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Arianna
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E-book296 pagine4 ore

Arianna

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L’autrice nel suo nuovo romanzo ci riporta, anche con il dialetto, nella sua amata terra d’origine: il Veneto.Descrive le bellezze naturali delle colline padovane e l’assenza di identità della città moderna cementificata.I cambiamenti avvenuti nella società negli ultimi quarant’anni.
LinguaItaliano
Data di uscita2 gen 2015
ISBN9788891170262
Arianna

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    Anteprima del libro

    Arianna - Daniela Cibin

    muta.

    Capitolo 1

    La bambina usciva dal cinema insieme alle sue amiche soddisfatta. Primo spettacolo della domenica pomeriggio: Il polpettone mitologico, in voga nei primi anni sessanta, popolato di mostri e draghi dalle tante teste, vinti dal bel eroe muscoloso nel prevedibile lieto fine e vissero insieme felici e contenti era finito.

    Il film le era piaciuto; aveva anche gustato il gelato comperato, nella pausa tra il primo e secondo tempo, dal ragazzo che passava con la cassetta appesa al collo gridando per la sala illuminata: -Caramelle! Gelati! Aranciata…- fra il vociare dei ragazzini che si chiamavano tirandosi addosso di tutto. Bucce di semi di zucca, carte di caramelle e gli stecchi dei Mottarelli.

    Le femmine guardavano un po’ schifate, si sentivano già grandi, fra poco signorine: scuotevano la testa alzando gli occhi al cielo per quel comportamento immaturo dei loro compagni di giochi.

    L’età degli spettatori del primo spettacolo pomeridiano variava dai dieci ai quindici anni. Più tardi sarebbe arrivata l’altra fascia di età, dai quindici ai vent’anni: seduti nel buio quelli che avevano già il primo filarino tentavano di prendere la mano della ragazza seduta accanto. Trovato il coraggio avrebbero circondato le spalle in un abbraccio per attirarla a sé, per un bacio. Forse il primo.

    In quella domenica di primavera inoltrata la bambina era felice: sapeva che ad aspettarla all’uscita del cinema avrebbe trovato i suoi genitori insieme agli zii che fin dal mattino erano loro ospiti.

    Con slancio gioioso corse loro incontro, dopo aver salutato le sue amiche che si affrettavano a tornare a casa. Prese per mano la sorella e la cugina e cominciò a raccontare la storia del film che aveva appena visto, mentre gli adulti si sedevano al tavolo del bar che dava sulla piazza.

    Sentì suo padre dire mentre guardava la moglie:

    -Sei già così abbronzata, così scura mi sembri l’Aida dell’opera.-

    -Orchidea Nera, così la chiama l’uomo del latte.- precisò la bambina d’impulso, orgogliosa per il complimento che veniva rivolto alla sua mamma.

    Immediata, aspra, la madre la sgridò:

    -Taci! Cosa dici, stupida!-

    -Sì, ti chiama così, Orchidea Nera! L’ho sent….-

    Lo schiaffo le arrivò dritto sulla bocca; la fece ammutolire. Il silenzio scese su di loro. Lacrime silenziose le bagnarono le guance, mentre le labbra le tremavano per quello schiaffo inutile che non si meritava e non avrebbe mai più dimenticato.

    Gli adulti ripresero a parlare, apparentemente come se niente fosse successo.

    Lunedì mattina si tornava a scuola. La bambina e il padre, salivano sulla filovia per andare a Mestre: lei a scuola, lui al lavoro. Tutte le mattine partivano e insieme percorrevano un tratto di strada. Quella mattina suo padre era insolitamente serio e muto, prima che lei varcasse il cancello della scuola le disse:

    -Sei grande ormai: devi fare una cosa: torna a casa e oggi quando viene l’uomo del latte gli dici che non venga più.

    Noi il latte andiamo a comperarlo in latteria. Hai capito bene?-

    La bambina lo guardò in silenzio; vide negli occhi del padre un dolore immenso. Il viso del suo papà, sempre dolce e sorridente sembrava diventato di pietra grigia. Allungò una mano, prese e strinse la sua:

    -Papà?- Chiamò timorosa, lui aggiunse:

    -Se vuoi salvare la nostra famiglia devi fare quello che ti ho detto.-

    La bambina annuì, lui la baciò sulla fronte e si allontanò. Lei risalì in filovia: seduta, guardava fuori dal finestrino con occhi ciechi, senza vedere quello che le sfilava davanti, la mente persa in pensieri più grandi di lei. Scesa dalla filovia non sapeva cosa fare.

