterbo.

    Il greco di Annio

    La scomparsa di Attilio Carosi rappresenta una perdita grave per la città e per tutti gli studiosi, me compreso, che trovavano in lui un punto di riferimento eccezionale. Eravamo coetanei: io nato il 5 marzo 1922, lui l’11 marzo dello stesso anno. La mattina del compleanno puntuale giungeva la sua telefonata benaugurante alla quale, altrettanto puntualmente, rispondevo sei giorni dopo. Ci legava un’amicizia fraterna fin dagli anni del ginnasio e una proficua simbiosi culturale appena usciti dall’università. Dopo qualche anno dall’uscita, per i tipi di Agnesotti, del suo libro sulle epigrafi medievali di Viterbo (1986), pensammo insieme alla opportunità di una nuova edizione, che includesse le epigrafi omesse o venute successivamente alla luce. Ricordo che, approfittando dei lavori in corso per il restauro della chiesa di S. Silvestro (oggi del Gesù), salimmo insieme sul tetto per leggere le iscrizioni nelle campane ivi esistenti. La nuova edizione avrebbe dovuto comportare un aggiornamento e una revisione di quanto già pubblicato, dato anche che quello, che l’autore definisce l’attento revisore di tutto il testo, non lo era, poi, stato abbastanza. A novembre del 2005 gli consegnai l’aggiornamento di cui avevamo parlato. Il lavoro, che, ampliato, vede oggi la luce, contiene le novità intervenute, dalla mutata collocazione di alcune epigrafi allo spostamento del nuovo sepolcro di Giovanni XXI, alla sostituzione con una copia in marmo del sepolcro della Bella Galiana, l’eliminazione di qualche svista e la rilettura di alcune iscrizioni, tra cui quelle della fontana del Sepale, in piazza Fontana Grande, del cardinale Giordano Pironti nella basilica di S. Francesco e dell’ospedale degli Armeni nella piazzetta intitolata a Vittoria Colonna, per le quali ho ricevuto un prezioso supporto fotografico dall’amico Mauro Galeotti.

    Nuovo è lo studio, da me condotto, sotto l’aspetto epigrafico e linguistico - grammaticale della iscrizione anniana in greco detta Seconda Tabula Cibellaria.

    Le epigrafi sono indicate con il numero progressivo e con il titolo che hanno nell’edizione del 1986.

    EPIGRAFE n. 3

    DONAZIONE DELLA CANONICA DI S. MARIA NUOVA – Anno 1080

    Alla pag. 18, riga 8, invece di 18 dicembre si legga: 18 novembre.

    EPIGRAFE n. 6

    FONDAZIONE DELL’OSPEDALE DEI PELLEGRINI – sec. XI-XII

    Alla riga 1 invece di Vuido si legga: Wido.

    Alla riga 22 invece di Datian si legga: Dathan.

    EPIGRAFE n. 7

    SEPOLCRO DELLA BELLA GALIANA – anno 1138.

    Nell’inverno del 1988, nella sua veste di assessore comunale alla cultura, Corrado Buzzi, visto lo stato di degrado in cui versava il sarcofago romano detto della Bella Galiana sulla piazza del Comune, dinanzi alla chiesa di S. Angelo in Spata, per scongiurare il pericolo di una perdita irreparabile, ne dispose il trasferimento all’interno del Museo Civico, dove fu sottoposto, successivamente, a due delicati interventi di restauro. Il progetto iniziale predisposto dall’assessore ne prevedeva la sostituzione con una copia a calco, ma, essendosi questa rivelata impossibile per la fragilità del materiale, ne fu commissionata una in marmo allo scultore viterbese Luciano Funari. La pregevole opera di questo artista è oggi sulla piazza dinanzi alla chiesa. Il progetto, rivelatosi molto oneroso, è stato finanziato congiuntamente dalla Regione Lazio (in gran parte) e dall’Amministrazione Comunale. Per un approfondimento rimandiamo al bel volume edito nel 1995 dall’Ente Cassa di Risparmio della provincia di Viterbo, per i tipi di Agnesotti: Il SARCOFAGO ROMANO dal monumento rinascimentale della BELLA GALIANA a Viterbo, a cura di Adriana Emiliozzi, con i contributi di Attilio Carosi: La Bella Galiana, storia e leggenda; Bernard Andreae: Il sarcofago di Viterbo nell’arte romana; Bruno Marocchini: Il restauro recente (1992); Adriana Emiliozzi: Ipotesi sulla provenienza; Federico Rausa: Viterbo e l’antico, considerazioni sul fenomeno del reimpiego.

    EPIGRAFE n. 14

    RESTAURO DI PORTA BOVE – anno 1255

    Alla riga 5 si legga: Rector qui. La lettura rectorque contrasta anche con le leggi della metrica.

    L cu(m) qui(n)que fuit a(n)nos p(ost) M duce(n)tos

    cu(m) Bo(n)ave(n)tura p(ro)co(n)s(u)l nobil(is) Urbis,

    re nom(en) co(m)ita(n)te bonu(m), me fec(it) et aux(it).

