Le cose che non si devono dire
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Claudia Dalmastri, microbiologa, lavora a Roma come ricercatrice e docente universitaria. Dalle pubblicazioni scientifiche alla rubrica di divulgazione Scrivere Scienza su MagO della Scuola di scrittura Omero, al libro Avanzi c’è pasta! la passione per la scrittura diventa veicolo di emozioni con i racconti; Solo una sciarpa grigia vince il Premio letterario Racconti nella Rete 2017.
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Anteprima del libro
Le cose che non si devono dire - Claudia Dalmastri
Ringraziamenti
I
La prima volta che aveva sognato il tunnel aveva sei anni. La mamma era corsa in camera sua e stringendolo nella sua dolcezza lo aveva fatto riaddormentare. Così, tante volte.
Altre notti, correva lui a cercare quell’abbraccio e lei gli faceva posto nel lettone.
«A dieci anni non si piange, non c’è niente di cui aver paura, non si viene di notte nel lettone, e se scappa la pipì ci si alza e si va a farla in bagno», gli disse il padre categorico, il giorno del suo decimo compleanno.
Quelle parole scorrevano secche e precise nel tunnel scuro della sua mente. Fabio non riusciva a fermarle. Il terrore aumentava, mentre un richiamo incessante lo tirava forte laggiù nel buio, flebili lamenti, parole incomprensibili, e all’improvviso riconobbe la voce lontana di sua madre: ovattata come in sogno. Nella paura del buio si dilatava l’angoscia di non poter fare nulla per lei; aspettava, immobile sotto la pesante coperta di lana ruvida. Ma il bisogno di fare pipì era sempre più urgente. Doveva trovare il coraggio di alzarsi e muoversi nel buio.
«Di notte non si accendono luci per casa», gli aveva detto suo padre. «Non serve», doveva solo ubbidire.
Accompagnato da un lieve fascio di luce che filtrava dalla sua cameretta nel lungo corridoio mentre dalle applique spente il cristallo faceva strani riflessi, passò davanti alla porta chiusa della camera matrimoniale, raggiunse il bagno in tempo per non farsela addosso. La pipì sciacquava via il terrore rilasciando tossine del sogno, ma qualche scoria di paura rimaneva incollata dentro.
Solo l’abbraccio caldo della mamma avrebbe potuto scioglierla, la sua voce calda era dietro quella porta chiusa: Fabio l’ascoltava.
Ora ride, ride piano; ora sospira, sospira forte.
Una risata maschile lo fece sussultare.
È dura, volgare
Spezzava il silenzio della notte e gli bloccava il respiro e le gambe.
La porta si aprì.
«Questa volta papà mi ammazza», pensò Fabio e, già penitente, alzò lo sguardo.
Non è papà, l’uomo, alto, biondo, con un asciugamano intorno ai fianchi. Non è papà l’uomo che socchiude la porta e mi lancia un’occhiata complice. Non è papà l’uomo che con l’indice sulle labbra mi sussurra shh
».
Non è papà l’uomo che entra in bagno e continua a ridere tra sé.
Fabio corse in camera sua e, per la prima volta, si chiuse dentro.
Non riuscì più a dormire quella notte, la lana ruvida della coperta gli grattava addosso e il freddo non passava, e quel silenzio pesava più del buio. Faceva male.
Sentì sbattere la porta di casa, ma era troppo presto perché papà uscisse per andare al lavoro.
Ai primi richiami di luce, Fabio si era alzato e spingendosi assonnato lungo il corridoio, aveva visto sua mamma.
Si strofina addosso a papà e lui le stringe il sedere.
Non si erano accorti di lui – meglio così. Queste loro effusioni gli procuravano un fastidio strano. Ma ora, tra lui e loro, si era insinuato lo sguardo complice dell’uomo alto biondo e sconosciuto e pure quel fastidio faceva male. Fabio, ricacciando indietro il senso di nausea, era andato dritto in cucina e si era seduto al suo posto.
«Fabio, sei già in piedi! Amore mio, che faccetta, stai bene?», disse sua mamma sorridente stringendolo a sé.
