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Non un uomo né un soldo: Obiezione di coscienza e servizio civile a Torino
Non un uomo né un soldo: Obiezione di coscienza e servizio civile a Torino
Non un uomo né un soldo: Obiezione di coscienza e servizio civile a Torino
E-book365 pagine4 ore

Non un uomo né un soldo: Obiezione di coscienza e servizio civile a Torino

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Info su questo ebook

La legge che ha riconosciuto nel nostro Paese l’obiezione di coscienza al servizio militare ha 50 anni. Marco Labbate ripercorre qui le tappe della lotta che ha portato alla sua approvazione, una lotta iniziata nel 1949 a seguito della condanna da parte del Tribunale militare di Torino di Pietro Pinna, primo obiettore di coscienza italiano capace di imporre all’attenzione della società civile un fermo rifiuto della violenza. Nei decenni successivi si sviluppò a Torino un forte attivismo antimilitarista particolarmente rilevante negli anni Sessanta e Settanta. Da allora la storia dell’obiezione di coscienza è entrata in connessione con la storia dell’Italia repubblicana, sino alla nascita del servizio civile nazionale. Questa vicenda si lega alla storia sociale e istituzionale di Torino dove ha prodotto anche la costituzione di un centro di documentazione per la pace e la nonviolenza, il Centro Studi Sereno Regis. La dettagliata e appassionata ricostruzione di Labbate è accompagnata e contestualizzata dalle voci di Guido Ceronetti, Aldo Capitini, Bruno Segre e da numerosi stralci di giornali pacifisti e anarchici.
LinguaItaliano
Data di uscita28 nov 2022
ISBN9788865792841
Non un uomo né un soldo: Obiezione di coscienza e servizio civile a Torino

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    Anteprima del libro

    Non un uomo né un soldo - Marco Labbate

    serenoregis_cover.jpg

    Marco Labbate

    Non un uomo

    né un soldo

    Obiezione di coscienza

    e servizio civile a Torino

    292.jpg

    Edizioni Gruppo Abele

    © 2022 Edizioni Gruppo Abele Impresa Sociale srl

    corso Trapani 95 - 10141 Torino

    tel. 011 3859500

    edizionigruppoabele.it

    edizioni@gruppoabele.org

    ISBN 9788865792841

    Prima edizione digitale: novembre 2022

    In copertina foto del corteo in via Lagrange a Torino,

    svoltosi in occasione della manifestazione dell’11 marzo 1972

    (Acssr, Fmp, fasc. 166)

    Progetto editoriale a cura del Centro Studi Sereno Regis

    di Torino, Organizzazione di Volontariato riconosciuta

    come Istituto Culturale di interesse Regionale e Nazionale

    Segui le promozioni e le attività della casa editrice:

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    instagram.com/edizionigruppoabele

    pag4.jpg

    Il libro

    La legge che ha riconosciuto nel nostro Paese l’obiezione di coscienza al servizio militare ha 50 anni. Marco Labbate ripercorre qui le tappe della lotta che ha portato alla sua approvazione, una lotta iniziata nel 1949 a seguito della condanna da parte del Tribunale militare di Torino di Pietro Pinna, primo obiettore di coscienza italiano capace di imporre all’attenzione della società civile un fermo rifiuto della violenza. Nei decenni successivi si sviluppò a Torino un forte attivismo antimilitarista particolarmente rilevante negli anni Sessanta e Settanta. Da allora la storia dell’obiezione di coscienza è entrata in connessione con la storia dell’Italia repubblicana, sino alla nascita del servizio civile nazionale. Questa vicenda si lega alla storia sociale e istituzionale di Torino dove ha prodotto anche la costituzione di un centro di documentazione per la pace e la nonviolenza, il Centro Studi Sereno Regis. La dettagliata e appassionata ricostruzione di Labbate è accompagnata e contestualizzata dalle voci di Guido Ceronetti, Aldo Capitini, Bruno Segre e da numerosi stralci di giornali pacifisti e anarchici.

