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Lontano dagli occhi
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E-book172 pagine2 ore

Lontano dagli occhi

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Info su questo ebook

Sola... È così che si sente Isobel Stewart. Soffre di bulimia, i genitori sono assenti e per quanto sia un'allieva modello, non ha amicizie. La sua vita non potrebbe andare peggio, ma quando verrà inserita in un collegio sotto consiglio della nonna materna, penserà di aver toccato il fondo. Eppure la nuova realtà la metterà subito a suo agio, avvicinandola ad alcuni studenti che sembrano nascondere un segreto. Viaggi studio misteriosi, lunghe assenze, chiavi nascoste e dialoghi a mezza voce... Cos'è celato tra le mura di quel collegio? Di chi può davvero fidarsi? Un susseguirsi di episodi che la porteranno alla scoperta della verità: un segreto di cui lei ha sempre fatto parte pur non sapendolo e che forse la coinvolge anche più di tutti gli altri...
LinguaItaliano
Data di uscita10 nov 2017
ISBN9788827515259
Lontano dagli occhi

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    Anteprima del libro

    Lontano dagli occhi - Anna Margheron

    stessa.

    Capitolo 1

    La città scorreva sempre uguale fuori dal finestrino dell'auto, come il remake di un vecchio film. I palazzi grigi, i semafori, le fermate dell'autobus su cui lei non era mai salita. E poi le persone, tanti volti sconosciuti che scordava appena la macchina passava oltre. Isobel sedeva composta e mansueta come sempre, sul sedile posteriore dell'auto di famiglia che serviva ad accompagnarla a scuola. Era silenziosa, ma questa non era una novità, non parlava mai se non aveva qualcosa di interessante da dire. L'autista le diede un'occhiata dallo specchietto retrovisore e la vide assorta nei suoi pensieri, con lo sguardo perso chissà dove fuori dal finestrino. Gli dispiaceva per quella ragazzina che rimaneva quasi sempre da sola. Aveva una figlia della sua stessa età, ma non avrebbero potuto essere più diverse. Isobel appariva... perfetta. Ma a uno sguardo più attento si poteva scorgere la malinconia che velava i suoi occhi ancora troppo giovani.

    Sentendosi osservata incontrò lo sguardo di Ivan nello specchietto e gli sorrise con garbo. Erano quasi arrivati a casa, ancora una svolta a destra al prossimo semaforo e sarebbero giunti al palazzo che alloggiava il suo loft. Quel pomeriggio non aveva programmi, nessun tè a casa di compagne di scuola o gite in centro per comprare i vestiti delle ultime collezioni dei suoi stilisti preferiti, e non aveva nemmeno appuntamento con il suo analista. Sarebbe rimasta a casa. Sperava almeno che i suoi genitori arrivassero in tempo per cena. Detestava sedersi a mangiare al grande tavolo da pranzo da sola, senza nessun altro con cui scambiare anche solo i convenevoli.

    La macchina si arrestò di fronte alla hall del palazzo a dieci piani. Ivan le aprì la portiera e anche se controvoglia, lei scese. Gli rivolse un cenno di saluto ed entrò dirigendosi verso l'ascensore.

    «Buon pomeriggio Signorina Isobel.»

    Si girò verso la sorridente centralinista e le sorrise a sua volta.

    «Buon pomeriggio.»

    Non aveva fretta di rientrare a casa, così si guardò intorno sperando di scorgere qualcuno con cui intrattenersi. Ma a parte qualche uomo in giacca e cravatta che non le prestava la minima attenzione, c'era solo la centralinista che continuava a guardarla un po' incuriosita. A lei non averebbe saputo che cosa dire, non si ricordava neanche il suo nome. Con un sospiro decise di rintanarsi in camera sua, almeno avrebbe potuto togliersi la divisa scolastica. Non che fosse scomoda, anzi era di ottima fattura, era più quello che rappresentava a farle desiderare di non indossarla più.

    Quando si richiuse la porta di casa alle spalle, il rumore riecheggiò tra le pareti dipinte di un bianco accecante e l'alto soffitto. Si tolse la giacca e la lasciò sul divano di pelle color panna. Sua madre aveva un gusto raffinato, ma nell'insieme quell'appartamento sembrava una stanza asettica. Il minimal chic sarà stato anche di moda, ma lei avrebbe preferito una casa più accogliente.

    In quel silenzio innaturale, sentì rimbombare il ticchettio di un paio di tacchi sul marmo del pavimento. Si volse e incontrò lo sguardo di sua madre. Era stupita, non era mai accaduto che tornasse a casa prima di sera, lasciando suo padre solo allo studio legale. Sicuramente c'era qualcosa che non andava, e la sua espressione preoccupata glielo confermava.

    «Tesoro, dobbiamo parlare.»

    Isobel aggrottò le sopracciglia di fronte al tono ansioso della madre, ma non fece domande.

    «Vado a preparare del tè mamma. Arrivo subito.»