    Hi(n)c Bo(n)ave(n)tura(m) porta(m) me dicere iubet

    qui me fu(n)davit. Rector qui sic decoravit

    vivat i(n) et(er)nu(m) cu(m) ge(n)te cole(n)te Vit(er)bum.

    Era (fuit) il cinquanta con il cinque dopo il mille e duecento (1255), quando Bonaventura, nobile proconsole dell’Urbe, mi fece ed ampliò - l’opera conferma il nome augurale -. Per questo vuole che mi chiami Porta Bonaventura colui che mi costruì. Il podestà (rector) che così l’adornò, viva in eterno con la gente che abita Viterbo.

    EPIGRAFE n. 15

    CONSACRAZIONE DELLA CHIESA DELLA SS. TRINITÀ – anno 1258

    Alla riga 10 invece di M(ar)ia si legga: m(isericord)ia.

    EPIGRAFE n. 18

    SUL SEPOLCRO DI PAPA GIOVANNI XXI – anno 1264

    Nel marzo 2000 il sepolcro, rinnovato, è stato ufficialmente e solennemente inaugurato nel nuovo e allo stesso tempo antico sito, nei pressi dell’altare maggiore, in fondo alla navata sinistra per chi entra in cattedrale. Nel marmo è incisa la nuova iscrizione che sostituisce l’antica:

    1. IOANNES PP XXI (MCCLXXVI-MCCLXXVII)

    2. «…Pietro Ispano/lo qual giù luce in dodici libelli» (Dante Alighieri, Par. XII).

    La precedente epigrafe è stata trasferita nell’attiguo Museo del colle del Duomo.

    EPIGRAFE n. 23

    COSTRUZIONE DELLE MURA DI FAUL – anno 1268

    Alla riga 4 invece di Ra(i)nerii si legga: Ranerii.

    EPIGRAFE n. 24

    PIETRA TOMBALE DEL CARDINALE GIORDANO PIRONTI – anno 1269

    La lettura di questa iscrizione (sette versi leonini in esametri dattilici), attualmente all’interno della basilica di S. Francesco, nel transetto di destra, a sinistra della porticina d’ingresso al campanile, è, per lo stato del peperino, una delle più tormentate. Le prime tre righe e l’ultima non presentano particolari problemi. Le variazioni riguardano le righe 4, 5 e 6. Alla riga 4 fidelis, dopo pietate, è sicuro e metricamente corretto. Il punctum dolens sorge alla riga successiva, quando, dopo favit, ci si attenderebbe il nome di colui che diede a Giordano Pironti il giusto riconoscimento per i suoi grandi meriti, nome richiamato anche da ipse locavit in fine di verso. Ma il nome non si legge: il peperino, abbastanza leggibile all’inizio e alla fine della riga, è, nel centro, lesionato gravemente. Con la cesura semiquinaria (dopo favit) termina il primo emistichio (due piedi e mezzo). Poiché integri sono anche i due piedi finali, risultano leggibili dell’esametro quattro piedi e mezzo su sei. Rimangono in dubbio, al centro, poche sillabe (fra tre e cinque) ma essenziali, per un piede e mezzo. Il felice completamento della lettura della sesta riga, che richiama la nomina di Giordano Pironti a notaio e a Cancelliere di Santa Romana Chiesa, rende improponibili per l’integrazione i nomi dei papi Urbano IV e Clemente IV, poiché quei prestigiosi incarichi furono dati al Pironti rispettivamente nel 1256 e 1257 da Alessandro IV. L’inserimento di Alexander presenta, però, serie difficoltà di ordine metrico e non trova riscontro nelle tracce di scrittura con molto sforzo individuabili, tra cui: PAP e una D prima di IPSE. Una attenta lettura ha consentito, tuttavia, con il sussidio della metrica, la sicura integrazione della quinta riga dell’epigrafe, anche nella parte centrale.

    Eloquii flumen ac iuris utrumq(ue) volumen,

    orbantur multo Lare te Iordane sepulto.

    Tu vir es [i]n[s]uetus, prud[ens], plerisq(ue) facetus,

    venustus, plenus pie[ta]te, [fid]elis, amenus,

    unde tibi favit [tunc papa, quod] ipse locavit

    in cancellandi vice te cu[m vi]ce notandi.

    Patria natalis tibi Terracena localis.

    Il fiume dell’eloquenza e l’uno e l’altro volume del diritto, con la tua morte, o Giordano, sono senza il gran protettore. Sei tu l’uomo raro, prudente, simpatico ai più, pieno di grazia, caritatevole, fedele, piacevole, onde allora il papa ti favorì poiché lui stesso ti volle nei posti di Cancelliere e di Notaio. Terracina fu a te patria, luogo di nascita e vita.

    EPIGRAFE n. 30

    RESTAURO DELLA FONTANA DEL SEPALE – anno 1279

    Gli otto versi dell’iscrizione sono esametri dattilici in cui il primo emistichio fa rima con il secondo, detti leonini da Leonio da S. Vittore (che ne fu, nel secolo XII, non l’inventore ma il divulgatore). Alla riga 3 leggiamo tactus invece di factus ( si veda anche il verso 3 sulla base ottagonale) e alla riga 6, con il rispetto anche della metrica: A(r)turi(us) t(ur)bis h(uius) capitaneus urbis. Nel secondo dei quattro versi scolpiti sulla base ottagonale il tunc dinanzi a Papa Nicolaus va eliminato, perché nell’iscrizione non c’è. Il terzo e il quarto verso, in Carosi non riportati, contengono il nome e l’elogio del lapicida.