    L’autore

    Marco Labbate è dottore di ricerca in Storia dei partiti e dei movimenti politici all’Università di Urbino e attualmente assegnista di ricerca in Storia contemporanea presso il medesimo ateneo. È vicedirettore dell’Istituto di storia contemporanea di Pesaro-Urbino e collabora con il Centro Studi Sereno Regis, per il quale è stato coordinatore scientifico del progetto Signornò. Torino città protagonista della storia dell’obiezione di coscienza in Italia.

    Indice

    Premessa di Enzo Ferrara

    Prefazione di Anna Tonelli

    Introduzione

    I. Il caso Pinna

    II. I primi passi dell’obiezione di coscienza a Torino

    III. Una nuova generazione

    IV. L’antimilitarismo nonviolento a Torino

    V. Dopo la legge

    Elenco dei nomi citati

    Legenda delle fonti archivistiche

    Abp: Archivio della Biblioteca Planettiana

    Aga: Archivio del Gruppo Abele

    Acs: Archivio centrale dello Stato

    Acssr: Archivio del Centro studi Sereno Regis

    Acv: Archivio della Chiesa valdese

    Afvn: Archivio della Fondazione Vera Nocentini

    Amn: Archivio del Movimento nonviolento

    Ap: Atti parlamentari

    Apc: Archivio di Pax Christi

    Aplifp: Archivio della Federazione piemontese del Partito liberale italiano

    Apr: Archivio del Partito radicale

    Ascto: Archivio storico del Comune di Torino

    Aspg: Archivio di Stato di Perugia

    Asto: Archivio di Stato di Torino

    b.: busta

    cat.: categoria

    Fac: Fondo Aldo Capitini

    fasc.: fascicolo

    Fbs: Fondo Bruno Segre

    Fca: Fondo Corte d’Assise

    Fdsr: Fondo Domenico Sereno Regis

    Fgs: Fondo Giovanni Salio

    Fem: Fondo Edmondo Marcucci

    Fmp: Fondo del Mir Piemonte e Valle d’Aosta

    Fmr: Fondo del Mir Roma

    Fq: Fondo Questura di Torino

    Ftm: Fondo Tribunale militare di Torino

    Gab: Gabinetto

    Istoreto: Istituto storico della Resistenza di Torino

    Mi: Ministero dell’Interno

    Odc: Obiezione di coscienza

    Rg: Registri generali

    Sr: Sezioni riunite

    v.: versamento

    Premessa

    di Enzo Ferrara

    ¹

    Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire (…) e ricostruire significa collaborare con il tempo nel suo aspetto di «passato», coglierne lo spirito o modificarlo, protenderlo, quasi, verso un più lungo avvenire; significa scoprire sotto le pietre il segreto delle sorgenti.

    Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano (1951)

    Marco Labbate è dottore di ricerca in Storia dei partiti e dei movimenti politici e assegnista di storia contemporanea presso l’Università Carlo Bo di Urbino. Ricopre l’incarico di vicedirettore scientifico dell’Istituto di storia contemporanea di Pesaro e collabora con l’Istituto Storia Marche e con il Centro studi Sereno Regis – dedicato al disobbediente Domenico Sereno Regis, partigiano per necessità, nonviolento per convinzione e teorico dell’impegno partecipativo in ogni spazio sociale. L’ultimo libro pubblicato da Marco Labbate prima di questo è stato Fonderia Montecatini. Storia di una fabbrica pesarese, scritto con Andrea Girometti per i tipi di Futura (Roma, 2021). In precedenza aveva completato Là sotto nell’inferno. Da Pesaro a Marcinelle sempre per Futura (Roma, 2016) e poi, recentemente, il libro che più si accosta a questo e a questa prefazione: Un’altra patria. L’obiezione di coscienza nell’Italia repubblicana (Pacini Editore, Pisa, 2020). Un titolo che richiama la canzone musicata da Franco Fortini e Fausto Amodei per la marcia della pace Perugia-Assisi, organizzata da Aldo Capitini nel 1961: «E se la patria chiama lasciatela chiamare: oltre le Alpi e il mare un’altra patria c’è», e un contenuto fondamentale per la ricostruzione del movimento cresciuto in Italia sottotraccia dal secondo dopoguerra fino agli anni del movimento studentesco, quando emerse come riferimento politico e culturale fino al conseguimento 50 anni fa, il 15 dicembre 1972, della legge Marcora sul riconoscimento dell’obiezione di coscienza al servizio militare.