    Si avviò per la strada che portava alla sua casa ma si fermò prima, dove abitava la sua madrina.

    Abbassò la maniglia e aprì il cancello: il cane l’accolse con il suo festoso abbaiare correndole incontro.

    La santola si affacciò per zittirlo, quando la vide aprì la porta:

    -Cosa fai a casa? Non dovresti essere a scuola?-

    La bambina entrò in cucina e ancora in piedi si mise a piangere: la santola si spaventò vedendola singhiozzare disperata, incapace di rispondere alle sue domande. Le portò un bicchiere d’acqua che le fece bere a piccoli sorsi, poi l’accompagnò in bagno, sempre parlandole a voce bassa. Le bagnò la fronte e i polsi con l’acqua fresca e quando finalmente smise di piangere le chiese il perché di tutta quella disperazione. La bambina le raccontò quello che suo padre le aveva chiesto di fare.

    -Madonna de Dio! Cossa te me disi- esclamò accarezzandole le mani che teneva fra le sue, poi le consigliò:

    -Fatti forza, ubbidisci a tuo padre. Lui sa perché ti ha detto di fare così, altrimenti non te lo avrebbe chiesto. Vai, non piangere più e fai la brava.- Così dicendo l’accompagnò alla porta e rimase a guardarla mentre allontanarsi, i libri sotto braccio, a testa china.

    Arrivata a casa sua madre l’accolse aspra, forse ancora arrabbiata con lei dal giorno prima:

    -Cosa c’è adesso? Stai male?-

    La bambina fece no con la testa, sua madre continuò:

    -Perché sei tornata a casa?.-

    -Mi ha mandato a casa papà. Mi ha detto che devo dire all’uomo del latte che non compriamo più il latte da lui.

    Andremo a comperarlo in latteria.-

    La reazione di sua madre a quelle parole fu:

    -Ma el xe deventà matto!-

    Erano sole in casa: Paolo, il figlio più piccolo era a scuola e sarebbe tornato per l’ora di pranzo.

    La madre approfittò della sua presenza per mandarla ad attendere la sorella all’uscita di scuola per riportarlo a casa.

    A tavola parlava solo lei, raccontava ignara ed innocente, la sua mattinata scolastica, mentre lei rigirava svogliatamente la minestra nel piatto.

    Quando la cucina fu rimessa in ordine la madre accompagnò una riluttante Luisa a letto per il pisolino pomeridiano, incurante delle sue proteste gli diede da sfogliare un libro illustrato e quando lo vide impegnato a guardare le figure andò a parlare con la figlia:

    -Io vado a letto. Arrangiati, dillo tu all’uomo del latte. Se chiede di me digli che non ci sono, che non voglio più parlargli.-

    In quegli anni la periferia di Mestre con i suoi piccoli paesi limitrofi stava allargandosi a macchia d’olio. Le nuove case spuntavano come funghi; senza regole crescevano palazzoni accanto a case con giardino per accogliere i veneziani che, dopo la fine della guerra, erano pronti a traslocare in terraferma, seguiti dagli emigranti del sud attratti dal lavoro che lo sviluppo di Porto Marghera offriva.

    Nella periferia era ancora viva l’abitudine dei bottegai di fornire i clienti porta a porta. Furgoncini, piccoli camion coperti dai teloni e Apecar passavano per le vie per vendere frutta e verdura, pesce, latte, e pane che i garzoni dei fornai in bicicletta, portavano nelle ceste.

    L’uomo del latte arrivava nel pomeriggio. Quel giorno, quando bussò alla loro porta, la bambina uscì richiudendosi l’uscio alle spalle; lui la salutò sorridendo, la bambina a capo chino, guardandosi le scarpe incominciò a parlare. L’ascoltò e quando lei tacque le disse:

    -Va a chiamare la tua mamm……-

    La bambina trovò il coraggio di interromperlo, alzò gli occhi e guardandolo dritto in faccia, risoluta e decisa rispose:

    -No. Mi ha detto che non vuole più parlare con te né vuole più comperare il tuo latte. Se non te ne vai vado a chiamare qualcuno che ti mandi via. Subito.-

    L’uomo del latte rimase fermo davanti alla porta, incerto, un attimo in più: guardò la bambina negli occhi. Vide la determinata fermezza di chi difende la propria casa e famiglia nelle mani chiuse a pugno, le unghie conficcate nei palmi, il corpo teso e rigido verso di lui a sfidarlo.