    + M(ille) duce(n)tenis c(um) LXX nove(n)is

    annis Natal(is) Chris(t)i fo(n)s iste Sepal(is)

    mi(ri)fice tac(t)us e(st) in meli(us)q(ue) redact(us)

    t(empo)re (p)rude(n)tis clari d(omi)niq(ue) pote(n)tis

    Ursi regna(n)tis Vit(er)bi p(re)d(omi)nantis.

    A(r)turi(us), t(ur)bis h(uius) capitane(us) urbis,

    clara sti(r)pe sat(us) Pet(ri) d(e) Mo(n)te, beat(us)

    reg(na)bat, dign(us) cu(n)cti(s) i(n) hono(r)e benig(nus)

    Nell’anno 1279 della Natività di Cristo questa fonte del Sepale fu mirabilmente ritoccata e restaurata al tempo del saggio, illustre e potente Orso, signore della dominatrice Viterbo. Arturo, capitano del popolo di questa città, nato dalla chiara progenie di Pietro del Monte, felicemente reggeva il governo, degno di merito per tutti, benigno nell’esercizio del potere.

    DALLA BASE OTTAGONALE

    + H(oc) OP(us) URBAN(us) CO(n)STRUXIT VALLERIAN(us).

    P(a)P(a) NICOLAUS REGNABAT I(n) ORBE BEATUS.

    Quest’opera costruì il viterbese Valeriano sotto il prospero pontificato di papa Nicolò [III, Orsini 1277-1280].

    3. TACTA MURCETT(us) FACE[1] MI(ri)FICE (con)FLAT(us)

    4. PINX(it) I(n) HAC PETRE TABULA (con)TENTA UT I(n)

    ERE.

    Lieto per il mirabile restauro incise Morcetto le parole in questa tabula [2] lapidea come nel bronzo.

    EPIGRAFE n. 32

    INDULGENZA CONCESSA DA NICCOLÒ IV ALLA CATTEDRALE DI S. LORENZO – anno 1289

    Alla riga 13 invece di M(ar)ia si legga: m(isericord)ia.

    EPIGRAFE n. 39

    ospedale degli armeni – anno 1310 circa

    1. + Hospitii locus est hic [ord]inis Armeniorum

    [edificati u]bi sa(n)ct[a patet fa]mos[a] piorum

    2. Symonis et Iude Domini [do]m[u]s luce secun[da],

    [que, nunc et] s(e)m(pe)r quo(vi)s peccamine[3] munda,

    3. hic captat veniam. D[o]mus [e]st hec menia don[o],

    [Symonis et I]acobi s(e)mper veneranda colono,

    4. fratre Gulielmo [millen]is facta trecent[is]

    d[ece]nis [glorio]si Christi annis orientis.

    É questa la sede dell’ospedale dell’Ordine degli Armeni con la chiesa (Domini domus) dedicata ai pii Simone e Giuda, bella a vedersi, che, ora e sempre monda da ogni peccato, qui cerca il perdono. Sono la casa da venerare per sempre per i fedeli (colono) di Simone e Giacomo [4] queste mura concesse a frate Guglielmo nell’anno di Cristo glorioso, sorgente, mille trecento dieci.

    Questa iscrizione (otto esametri dattilici disposti su quattro righe) denuncia in maniera vistosa il problema che affligge molte epigrafi viterbesi: lo sfaldamento del peperino che ne rende difficile e talvolta impossibile la lettura. I testi sono in genere ben fatti e, se in versi, rispettosi della metrica - non dimentichiamo che Viterbo era una città di buon livello culturale - il che ne agevola di molto la lettura. Per converso non si può non tener conto della situazione opposta, quando, come in questo caso, compaiano errori ed inesattezze, non estranei al latino medievale: fratre, invece di fratri;Ia di "Iacobi", sillaba lungha, usata per breve; de di "decenis", sillaba breve invece di una lunga; moenia sentito come femminile – singolare[5]. L’integrazione con edificati alla riga 1, pur probabile e metricamente esatta, non trova riscontri nel peperino lesionato gravemente. Riteniamo comunque di aver dato una lettura soddisfacente, specie se confrontata con i deludenti approcci succedutisi dal secolo XVIII in poi.

    EPIGRAFE n. 62

    SECONDA TABULA CIBELLARIA – secolo XV

    L’iscrizione è stata trasferita di recente dal ballatoio al pianterreno del Museo Civico, ove si trova attualmente insieme con gli altri falsi anniani. La riproduciamo purgandola di alcune mende verificatesi precedentemente in corso di stampa. Alla trascrizione e traduzione segue lo studio sul greco di Annio, che non prende, tuttavia, in esame i nomi propri. Annio, totalmente digiuno di greco, ne intraprese lo studio dopo il 1464. Come appare anche da questa iscrizione, non andò oltre una conoscenza superficiale ed approssimativa[6]. Annio la chiama Tabula Cybelica Maeonica (da Meonia, antica regione della Lidia), aggiungendo: Tota exprimitur vetustissimis maiusculis tum elementis tum verbis maeonicis([7]).