    La sezione sull’obiezione di coscienza è una delle più ricche fra quelle conservate negli archivi del Centro studi Sereno Regis, che a oggi è la biblioteca maggiormente specializzata in Italia sui temi della pace e della nonviolenza. Questa ricchezza non si è esaurita con la prima pubblicazione di Labbate, Un’altra patria, avente respiro nazionale. Restavano numerosi documenti, capaci di restituire un quadro ampio e complesso della storia torinese dell’obiezione di coscienza al servizio militare, particolarmente ricca e importante perché Torino è stata, fra le città italiane, una delle principali protagoniste di questa lotta e dell’elaborazione culturale e politica associata al rifiuto del servizio militare. Parte di questi fondi archivistici è custodita nei locali sotterranei del Centro studi, scavati fra i resti murari e l’abside dell’antica Chiesa dei Santi Simone e Giuda Taddeo, risalente all’XI secolo. Questa pubblicazione è perciò una gioia molteplice: per l’utilizzo di un archivio pazientemente raccolto per decenni in attesa di essere valorizzato; per i soci e collaboratori del Sereno Regis, molti dei quali sono fra i protagonisti del libro le cui basi furono condivise da Giovanni (Nanni) Salio fondatore e presidente del Centro studi per quasi 40 anni; per Torino e i torinesi, infine, che vedono ricostruita una parte finora trascurata della loro storia mai prima raccontata così in dettaglio.

    La memoria collettiva che riemerge da quei cunicoli custoditi sei metri sotto via Garibaldi rimanda a una moltitudine di gesti, azioni, riflessioni di obiettori uomini e donne persuasi delle loro scelte di disobbedienza civile e nonviolenta. Ognuno di loro diede un contributo e ognuno merita un ringraziamento, soprattutto quanti hanno pagato, anche con il carcere, restrizioni della libertà e sanzioni amministrative. Labbate ci aiuta in questa restituzione elevando a passaggio culturale, prima ancora che storico, ogni rumoroso o silenzioso rifiuto di partecipazione all’azione militare e alla sua accettazione e giustificazione, riconoscendo ai protagonisti di allora il primato di una coscienza più avanzata «sempre avanti un passo a noi e [che] noi facevamo fatica a seguire» – come disse Giovanni Montini, papa Paolo VI, di don Primo Mazzolari protagonista indiretto di questo libro – capace di esprimere un disagio fino allora ignorato, divenuto oggi patrimonio morale civile collettivo e universale.