Fabio aveva abbandonato la testa nella sua vestaglia leggermente aperta, gli piaceva il calore del suo seno morbido. Poteva dire che si sentiva male, sarebbe rimasto a casa, tutta la giornata con lei.
«Ti ho preparato il ciambellone che ti piace tanto!», gli disse apparecchiando per la colazione.
Poi, un bacio sulla fronte e uno sguardo scrutatore. Fabio lo conosceva bene quello sguardo: sua mamma lo capiva al volo se ci stava provando e faceva finta di stare male, ma qualche volta era lei stessa a fingere per tenerlo a casa con sé.
«Mi sa che stanotte ho fatto un sogno, un po’ strano».
«Ma i sogni sono sempre un po’ strani. Hai avuto paura?».
«No, non credo, o forse…».
Stava per andare avanti, chi c’era quella notte poteva chiederlo a lei, ma il suo sguardo si era rabbuiato, forse ci sono cose che non si possono dire.
«Forse era solo uno stupido sogno…».
Forse.
II
«Ciao, è andata bene a scuola?».
«Sì, tutto bene, c’era il compito di aritmetica».
Gli aveva aperto la porta col suo solito sorriso.
È proprio bella mamma, pure senza trucco e i capelli ancora umidi tirati su, sembra molto più giovane delle altre mamme.
«Bene. Se ti sbrighi a fare i compiti, ce ne andiamo al cinema a vedere quel western nuovo e poi a mangiarci una pizza, ti va?».
«Certo! ma papà?».
«Papà stasera fa tardi, ci sono degli ospiti stranieri».
Ecco, allora forse quello della scorsa notte era uno di loro… domani glielo chiedo.
Al ritorno, la mamma lo aveva accompagnato a letto e coperto per bene, la lana pesante grattava appena ed era bella calda, ancora un bacio ed il sonno arretrato gli era piombato addosso tutto insieme. E il volto sfocato dai denti luccicanti gli si era di nuovo affacciato alla mente, ironico e prepotente, ed era poi svanito rapidamente risucchiato nel buio di un sonno profondo e senza sogni.
L’aveva risvegliato il profumo del caffè, ancora qualche minuto a crogiolarsi nel tepore del suo letto, poi era corso di là. Si era fermato a due passi dalla porta della cucina, stranamente socchiusa a quell’ora. Dallo spiraglio arrivava la voce di suo padre, stava dicendo qualcosa alla mamma.
Pure con lei parla così…
Già, quel tono sdolcinato che usava sempre con lui per convincerlo a fare qualcosa, un attimo prima di arrabbiarsi se non gli obbediva immediatamente.
Mi fa paura quando fa questa voce… sembra che la rabbia non aspetti altro che di saltare fuori.
«Allora in settimana facciamo venire Alan, ok?».
«E com’è questo Alan?».
«Fidati, vedrai che ti piacerà».
Papà ha sempre ragione… La abbraccia stretta, si vogliono bene.
Fabio era entrato in cucina e aveva incrociato lo sguardo di sua madre. E un’ombra inattesa.
Ma la voce forte di suo padre era più forte di tutto.
«Ciao Fabio, salutami, su, al volo che sto uscendo!».
È di buon umore, va tutto bene. Quando torna stasera glielo chiedo chi è Alan. Ma perché poi deve piacere alla mamma?
Gli aveva dato un bel bacio sulla guancia profumata di dopobarba.
III
«Dai, mandalo avanti, passa la palla, ma che fai? Ecco, così, è mia, e vai, vai che non c’è difesa, tiro… gol!».
Da quando suo padre gli aveva portato il Subbuteo dall’Inghilterra, Fabio era impazzito. E pure i suoi amici. Appena finiti i compiti, tutti da lui a giocare su quel campo in miniatura. I pomeriggi a casa di Fabio erano diventati una specie di rito tra i suoi compagni di classe. Organizzava dei turni per accontentare tutti, e quel pomeriggio Marco, il suo amico del cuore, lo stava proprio stracciando.
«Ehi Fabio, continua così e il torneo lo vinco io!».
«Macché, guarda qua che schicchera!».
Finalmente Fabio aveva cominciato ad attaccare sul serio, anche se poi di vincere o perdere non è che gliene importasse molto, quello che contava era che con Marco lui si divertiva un sacco.