    Quando erano già passate da tempo le nozze di Córito con Elettra figlia di Atlante Citio, anche la grandissima Iside, frumentaria e panificatrice, si recò alle nozze di Iasio, figlio di Cόrito, nella dimora della turrita Cibele, promessa sposa di Iasio nel fondo Cibellario presso la fonte Cibellaria, ove sorse poco tempo dopo la reggia di Vadimone. E non molto dopo Iasio fu perfidamente ucciso dal malvagio fratello Dardano nell’agro Iasinello presso le terme Iasinelle nella Tuscia. Quindi la reggia fu restaurata prima da Pipino, poi da Marsia, principi etruschi, ad eterna gratitudine e testimonianza dei fatti. Una pietra vetustissima fu trovata con queste parole in lingua barbarica: primo fra tutti Camese [Cam] con il padre suo Giano e con Rigomero Gallo insediò sulle terme i contadini di Vetulonia e poco dopo fu fondato presso di questi un villaggio dal Libico Mizreo detto Ercole Rama, ma prima di Ercole Rama Sangyn Sabazio, padre dei Sabini e dei Sanniti, fondò il villaggio di Sangyna in Trossi Volturrena nella regione di Celeno.

    (trascrizione e traduzione di Corrado Buzzi)

    Fig. 1. Tabula Cybelica Maeonica (foto F. Biganzoli), Museo Civico, Viterbo.

    i l greco di a nnio

    ALFABETO ED EPIGRAFIA

    )] un alfabeto di tipo occidentale. Poiché furono i greci dell’Eubea che fondarono in Italia, in Campania, la colonia di Cuma, fu il loro alfabeto che si trasmise agli Etruschi ed ai Romani. L’alfabeto di Atene, per ovvie ragioni, prevalse sugli altri e passò al medioevo e al greco moderno. Era in vigore in Italia nel XV secolo ed è, quindi, anche quello usato da Annio.

    ) assomiglia alla forma corsiva del medioevo.

    LA LINGUA

    Il greco di questa iscrizione, pur con le sue anomalie, può essere assimilato al greco della koinè.

    Parole inventate.

    Parole che non esistono nel greco e di sua completa invenzione: ΚΩΡΙΤΝYΕΝΤΟΣ (un genitivo da collegare con ΔΙΑΓΕΝΟΜΕΝΟY), ΠALATIA, ΚΑΚΑΠΟΛΩΛΟΣ, ΝΟΣΣΟΣ. Per la prima abbiamo pensato alla unione di Córito con vúos (sposa), per la seconda al latino palatia, per la terza all’unione di κακós con il verbo ἀπóλλυμι (perisco, muoio), per la quarta all’aggancio con νεοσσιά (nido).

    Parole che non trovano precisa rispondenza nel greco, ma, per il significato, riconducibili a parole esistenti: ΣΙΤΟΚΗ (σῖτoς), ΑΡΤΟΡΕΙΑ (ἀρτoπoιός), ΠYΡΓΙΤΙΚΗ (πύργoς), ΕΠΙΔΗΠΕΡ (ἐπειδή), ΠΡΩΤΕΡ (πρóτερoς), ΛYΒΙΟY (ΛΙΒYH).

    Inesattezze ortografiche: ΙΣΤΕΡΟΝ, invece del corretto YΣΤΕΡΟΝ; ΜΑΡΣΙΑΣ, invece di ΜΑΡΣYΑΣ; ΣΑYΝYΤΩΝ, invece di ΣΑYΝΙΤΩΝ.

    Errori vari: ΚΩΜΗS (riga 22), invece di ΚΩΜΗ; ΑΠΕΚΑΤΕΣΤΑΘΗ, invece di ΑΠΟΚΑΤΕΣΤΑΘΗ (la ε, che indica l’aumento, tra ἀπό e κατά, è superflua, dato che l’aumento si trova già espresso dopo κατά); ΤΕΘΕΜΕΛΙΩΘΗ, invece di ΕΘΕΜΕΛΙΩΘΗ (aoristo passivo). La presenza della τ iniziale è assolutamente incomprensibile, a meno che non debba intendersi, insieme con la ε, come un raddoppiamento (che è proprio del perfetto) applicato assurdamente all’aoristo. ΑΡΧΩΝΤΩΝ, invece di ΑΡΧΟΝΤΩN; ΛEΓΟYΜΕΝΟY, invece di ΛΕΓΟΜΕΝΟY; ΠΑΛΑΙΩΤΑΤΟΣ, invece di ΠAΛAITATOΣ o ΠAΛAIOTATOΣ (nell’aggettivo di grado superlativo la o del tema si allunga in omega (ω) solo quando la sillaba che precede è, per quantità, breve); ΤΑYΤΗ (riga 13), invece di ΑYΤΗ; ΤΑYΤΟΙΣ ΛOΓOIΣ (riga 18), invece di ΤΟYΤΟΙΣ ΛOΓOIΣ.