    Secondo le letture correnti, l’epica antica con l’ideale eroico ha originato una tradizione millenaria che pensa la battaglia come evento in grado di generare significati e valori collettivi e che si è tramandata fino a noi, nonostante i migliori sforzi del pensiero novecentesco abbiano chiarito che ogni guerra è guerra civile svuotata di ogni senso e da bollare – con le parole usate da Benedetto XV nel 1917 per la Prima guerra mondiale – come «inutile strage». Troppo sovente sentiamo ancora ripetere che la guerra è insita nel genere umano, indissolubile dalla sua natura, che accompagna l’umanità fin dalle sue origini, mentre il suo racconto è declinato, essenzialmente, come narrazione epica o romanzesca. Chi, per giustificare questa visione cita classici come soprattutto l’Iliade di Omero o La guerra del Peloponneso di Tucidide o trattati strategici sulla condotta di guerra come l’antichissimo Arte della guerra del comandante cinese Sun Tzu o Della guerra del generale prussiano Carl Von Clausewitz potrebbe averne travisato il senso: per usare le parole di Simone Weil, forse «è più facile uccidere, e perfino morire, che porsi alcune domande». Dovrebbe infatti essere chiaro che «il vero eroe, il vero argomento, il vero centro dell’Iliade, – continuava Simone Weil²– è la forza. La forza adoperata dagli uomini, la forza che piega gli uomini, la forza dinanzi alla quale si ritrae la carne degli uomini. L’anima umana vi appare continuamente modificata dai suoi rapporti con la forza: travolta, accecata dalla forza di cui crede di disporre, si curva sotto l’imperio della forza che subisce». Secondo Simone Weil il potere della forza è tale che trasforma gli uomini – vincitori e vinti, indistintamente – in cose, e precisa infatti che: «essa pietrifica diversamente, ma egualmente, le anime di quelli che la subiscono e di quelli che la usano». Questo è il segreto ultimo della guerra, che non si decide fra uomini pensanti che calcolano, combinano, prendono decisioni e le attuano ma tra uomini spogliati delle loro facoltà più umane, caduti al livello di materia inerte che non è altro che passività, «e l’Iliade – prosegue Simone Weil – lo esprime paragonando i guerrieri all’incendio, all’inondazione, al vento, alle bestie feroci, a qualsiasi causa cieca di disastro […] all’acqua, alla sabbia, a tutto ciò che è mosso dalla violenza di forze esterne […]. L’arte della guerra altro non è che l’arte di produrre tali trasmutazioni».

    Queste riflessioni sono attualizzate dalla tragica normalità dei conflitti odierni e da come essi sono raccontati. Soprattutto dopo l’attentato alle torri gemelle di New York del 2001 la guerra non più demistificata è stata nuovamente investita di un significato salvifico, come «forma di violenza positiva che si contrappone alla nuova forma di violenza illimitata che è il terrorismo. – scrive Antonio Scurati³ – E non potendo affrontare il terrorismo sul suo terreno, poiché questo non ha territorialità alcuna, la guerra ha abbandonato il reale per assicurarsi il controllo dei cieli dell’immaginario». L’invasione russa dell’Ucraina del 24 febbraio 2022 conferma lo sviluppo di questo paradigma. Putin e la sua guerra vera sono il nuovo vecchio nemico a cui l’Occidente risponde attingendo ancora una volta a quegli archetipi millenari che si credevano definitivamente sconfitti dalla dialettica del secondo Novecento. Tornano in auge le teorie sviluppate da Michael Walzer, risuscitatore nel 1977 della teoria della guerra giusta sullo stesso solco con cui i teologi cristiani erano riusciti a neutralizzare i precetti nonviolenti e pacifisti dei Vangeli. La teoria morale della guerra aveva cominciato a vacillare nell’epoca degli Stati sovrani ed era stata superata con la Carta delle Nazioni Unite, che vieta la stessa minaccia dell’uso della forza e riconosce il diritto alla legittima difesa solo fino all’intervento del Consiglio di sicurezza. Purtroppo i «buoni argomenti etici della guerra», secondo un’espressione di Jürgen Habermas, tornano a ogni crisi: sono stati utilizzati in favore dell’intervento militare della Nato in Jugoslavia nel 1999 definito addirittura «umanitario» e dopo l’11 settembre 2001 il cortocircuito fra principi morali, presupposti universali e intervento militare si è chiuso. Nel documento sulla sicurezza nazionale del 2002 la Casa Bianca ha affermato che i valori di «libertà, democrazia e libera impresa» sono «veri e giusti per ogni persona, in ogni società» e per difenderli contro terroristi e Stati canaglia «Our best defense is a good offense» (la nostra miglior difesa è una buona offensiva), estendendo il significato di aggressione fino a includervi la minaccia di aggressione giustificando così anche eticamente la legittimità della guerra preventiva.