Però quel giorno si sentiva un po’ strano, distratto, cercava di prepararsi a mente le domande da fare al padre la sera ma in modo da non fargli perdere tempo.
C’era un uomo la scorsa notte? Ma sì che c’era. Ma chi era? E chi è Alan? Ah, ma è lo stesso dell’altra notte?
Intanto l’attaccante di Marco gli aveva sparato un ricco gol in rete.
«E ti ci alleni pure tutti i giorni! Che pippa che sei!».
Marco voleva godersi il suo momento di gloria, ma per qualche motivo Fabio non rosicava più di tanto, e quel disinteresse diminuiva la soddisfazione, quasi non c’era gusto a vincere così.
Se gli porto io il suo vermut ci rimedio pure qualche patatina e intanto gli chiedo un po’ di cose prima di cena.
Di solito il venerdì papà tornava prima. Ma quel venerdì era arrivato più tardi del solito. L’ora del vermut era passata da un pezzo, c’era solo un piatto coperto con cura ad aspettarlo in cucina insieme alla mamma.
Fabio stava già a letto e quando suo padre si era affacciato in camera sua le parole che con tanta fatica aveva messo in fila gli si erano disperse in testa.
«Tutto bene oggi a scuola? Mi raccomando l’inglese».
Ci tiene tanto, ma se in giro l’inglese non lo parla nessuno…
Un sorriso appena accennato e suo padre se ne era andato di là.
Non ce ne sarebbero state molte altre di occasioni per parlare.
Ma intanto Fabio non riusciva a togliersi dalla testa la faccia dell’uomo biondo e il volto senza contorni né forma di Alan.
E se arriva proprio stanotte? Magari sta di là e io non ne so niente…
Comunque, papà era a casa. Non gli piaceva l’idea che qualcuno potesse arrivare quando lui non c’era.
Con papà, lui e la mamma erano al sicuro.
IV
«Fabio, la maestra mi ha detto che l’altro giorno ti sei addormentato sul banco. Che succede?».
«Mi è venuto sonno».
«Fabio, ti rendi conto che non è normale?».
Non era normale, ma lui quella notte non aveva chiuso occhio.
Ma non era papà e quei denti incredibilmente bianchi scintillavano nel corridoio buio, lì fissi davanti a me.
La voce della maestra veniva da lontano.
«Fabio, ehi, ti senti bene? Fabio!».
Facce indistinguibili intorno a lui, grandi fiocchi bianchi irregolari su un blu sbiadito da tanti lavaggi, i suoi compagni ironici ridacchiavano, la maestra lo fissava severa.
«Allora? Si può sapere che ti è preso?».
Come faceva a dire alla maestra perché non dormiva?
E ora non riusciva a dirlo nemmeno a sua madre.
Continuavo a pensare alla notte passata, e quello strano sorriso dai contorni sfocati mi scendeva dal cervello allo stomaco.
«Mamma, ma il problema poi l’ho fatto!».
«Sì, ma non farmi preoccupare di nuovo. Intanto chiamo il dottore per un controllo».
«Ma sto benissimo».
«Magari un ricostituente, qualche vitamina non può che farti bene. E poi la sera spegni prima la luce e dormi».
«Va bene. Senti mamma, c’è una cosa che volevo domandarti».
Gli tremava un po’ la voce, ma sembrava un momento buono.
«Ma i bambini come nascono?».
«E questo che c’entra con la scuola e col dottore?».
«Niente, è da un po’ che me lo chiedo. Cioè, che fa il papà?».
La mamma si era seduta sulla sedia accanto a lui e aveva cominciato a raccontargli una lunga storia: lei e papà si erano conosciuti, si erano innamorati, stavano tanto vicini e si abbracciavano e poi c’erano certi semini del papà che arrivavano nella pancia della mamma e… lei era rimasta sul vago, leggermente imbarazzata. Fabio non aveva voluto metterla a disagio, poi era squillato il telefono, lei era andata a rispondere e i semini erano rimasti in giro per vie non meglio identificate.
La sera, alle nove e mezza precise, la mamma era venuta a spegnere la luce.
«Niente più richiami dalla maestra. Chiudi Topolino e dormi».
«No dai, sto a metà dei