    Le preposizioni.

    Non commentiamo il suo uso delle preposizioni, tanto esso è rudimentale e caotico. Per il complemento d’agente usa il genitivo retto indifferentemente da ύπό, ἀπό e пαρά, preposizioni tra le quali corre una notevole differenza. Non mancano errori grossolani, come, alla riga 19, l’uso di σύν con il genitivo (σὺν τοῡ пατρόs) anziché con il dativo.


    [1] Così (forse per esigenze metriche), invece di facie.

    [2] Nell’antica Roma tabula era la tavoletta cerata sulla quale i ragazzi con lo stilo incidevano le lettere.

    [3] Il vocabolo è in Prudenzio, scrittore cristiano del IV-V sec.

    [4] Suscita perplessità l’interpretazione da dare a Iacobi nella riga 3. La chiesa di S. Giacomo era assai vicina alla chiesa, oggi distrutta, di S. Simeone. Forse non è azzardato ipotizzare un lapsus da parte del lapicida che, avendo fatto confusione fra Simeone e Simone, ha inciso Iacobi invece di Iude.

    [5] V. anche: iura sua nemini fuit vendita seu cessa, Il catasto di S. Stefano di Viterbo, a cura di C. Buzzi Roma 1988, p. 226; in fortia Communis detineri, ibid., p. 188; ex fortia capituli Communis, ibid., p. 220.

    [6] V. Roberto Weiss, An unknown epigraphic tract by Annius of Viterbo, p. 105, nota 12, in Italian Studies presented to E.R. Vincent. Cambridge 1962.

    [7] V. Roberto Weiss, cit. p. 111.

    SETTECENTO TIPOGRAFICO NEGLI STATI PONTIFICI: IL CONTRIBUTO DI ATTILIO CAROSI

    ​Piero Innocenti

    Piero Innocenti*

    Settecento tipografico negli Stati pontifici:

    il contributo di Attilio Carosi

    Nel 1997 compare di Attilio Carosi Il Settecento, a conclusione di un percorso decennale dedicato alla fabbrica del libro nel Viterbese; il volume occupa il numero 4. di una collana (o, più tecnicamente: serie) dedicata a tale programma di scavo, come ne recita esplicitamente il titolo: «Annali della tipografia viterbese»[1]. Sarebbe appropriato, forse, parlare di opera in quattro volumi, più che di collana, dal momento che nessun altro autore vi ha pubblicato alcunché, ed essa è nata e morta con Carosi. Né appare possibile applicarle il dinamismo (culturale ed imprenditoriale) che si suole collegare al concetto di collana: non solo essa è emanazione di un editore improprio (i quattro titoli sono editi dal Comune, e occasionalmente dalla Provincia, della cittadina laziale), ma si è serializzata solo cammin facendo, dopo che il primo intervento sui Discepoli, uscito in forma non autonoma nel 1962 all’interno di un periodico locale, viene recuperato trent’anni dopo come unità nella serie, singolare caso di nuova emissione a quasi un terzo di secolo dalla prima. Eccone, comunque, il breve schedone, riepilogativo della consistenza:

    Librai, cartai e tipografi in Viterbo e nella provincia del patrimonio di S. Pietro in Tuscia nei secoli 15. e 16., Viterbo, Comune, 1988, 151 p.

    Girolamo Pietro e Agostino Discepoli (1603-1631), 1. ed. Viterbo, Agnesotti, 1962, 248 p., con in testa al front. Annali della tipografia viterbese, estr. da: «Miscellanea di studi viterbesi della Biblioteca provinciale A. Anselmi di Viterbo», e anche con tit. variante: La tipografia Discepoli. Registrata in BNI col n° 63-2959, ), 249 p. Poi in 2. ed.: Girolamo Pietro e Agostino Discepoli (1603-1631), Viterbo, Comune, 1993, stessa pag.

    Le edizioni di Bernardino, Mariano e Girolamo Diotallevi (1631-1666) e di Pietro Martinelli (1666-1704). Annali e documenti, in appendice: Ancora edizioni Discepoli (1603-1631), ivi, 1990, 373 p.

    Il Settecento, cit. supra, in nota 1.

    Studio annalistico della produzione tipografica, dell’approvvigionamento della carta, dell’attività biografica ed economica dei soggetti produttivi sono i parametri applicando i quali Carosi orienta la ricerca su produzione e diffusione del libro nell’area geografica scelta come teatro di osservazione. L’accento viene posto su fenomeni leggermente diversi da quelli della tradizione degli studî tipografici in Italia; attestati, nel periodo in cui egli incominciava il suo lavoro (cioè, come ricorda egli stesso, primi anni Cinquanta del Novecento), allo studio del fenomeno grafico, al suo livello più alto, che può essere documentato con le parole di un bibliotecario fattosi paleografo, e per l’occasione prestato alla storia della tipografia, Emanuele Casamassima.