    Gli ingannevoli sofismi di questa oggettività bellica devono essere familiari anche ai despoti e ai dittatori che nella loro propaganda hanno imparato a presentare le operazioni militari come interventi preventivi contro i genocidi perpetrati dai loro nemici, mentre gli oppositori sono delegittimati – specularmente a quanto fanno i loro avversari – come terroristi, filo-nazisti o traditori. È più proficuo ricordare Norberto Bobbio secondo cui: «La guerra moderna viene a porsi al di fuori di ogni possibile criterio di legittimazione e di legalizzazione, al di là di ogni principio di legittimità e di legalità. Essa è incontrollata e incontrollabile dal diritto, come un terremoto o come una tempesta. Dopo essere stata considerata ora come un mezzo per attuare il diritto (teoria della guerra giusta) ora come oggetto di regolamentazione giuridica (nell’evoluzione dello ius belli), la guerra ritorna ad essere, come nella raffigurazione hobbesiana dello stato di natura, l’antitesi del diritto»⁴.

    La storica Anna Bravo raccolse in un testo sul sangue risparmiato⁵ episodi di lotte nonviolente e disobbedienze moderne commesse da intere popolazioni che riuscirono in alcuni casi perfino a evitare la deflagrazione di conflitti, confutando l’idea che «quando c’è guerra c’è storia e quando c’è pace no». Queste valgono per il nostro tempo, ma sono continue fin dall’antica tradizione occidentale le testimonianze di disobbedienza e ripudio della guerra. Per esempio, la commedia Lisistrata (colei che scioglie gli eserciti) di Aristofane rappresentata per la prima volta ad Atene nel 411 a.C. per raccontare lo sciopero del sesso delle donne di Atene e Sparta unite per porre fine alle guerre del Peloponneso, o Antigone che nella tragedia di Sofocle messa in scena per la prima volta nel 443 a.C. viene murata in una grotta da Creonte re di Tebe, per aver dato sepoltura al fratello Polinice caduto mentre assediava la stessa Tebe in guerra contro il terzo fratello Eteocle. O ancora nel IX canto dell’Iliade il racconto dello smarrimento degli Achei, già pronti con le navi per salpare e muovere guerra a Troia, di fronte alla scomparsa di Ulisse e Achille: il primo, il più astuto dei Greci, conscio dei vent’anni che lo avrebbero tenuto lontano da Itaca, finse la pazzia seminando sabbia sulla spiaggia nel tentativo di non partecipare all’assedio di Troia; il secondo era stato travestito da donna e nascosto presso il re di Sciro, Licomede, dalla madre, la nereide Teti consapevole del destino fatale che lo attendeva come mortale, invulnerabile, tranne che nel tallone.

    Il percorso editoriale del libro è stato accompagnato, in occasione del 50° anniversario della legge Marcora (1972-2022), dai percorsi virtuali e topografici del progetto Signornò! Torino, città protagonista della storia dell’obiezione di coscienza in Italia, costituito dalla costruzione di un archivio digitale sull’obiezione di coscienza – 1.500 documenti e annate di nove riviste antimilitariste e pacifiste disponibili online –, una mostra diffusa nello spazio urbano di Torino sui luoghi che hanno fatto da sfondo alla storia dell’obiezione di coscienza nel capoluogo piemontese e il convegno Preferirei di no. Storia, voci e prospettive dell’obiezione di coscienza al servizio militare tra l’Italia e Torino a cinquant’anni dalla legge 772, svolto al Centro studi il 7 e 8 ottobre 2022.