    Non era mai stata curiosa in merito alle cose di cui parlava con i suoi genitori. In genere la sua vita era tanto prevedibile da risultare tetramente noiosa. Cosa poteva aver sconvolto tanto sua madre da dover correre a casa, abbandonando il suo amato ufficio?

    Prese le tazze e la teiera con il tè bollente, e mise tutto su un vassoio. Con attenzione lo portò fino al salotto e lo depositò sul basso tavolino laccato di bianco. Voleva prolungare quel momento quanto più a lungo possibile, la curiosità era una sensazione nuova. Versò il tè nelle tazze, si sedette con grazia a circa un metro da sua madre, poi tornò a guardarla negli occhi. Lei la fissava stranita, come se la vedesse per la prima volta.

    «Va tutto bene mamma?»

    Lei scosse la testa un paio di volte. «Ormai non ne sono più sicura.» Si alzò incrociando le braccia, fece qualche passo voltandole le spalle, allontanandosi da lei, poi tornò a puntarle gli occhi addosso. «Ho parlato con il Dottor Hemphrey e mi ha detto tutto.»

    «Tutto cosa mamma?» Affilò lo sguardo, il suo rapporto con gli analisti era un argomento spinoso per lei. «Sai è strano, ricordavo che i medici fossero legati a qualcosa che si chiama segreto professionale.» Sentì una strana quanto familiare contrazione alla bocca dello stomaco, come una sensazione di fastidio, ma la ignorò.

    «Non fare la furba con me Isobel Stewart! Mi ha detto che non ha riscontrato miglioramenti, visto che negli ultimi mesi hai avuto altri... episodi.»

    «Episodi? Davvero li chiami così mamma? Precisamente quale sillaba o lettera della parola 'bulimia' ti riesce così difficile da pronunciare?»

    Sua madre la guardò a bocca aperta, stupita per le parole taglienti della figlia.

    «Ti sembra questo il modo di rivolgerti a tua madre? Vai immediatamente in camera tua e rimanici. Stasera parlerò con tuo padre e troveremo il modo di risolvere la situazione una volta per tutte!»

    «Ma certo!» Si alzò di scatto, aveva quasi urlato ma non se ne pentiva, era troppo infuriata per mantenere anche il minimo contegno. «Discutine pure con papà, tanto solo a voi due è concesso di parlare. L'unica a rimanere sempre tagliata fuori sono io.»

    Non aspettò neanche la sua risposta. Le girò le spalle e corse in camera, seguendo il consiglio di sua madre di rinchiudersi dentro. Si appoggiò con la schiena alla parete liscia e fresca della porta. Aveva il fiatone, le mani gelate con i palmi sudati e lo stomaco le bruciava. Sapeva leggere quello che il suo corpo sembrava urlare. Era nervosa e l'unica cosa che le avrebbe dato consolazione sarebbe stata rimpinzarsi con qualsiasi cosa riuscisse ad afferrare, fino a quando il vuoto che sentiva nel petto, sarebbe stato sostituito dall'eccessiva sazietà. A quel punto sarebbero subentrati i sensi di colpa, si sarebbe chiusa in bagno e avrebbe lasciato scorrere alla massima potenza l'acqua dei rubinetti del lavandino e della vasca, per non sentire i suoi conati. E avrebbe pianto, ovviamente, fino allo sfinimento. Era terribile quello che faceva, aveva paura anche solo a pensarci. Eppure la sua debolezza la faceva sempre cedere.

    Ma quel giorno in casa c'era sua madre, non voleva che assistesse alla sua vulnerabilità. Lei non avrebbe capito, avrebbe solo continuato ad accusarla.

    Cercò di fare respiri profondi nel vano tentativo di regolarizzare il battito del cuore, e prese a camminare nervosamente per la stanza, l'unico ambiente della casa che sembrava essere più accogliente. Le pareti color crema, il grande letto a due piazze ricoperto di cuscini sprimacciati, il tavolino da toilette con i suoi cosmetici. Quelle quattro mura erano state il suo rifugio e la sua prigione, nascondevano al resto del mondo la sua vergogna. Ma almeno lì si sentiva al sicuro.

    Non era sempre stato così, almeno non con la bulimia. Da piccola non aveva mai avuto problemi con il cibo, ma ne aveva sempre avuti con i genitori, troppo impegnati a gestire il lavoro allo studio legale per occuparsi della loro unica figlia. Le avevano dato degli insegnamenti, certo. Una ragazza di buona famiglia doveva sempre apparire dolce, elegante, sofisticata. Sua madre le aveva fatto fare shopping sin dalla più tenera età, insegnandole a scegliere gli abiti più adatti, in modo che successivamente potesse farlo da sola. Le avevano fatto frequentare le scuole private più prestigiose, pretendendo sempre il massimo dei voti. E lei lo aveva fatto. Aveva fatto tutto quello che le avevano chiesto, ma era frustrante non ricevere attenzioni. Sua madre le puntava lo sguardo addosso solo per valutare come le calzassero i vestiti che aveva scelto per un evento. Ma non guardava lei, non lo faceva mai. Le sembrava di essere un manichino messo in vetrina, di cui nessuno si interessa. Suo padre poi le ripeteva in continuazione quanto fosse adorabile, le baciava la fronte, le sorrideva e poi se ne andava, lasciandola indietro. Non le chiedevano mai cosa pensasse. Non si informavano sulla sua vita scolastica, se non per chiedere i suoi voti. Non sapevano nulla di come si svolgesse la sua vita, di quante volte avrebbe voluto urlare nei corridoi della scuola, pieni di adolescenti con cui era cresciuta, ma che non conosceva minimamente.