    In un testo concepito nel 1960 – divulgativo e rapido, e che quindi può essere considerato esemplificativo del livello di senso comune sull’argomento – Casamassima, schizzando una breve storia dell’arte tipografica, affronta i secoli successivi al 15. dal solo punto di vista formale (il disegno dei caratteri nella loro evoluzione), ignorando altri aspetti della tipografia: come Barberi, committente dello scritto per conto della Enciclopedia diretta da Pallottino[2], ebbe ad appuntargli, in una lettera ad oggi non ritrovata, ma di cui sopravvive la responsiva. (Mette conto ricordare, ai fini del tema di oggi, che a Barberi si deve l’elaborazione, standard per l’epoca e per l’Italia, della tecnica di approccio all’annalistica tipografica[3].) Ciò avvenne, è lecito supporre, non solo perché Casamassima intendeva portare la riflessione sull’arte tipografica entro l’alveo della storia della scrittura, sua disciplina preferita e quindi interesse soggettivo, ma anche perché sentiva mancanti i presupposti mentali e logistici (che, in fondo, difettano tuttora) per fare storia della tipografia in quanto somma di storie biografiche, mentali e sociali degl’individui, economiche delle aziende tipografiche: oltre a cronologie consolidate. Lo testimoniano sia il taglio del testo giunto alla pubblicazione (ridimensionato rispetto alle prime intenzioni, v. qui in Appendice), sia il carteggio con Barberi, che nel 1993 ho avuto occasione di vedere e riprodurre, poi di studiare e, in piccola parte, di pubblicare[4]. È una pagina che gioverà rileggere estesamente:

    «Nel disegno dei tipi, in Francia, la tradizione del Garamond e della sua scuola è ancora vitale nel secolo XVII, con J. de Sanlecque, con P. Moreau – il quale disegna caratteri che imitano, sull’esempio delle ‘lettres de civilité’ del Granjon, la scrittura corsiva – e specialmente con lo svizzero J. Jannon (Sedan), al quale spettano i ‘typi Academiae’, a lungo attribuiti al Garamond. I migliori prodotti del secolo XVII, tuttavia, sono olandesi e si devono agli Elzevier di Leida, creatori di un tipo di libro di piccolo formato (dal 1630), dagli snelli caratteri (diritti e corsivi) e dalla sobria decorazione (frontespizi in rame; vignette, testate, finalini, lettere iniziali – ‘lettres grises’ – in legno). Anche sui disegnatori ed incisori olandesi (Christoffel van Dyck) assai forte è l’influenza dei Garamond[5].

    Nel secolo XVIII l’evoluzione dei tipi verso forme geometriche, cristalline, già riconoscibile nei Garamond e palese nei prodotti olandesi del secolo XVII, conduce alla creazione del ‘romain du roi’, il cui disegno, per volere di Luigi XIV, fu preparato da una commissione dell’Académie Royale des Sciences. Ph. Grandjean de Fouchy[6], cui venne affidata la realizzazione dei caratteri (1693), interpretò con libertà il progetto accademico, fondato su principi matematici e geometrici. Il classicismo dei tipi della Imprimerie Royale, che apparvero in una prima serie già nel 1702 ma furono terminati solo nel 1745 da J. Alexandre e L. Luce, non dipende tanto dalla costruzione geometrica delle lettere, quanto dal taglio netto – che rivela l’incisione in rame –, dal deciso chiaroscuro e, in particolare, dall’impiego di grazie orizzontali e sottili: innovazioni che furono determinanti per il futuro disegno dei caratteri. Dai ‘typi règi’, restringendone le proporzioni e riducendo il risalto delle grazie dietro l’esempio del ‘goùt hollandois’ (J. M. Fleischmann[7]), mosse l’artista e teorico P. S. Fournier le Jeune per i suoi numerosi, apprezzatissimi caratteri (Manuel typographique, 1764-1766). La tipografia inglese, che nel secolo XVII è stata debitrice dell’Olanda, acquista nel XVIII importanza europea. Il merito va agli incisori di caratteri: a W. Caslon, il quale, come il Fournier, risente l’influenza degli olandesi, ma ottiene risultati meno uniformi, grazie alla finissima tecnica d’incisione e all’accurata gradazione dei grossi e dei fini. Alla seconda metà del secolo appartiene l’attività di J. Baskerville, al quale i tipi inglesi devono maggiore fermezza e plasticità nella pagina di equilibrio epigrafico, in accordo con il gusto dell’epoca (Virgilio, 1757)[8].