    Se chi si avvicina a queste pagine avesse idee diverse e reputasse la preparazione della guerra un dovere ineludibile, una colpa il pacifismo e l’obiezione militare un tradimento contro la nazione, consideri almeno che i passati misfatti del disordine antimilitarista qui raccontati rimandano a reati e rei fra i migliori che l’Italia abbia mai visto. Le trame nonviolente, le tattiche del pacifismo, le reclusioni e sofferenze subite e narrate in queste pagine ci sembrano per abnegazione e per significato degne di una nuova epica o almeno di confronto con quella classica il cui senso – sempre secondo Simone Weil – era andato perduto perché «il vero genio della Grecia non è più risorto in questi venti secoli». In questa visione, infatti, il rifiuto della guerra storicamente ricomposto dagli studi di Marco Labbate rappresenta il tentativo umano, la grazia più sublime, di disconoscere la subordinazione dell’anima alla forza, non per il mantenimento dello status quo a profitto dei più forti e dei loro privilegi, né per addormentare le coscienze e soffocare i conflitti reali. «Non si tratta di immobilizzare artificialmente dei rapporti di forza essenzialmente variabili – concludeva Simone Weil – che coloro che soffrono cercheranno sempre di indurre a variare; si tratta di discriminare l’immaginario e il reale, per diminuire i rischi di guerra senza rinunciare alla lotta che è, come diceva Eraclito, la condizione della vita».

    1 Presidente del Centro studi Sereno Regis.

    2 S. Weil, Ne recommençons pas la Guerre de Troie, in Nouveaux Cahiers, nn. 2-3, 1-15 avril 1937, riportata in Id., Il libro del potere, Chiarlettere, Milano, 2016.

    3 A. Scurati, Guerra. Il grande racconto delle armi da Omero ai giorni nostri, Bompiani, Milano, 2022.

    4 N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, il Mulino, Bologna, 1979.

    5 A. Bravo, La conta dei salvati, Laterza, Bari, 2013.

    Prefazione

    di Anna Tonelli

    «Sempre più storici che lavorano su un quadro più grande hanno capito che per molte importanti domande nel loro campo le risposte dovranno essere ricercate negli studi al microscopio di regioni e luoghi particolari» scriveva Willam G. Hoskins più di cinquant’anni fa in English Local History. The past and the future. La citazione è stata recentemente rievocata in un prezioso lavoro su una città di provincia marchigiana, Il Novecento in provincia. Storia di Jesi tra memorie e oblii 1900-1970 di Amoreno Martellini e Barbara Montesi.

    Il libro di Marco Labbate sembra ulteriormente comprovarlo, calando una storia come quella dell’obiezione di coscienza, contenuta nelle dimensioni, ma importante per prospettive ideali e per i risvolti pubblici nella vicenda nazionale dell’Italia, nella storia di una città quale Torino, che ricopre una centralità specifica nelle sue dimensioni culturali e sociali, nonché una vivacità rilevante nelle proposte e nelle frizioni politiche. Una storia dell’obiezione di coscienza e dei movimenti che l’accompagnano si interseca infatti con le lotte per i diritti civili che culminano negli anni Settanta e con le strategie del controllo messe in atto dal Ministero dell’interno, con le diverse declinazioni dell’antimilitarismo che nei gruppi della sinistra extraparlamentare prendono strade diverse, con la violenza di piazza a cui si contrappone una proposta nonviolenta, con i grandi interrogativi delle confessioni cristiane rispetto alla legittimità della guerra.

    Per questo è importante sperimentare come dinamiche che attraversano la storia dell’Italia repubblicana si riverberano nella storia locale. Lo aveva già fatto diversi anni fa Bruna Bocchini Camaiani nel saggio Il dibattito sull’obiezione di coscienza: il laboratorio fiorentino 1961-1966 apparso tra gli atti di un convegno dedicato ai cappellani militari della Società di studi valdesi.