    Si fermò di fronte allo specchio e vide la sua immagine riflessa. I lucidi capelli castani, i grandi occhi color nocciola, il gloss color pastello sulle labbra e l'odiosa divisa scolastica blu navy, che faceva risaltare ancora di più la carnagione pallida. Esteriormente era come una bambola di porcellana, un arredo da salotto, ma dentro esplodeva. Lo spettro della bulimia aveva iniziato a tormentarla quattro anni prima, a soli dodici anni, conseguenza del disagio esistenziale che viveva ogni giorno. Si sentiva inadeguata, ovunque si trovasse. I suoi genitori se ne accorsero solo un anno più tardi e per una fortuita coincidenza, quando la donna delle pulizie gli riferì di averla sentita vomitare in più occasioni dopo essersi portata in camera una quantità spropositata di cibo. Ovviamente non ne avevano parlato con lei, le avevano solo comunicato di sapere della scomoda situazione e che avrebbero cercato qualcuno che potesse aiutarla, con il loro fare rigido, tipico degli avvocati di successo. Da allora si erano susseguiti quattro specialisti, ma senza alcun progresso. I suoi genitori non capivano che il problema non erano gli psicologi che reputavano scarsamente qualificati, ma l'intera sua vita che si basava sull'apparenza ma era priva di sostanza.

    Si chiese cosa avrebbero fatto adesso. Una cosa scontata: la sera stessa avrebbero contattato qualche altro dottore spuntato chissà dove e per la quinta volta lei avrebbe dovuto parlare dei suoi problemi a uno sconosciuto, senza risolvere mai nulla. Era in trappola, ma non sapeva quanto avrebbe resistito. Ogni essere umano ha un limite di sopportazione. Una volta superato, quale sarebbe stata la sua reazione? Temeva quel giorno, così stringeva i denti e andava avanti, continuando a reggere. Nei suoi interminabili pomeriggi passati a casa, cercava di distrarsi leggendo libri di tutti i generi e autori. Guardava vecchi film, talvolta in bianco e nero, e cercava di non cedere alla tentazione di saccheggiare la dispensa, facendosi del male. Sapeva che era ingiusto, ma pensava di essere lei il problema. Se era l'unica a vivere quella condizione così male, forse c'era qualcosa che non andava dentro di lei. Eppure non le sembrava di chiedere l'impossibile. Desiderava dei genitori che si interessassero veramente alla sua vita, delle amiche vere con cui scambiarsi confidenze reali e non solo l'ultimo paio di Louboutin. Voleva innamorarsi di qualcuno sinceramente, come vedeva fare ai teenagers delle serie televisive. Ma sembrava che tutto questo le fosse precluso.

    Quella sera stessa sua madre la raggiunse nella sua camera. Sembrava invecchiata, con le rughe che le marcavano il viso preoccupato e le spalle curve come se avesse un grosso peso da portarsi dietro. Si sedette sul letto e guardò sua figlia. Per una volta la guardò davvero.

    «Tuo padre è arrivato prima dal lavoro.»

    Isobel era guardinga, le sembrava un po' strana quella situazione.

    «Sì, l'ho sentito arrivare qualche ora fa.»

    «Tesoro ne abbiamo parlato a lungo e pensiamo che un altro analista non risolverebbe comunque il problema. Così abbiamo telefonato alla nonna...»

    La nonna? L'ultima volta che l'aveva vista era stato all'inizio dell'estate. Era passata a salutarla prima di partire per un altro dei suoi folli viaggi, da cui ritornava piena di souvenir per la nipote. Le raccontava dei posti in cui era stata, di musei, castelli o aziende che aveva visitato, dei ristoranti migliori in cui aveva mangiato o degli hotel preferiti in cui alloggiare. Quando la nonna tornava passavano molto tempo insieme e per lei era una boccata di aria fresca, come tornare a respirare dopo essere stata in apnea per mesi. Nel tempo che passava con lei non sentiva mai il bisogno di ingozzarsi.

    Il fatto che fosse stata nominata la nonna, le dava la flebile speranza che forse questa volta sarebbe stato diverso. Ma non riusciva a comprendere l'espressione angosciata di sua madre.

    «Isobel la nonna ha fatto una ricerca accurata e pensa di aver trovato una possibile soluzione a questo problema.» Prese un respiro, quasi stesse cercando la forza per proseguire, rendendola sempre più nervosa. «C'è un collegio molto prestigioso fuori città, che si occupa di ragazzi

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