    La tendenza verso il classicismo trovò conclusione, prima della fine del secolo XVIII, in Fr.-A. Didot, la maggiore personalità della famiglia di tipografi-editori parigini, e nel tipografo della Stamperia Palatina di Parma (1768), G. B. Bodoni[9]. Per entrambi il modello fu dapprima il Manuel del Fournier. Ma l’opera del Baskerville esercitò presto su di essi, e specialmente sul Bodoni (177I), un’influenza decisiva. Maestro nella composizione e nell’impaginazione, dotato di un finissimo senso del colore tipografico, il Bodoni mira all’effetto chiaroscurale attraverso il contrasto dei grossi e dei fini e mediante la fusione delle lettere – costruite con rigore geometrico – con il bianco della carta. La perfezione delle edizioni bodoniane dell’ultimo periodo, ottenuta – come dal Baskerville, ma con più astratta classicità – con i soli mezzi tipografici, fu oggetto di ammirazione ai suoi tempi e ha conservato efficacia di modello (Manuale tipografico, 1788 e 1818). Un diverso aspetto del classicismo è rappresentato dalle numerose edizioni del Didot; il quale, pur muovendo dai medesimi modelli francesi e inglesi e svolgendosi secondo una linea che presenta più di un’analogia con quella del Bodoni, giunge a risultati | [524] meno severi, di una maggiore leggibilità. A sua volta il classicismo italiano e francese aveva riflessi in Inghilterra, nei tipi di W. Martin per la Shakespeare Press di W Bulmer[10], e in Spagna, nell’opera eccezionale, personalissima, di J. Ibarra y Marín[11]. In relazione con il Baskerville, il Didot, il Bodoni, l’Ibarra, è anche l’ultima attività tipografica di B. Franklin[12]. Un prodotto del neoclassicismo può riconoscersi, infine, nel grottesco, dagli spessi tratti uniformi (1800-1803), dell’inglese R. Thorne[13]. L’ultimo decennio del secolo XVIII vide anche il rinnovarsi della Fraktur: J. G. I. Breitkopf ritornava ai modelli del Cinquecento, che interpretava con gusto tardo-barocco (1793 e 1798); mentre J. F. Unger, formatosi sullo stile francese e neoclassico, dava negli stessi anni (1793-1794) una Fraktur dal fluido, graduale chiaroscuro[14].

    Il secolo XIX vide un ripetersi di tipi imitati dai modelli del Didot e del Bodoni, ed insieme l’effimera fortuna di caratteri romantici di fantasia. L’industrializzarsi della fonderia, i procedimenti meccanici della stampa (prima d’impressione 1811; e più tardi di composizione, 1884), l’impiego di nuove tecniche per l’illustrazione, che costituisce tuttavia il maggior pregio delle edizioni ottocentesche, la fabbricazione meccanica della carta, insieme con lo straordinario sviluppo dell’editoria, contribuivano intanto a trasformare sempre più il libro in un prodotto dell’industria»[15].

    Questa presentazione a volo d’uccello della tipografia nel Settecento ha un’impostazione nella quale, dicevamo, ha peso presso che esclusivo l’analisi della forma scrittoria; che era l’approccio per così dire classico alla storia della stampa, ereditato dalla grande tradizione ottocentesca, che prevedeva la morfologia come filone principale della ricerca. Si pensi allo studio sul frontespizio del già citato Barberi, alla costituzione del Typenrepertorium come via di accesso alla genealogia dei paleotipografi, o, più in tema settecentesco, al modo non diverso in cui, nel 1900, Hart aveva condotta la sua analisi sulla evoluzione dei tipi all’interno della tipografia oxoniense di quel secolo[16].

    Nel gennaio 1998, una quarantina d’anni dopo la stesura del testo di Casamassima e appena qualche mese dopo il Settecento di Carosi, Maria Iolanda Palazzolo, ponendosi questioni storia del libro moderno e contemporaneo in termini di storia dell’editoria, cosa divenuta in gran parte diversa dalla storia della tipografia, osserva: «Tra i tanti problemi che deve affrontare chi voglia disegnare l’evoluzione storica dell’editoria libraria in Italia vi è quello di tracciare una mappa quanto più possibile precisa delle aziende editoriali. La particolare natura dello sviluppo nazionale italiano, la mancanza di una capitale culturale forte, come è stato sottolineato in molte sedi, ha portato alla proliferazione nei diversi territori della penisola di imprese tipografiche con identità e caratteristiche peculiari, talune volte fortemente competitive tra loro. Mentre però per il Settecento si stanno sviluppando gli studi sulle singole realtà regionali – ed il recentissimo volume di Renato Pasta sulla Toscana[17] ne è un’ulteriore conferma – mancano a tutt’oggi delle ricerche che consentano di ricostruire la fitta rete di iniziative editoriali sorte nei secoli successivi, a partire dai decenni della formazione dello Stato unitario sino all’età contemporanea»[18].

    Nel mezzo fra Casamassima e Palazzolo, 1958-1998, davvero pochi da potersi citare sarebbero i contributi significativi. Su un piano storico più generale, certamente potremmo annoverare i lavori di Mario Infelise comparsi fra il 1985 e il 1992, mentre dal punto di vista tecnico e di storia della tipografia, a cui è piuttosto da ricondurre il lavoro di Carosi, forse potremmo citare quelli di Tammaro Conti per Orvieto (1977), Giochi e Mordenti per Ancona (1980)[19], oltre alla decina di titoli registrati nel repertorio di Clerici, Falcetto e altri[20], meritoriamente aggiornato al dicembre 1997 da Gabriella Solari[21]. Anche a partire da un mondo minore, qual è la tipografia, dobbiamo fare i conti con l’Italia come luogo di un accentuato policentrismo, e col suo passato come sommatoria di microrealtà da sottoporre a un lavoro di ricostruzione, ai fini del quale mancano talvolta anche gli strumenti di ricognizione preliminare. Un esempio di tale problematica, nello stesso numero della «Fabbrica del libro», è studiato da Montanari, che illustra il lavoro da farsi presso l’Archivio di Stato di Milano e l’Archivio della Curia vescovile della medesima città per arrivare ad una ricostruzione attendibile della editoria lombarda nel secolo 18[22].