    Il presente lavoro si colloca dentro un filone di ricerca sulla storia del pacifismo che ha nel dipartimento di Dipartimento di Scienze della comunicazione, Studi umanistici e internazionali di Urbino un laboratorio di studi originale e innovativo. Nel 2006 Amoreno Martellini iniziava i suoi numerosi studi su pacifismo e antimilitarismo, pubblicando Fiori nei cannoni: nonviolenza e antimilitarismo nell’Italia del Novecento (Donzelli), ad oggi uno dei testi basilari su questi temi. Sarebbero poi seguiti altri saggi importanti: All’ombra delle altrui rivoluzioni. Parole e icone del Sessantotto (Bruno Mondadori, 2012); Morire di pace. L’eccidio di Kindu nell’Italia del miracolo (il Mulino, 2017). Lo stesso Marco Labbate, nel 2020, traeva dalla sua ricerca di dottorato una ricostruzione storiografica della vicenda dell’obiezione di coscienza in Italia, intitolata Un’altra patria. L’obiezione di coscienza nell’Italia repubblicana (Pacini).

    Il Dipartimento dell’ateneo urbinate ha continuato a investire in questo lavoro, con l’attribuzione di un assegno di ricerca, i cui esiti sono contenuti in questo volume. Ciò non sarebbe stato possibile senza l’appoggio del Centro studi Sereno Regis. E il valore aggiunto si riscontra nel fatto che il libro completa il più ampio progetto Signornò!, elaborato dal Centro studi per il cinquantennale della legge sull’obiezione di coscienza, che ha posto al centro tutti gli strumenti della ricerca storica: la valorizzazione degli archivi attraverso un portale in cui sono stati digitalizzati documenti e periodici, uno strumento prezioso per tutti i ricercatori e quanti vorranno ricavare informazioni importanti sul tema; la divulgazione attraverso una mostra digitale fruibile anche da non specialisti; il confronto tra ricerche storiografiche e piste archivistiche attraverso un convegno di studi. Un modo per declinare la Storia sui molteplici versanti della conoscenza.

    6 Ordinario Storia contemporanea, Dipartimento di Scienze della comunicazione, Studi umanistici e internazionali, Università di Urbino Carlo Bo.

    Non un uomo né un soldo

    Introduzione

    Io non ho conosciuto né il padre né gli zii né i nonni, vite distrutte in un dramma che non hanno né voluto né meritato. Dei parenti sbattuti nel rogo della guerra dagli interessi combinati del fanatismo politico e dei fabbricanti di cannoni ne è tornato uno solo, uno zio che oggi è rinchiuso in un manicomio, poiché nella guerra ha vissuto esperienze terribili che ne hanno alterato l’equilibrio psichico e ancor oggi continua ad essere ossessionato da fantasmi nemici che lo vogliono uccidere. Dopo questi eventi mancavano braccia forti per lavorare la terra e ci toccò la sorte di tante altre famiglie contadine e operaie che subiscono la logica della nostra società classista. Ci trasferimmo a Torino dove io e le mie sorelle incominciammo a lavorare a dodici-quattordici anni¹.

    Il brano è scritto da uno dei protagonisti di questa storia. Si tratta di Giuseppe Marasso, allora giovane professore in un istituto di ragioneria e fondatore, nel 1968, del Corpo europeo della pace. L’ha indirizzata al provveditore agli studi, che ha intentato nei suoi confronti un procedimento disciplinare. Una sera, assieme ad alcuni compagni, aveva vergato sul muro di una chiesa la scritta: «I cappellani militari sono scandalosi». Da qui era venuta la minaccia di una sanzione disciplinare. Al di là dell’episodio, le sue parole ci aiutano a risalire alle radici della lotta per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza: questa nasce dalla sperimentazione del dolore provocato dalla guerra. Poi, soprattutto dopo il Sessantotto, l’obiezione di coscienza diventerà qualcos’altro: lotta di classe, lotta antimilitarista contro un potere avvertito come iniquo e oppressivo. Ma il principio sta qui: nell’orrore che prova una coscienza al pensiero di dare la morte in guerra, nella devastazione vista con gli occhi di un bambino, di un ragazzo, di un adulto, che si amalgamano a letture, ragioni ideologiche o politiche, motivi di fede. Era stato così per i pionieri, la manciata di obiettori di cui si ha notizia durante la Prima guerra mondiale. Avevano rifiutato di imbracciare il fucile, quando il conflitto era iniziato. Allora non possedevano nemmeno un’espressione per denominare il loro gesto, perché lo stesso termine obiezione di coscienza era pressoché sconosciuto. Due venivano dalla provincia di Torino. Uno, Remigio Cuminetti, metalmeccanico, nato nei pressi di Pinerolo, era un testimone di Geova, il gruppo che in assoluto avrebbe dato il contributo più alto, in termini numerici, all’obiezione di coscienza italiana². Il secondo, Alberto Long, avventista di Torre Pellice, avrebbe invece trovato le parole per raccontare la sua vicenda solo molti anni più tardi, in una memoria dattiloscritta dedicata ai nipotini, composta alla fine degli anni Settanta, quando gli obiettori erano ormai riconosciuti dalla legge³.

    Anche nel secondo dopoguerra, il gruppo raccolto attorno al filosofo Aldo Capitini, che propone l’obiezione di coscienza come istanza spirituale, ha lo sguardo rivolto alla carneficina appena vissuta e al timore incombente di un’apocalisse nucleare. Rifiutare il servizio militare è un modo di immaginare un futuro nel quale la guerra possa essere bandita. Quando poi l’obiezione diventa un fatto concreto, pubblico, nella persona di Pietro Pinna, che nel 1949 fornisce all’idea un volto e un corpo, la maturazione di quella scelta prende forma in un giovane che ha trascorso la sua adolescenza nella Ferrara martoriata dalla guerra.

    E il libro comincia qui, esattamente il 30 agosto 1949, quando il Tribunale militare di Torino di corso Montevecchio finisce su tutti i quotidiani nazionali per aver inflitto al giovane obiettore una condanna a dieci mesi di carcere. All’obiezione di coscienza in Italia avevo già dedicato un precedente lavoro⁴, che aveva lo stesso punto di inizio. Questa volta il focus è differente: non si rivolge più a una mobilitazione nazionale, ma ai rapporti che intercorrono tra questa e una significativa realtà locale. La scelta di Torino non è casuale. Rappresenta infatti un punto di convergenza di elementi significativi. È innanzitutto una città dalla notevole vivacità politica e intellettuale: la storia dell’obiezione di coscienza partecipa alla storia delle idee che la attraversa. Al tempo stesso Torino presenta alcuni caratteri peculiari. È stata sede di un tribunale militare e, per questo, inevitabilmente connessa alle condanne di decine di obiettori, in gran parte testimoni di Geova. Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta vede nascere le prime forme aggregative di attivismo attorno all’obiezione di coscienza. A partire dalla seconda metà degli anni Sessanta è contesto di coltura di uno dei gruppi antimilitaristi nonviolenti più attivi e intraprendenti sul territorio nazionale, il Corpo europeo della pace. Nella sua provincia, a Ivrea, si colloca il centro di irradiazione di una mobilitazione cattolica sull’obiezione di coscienza grazie alla figura del vescovo Luigi Bettazzi. Un’altra valle, la val Pellice, è il fulcro della Chiesa valdese che anticipa di diversi anni le aree più progressiste della Chiesa cattolica nel proporre un impegno sul riconoscimento degli obiettori. Tre fogli torinesi diventano spazio di diffusione e confronto circa i temi legati al pacifismo e all’antimilitarismo: L’Incontro, diretto da Bruno Segre, il celebre avvocato degli obiettori, mensile così longevo da giungere fin quasi ai nostri giorni, Satyagraha

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