    Si tratta di una situazione diversa dalla stratificazione storica, caratterizzata da forte unitarietà di accentramento delle fonti, che in altre tradizioni ha reso possibili fatiche non solo come quella di Hart, o nel 1904 quella di Toribio Medina alla tipografia di Oaxaca fra il 1720 e il 1820; ma anche quella di Corroenne sulla produzione di bibliofilia a Lille, Lione, Orléans[23]. Premesse necessarie del fatto che oggi si possano, on situazioni praticamente intatte di concentrazione delle fonti, scrivere tranquillamente lavori come quelli dei Fuks (1984-1987) sulla tipografia ebraica in Olanda lungo due secoli, Seicento e Settecento[24].

    Chiarito all’interno di quale quadro di riferimento (ampio) dobbiamo considerare l’opera di Carosi sul Settecento viterbese (tema, invece, piccolo), veniamo ai particolari descrittivi. Essa si presenta dedicata, p. V, «A Sandro Vismara (1919-1987) e Vincenzo Frittelli (1912-1994) amici fraterni»: due studiosi di cose viterbesi, dei quali è traccia nella stampa e nella biblioteca locale, su temi che vanno da Egidio da Viterbo, a piccoli fatti del Risorgimento nello Stato pontificio, dalla fontana di Piazza della Rocca alle vicende di Bagnaia (località nelle vicinanze del capoluogo). Nella premessa (p. vii) l’A. ringrazia le autorità cittadine, e in particolare Corrado Buzzi, già assessore alla cultura del Comune), che «a lungo e con tenacia ha operato presso la Giunta amministrativa di allora e di oggi perché fossero dati alle stampe tutti i volumi». Nella Introduzione, l’A. spiega che non si è limitato a coprire il Settecento, ma si è spinto fino al 1828, «perché i longevi Poggiarelli stamparono» sino a quella data, «stancamente conducendo la loro ormai superata officina, ostinati e fiduciosi fino alla morte di risollevarne le sorti per mezzo dell’adozione di giovani tipografi, ricchi per beni di famiglia e capaci quindi di acquistare nuovi caratteri e nuovi torchi». Si forniscono le principali date di riferimento e si ragiona della consistenza del materiale esaminato, circa 500 edizioni, la maggior parte delle quali (228) sono state prodotte dai De Giulij. Seguono le 162 dei Poggiarelli, le 71 di Domenico Antonio Zenti, le 25 di Benedetti e le 5 di Parentati. Per oltre la metà si tratta di pubblicazioni di poche pagine e di piccolo formato, interessanti solo Viterbo e quindi scarsamente vendute al di fuori della cerchia cittadina. Carosi abbozza la seguente percentuale di distribuzione per argomenti, identificando grosso more diciassette suddivisioni.

    Le quali però, a ben guardare, si riducono a due: ciò che è chiesastico (ed è pari al 60% del totale) e ciò che non lo è. Con le prime tre si arriva infatti a tale quota: 1. Agiografia, Sinodi, letteratura religiosa: 24%. 2. Pubblicazioni per eventi religiosi (monacazioni, panegirici, in onore di predicatori, ecc.): 21%. 3. Fogli volanti per monacazioni, nozze, etc.: 15%.

    Il restante 40% è costituito da: 4. Drammi ed oratori per musica: 7%. 5. Dissertazioni di laurea: 6%. 6. Avvisi e relazioni: 5%. 7. Calendari civili e religiosi: 4%. 8. Storia locale: 3%. 9. Agricoltura, veterinaria, attività artigianali: 2%. 10. Letteratura italiana settecentesca: 2%. 11. Stampe popolari profane: 2%. 12. Grammatiche: 2%. 13. Classici greco-latini: 2%. 14. Eventi naturali: 2%. 15. Stampe popolari religiose: 1%. 16. Commedie: 1%. 17. Cause civili: 1%. Si esita a definirlo compiutamente laico.

    Il lavoro di Carosi rientra nella categoria degli annali tipografici, cioè delle opere che registrano le pubblicazioni in ordine cronologico, allegando anche i documenti relativi alle edizioni (pochi, nel caso nostro, ma non insignificanti), in modo che il lettore abbia sott’occhio sia il prodotto tipografico, sia la documentazione degli atti che sono stati necessarî per arrivare ad averlo. Presuppone, dunque, una duplice ricerca, in biblioteche (nel nostro caso 16 fra Viterbo, Roma, Firenze e Londra) e in archivî (nel nostro caso 3, tutti a Viterbo: per l’analisi particolareggiata, v. infra, Appendice). A fianco dei libri s’individuano documenti quali patenti (cfr. il n° 1 di p. 337), licenze (n° 4 di p. 338), atti matrimoniali, rilevanti per gl’impegni patrimoniali che ne derivano (n° 8 di p. 341-342), o documenti d’interesse più ricco, come l’inventario della tipografia e del magazzino di De’ Giulij, documento n° 13. di p. 350-362, etc.

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