    Lesse il dolore espresso nelle lacrime che vedeva scendere improvvise sul suo viso. Tentò una carezza, la bambina si ritrasse di scatto appoggiandosi alla porta dietro di lei. L’uomo del latte se ne andò.

    Suo padre tornò e non le chiese niente. Luisa gli corse incontro, lui si chinò per prenderla fra le braccia e baciarla come faceva tutte le sere rientrando dal lavoro.

    Sembrava una sera come tante e non lo era. Si sentiva solo la voce della radio che annunciava le ultime notizie, seguite dalla musica. Nessuno cantava seguendo la canzone di successo. Silenzio.

    A letto, più tardi, la bambina cercò di cogliere un rumore, le voci dei suoi genitori. Nel buio della sua stanza, mentre accanto a lei Luisa già dormiva, con le orecchie tese e gli occhi spalancati aspettava.

    -La mamma non vuol più bene al mio papà?- si chiedeva incredula e sbigottita nel dolore buio che la isolava da tutto.

    Da quel momento e per sempre avrebbe guardato e giudicato con altri occhi sua madre, cercando in lei un gesto, un particolare affettuoso verso il marito che le dimostrasse il contrario, che si era sbagliata.

    La sua pelle cominciò a bruciarle, a tendersi comprimendola, le sembrava di soffocare. Tutto quel calore che sentiva dentro bruciò e seccò la sua pelle che cominciò a frantumarsi, screpolata come vetro e a cadere. L’essere nuovo, più maturo e consapevole, che nacque dopo il primo grande dolore della sua vita giurò a se stesso:

    -Mai farò ai miei figli tanto male.-

    Finalmente il sonno la raggiunse e l’avvolse: i muscoli tesi si rilassarono, la mente si abbandonò al riposo.

    Il mattino seguente si preparò per andare a scuola insieme a suo padre come sempre. Mano nella mano lui non disse una parola, non fece nessun commento, neppure una domanda su quanto era successo il giorno prima. Nessuno ne parlò più. Quella mattina Arianna si era svegliata non più bambina: l’infanzia incosciente e serena l’aveva abbandonata.

    Era germogliata una nuova donna.

    Capitolo 2

    Gli anni erano passati. Dopo un po’ di tempo da quel giorno per lei indimenticabile, suo padre decise di cambiare casa: lasciarono il paese di periferia per andare ad abitare a Mestre.

    Vita nuova, nuove amicizie e abitudini. La casa era più ampia e comoda: dopo il periodo di tempo necessario per ambientarsi, furono contenti della scelta fatta.

    Finita la scuola Arianna trovò lavoro: fu assunta come commessa in un negozio di abbigliamento per signora del centro. La sera, dopo il lavoro, seguiva un corso di taglio e cucito che le avrebbe consentito di adattare a misura con precisione i capi di abbigliamento alle clienti del negozio.

    Aveva diciassette anni: era diventata una ragazza sottile, di media statura con lunghi capelli castani. La frangia metteva in risalto i suoi occhi dorati. A chi non la conosceva poteva apparire fin troppo seria, chiusa: era solo un po’ timida. Con le persone che conosceva, di cui si fidava, era una creatura solare e facile al sorriso.

    Il suo lavoro le piaceva: con le clienti era sempre gentile e disponibile. Non tutte le signore erano facili da accontentare: per acquistare solo un paio di calze c’era la cliente sempre incerta e insoddisfatta, che non sapeva bene quello che voleva e le faceva tirar giù dagli scaffali scatole e scatole, cercando la giusta sfumatura di colore che non trovava mai, poi sospirando si decideva e sceglieva fra quella che aveva visto per prime. Fra le tante c’era quella che entrava decisa, sapendo benissimo ciò che voleva e non accettava consigli, suggeriti con tatto e misura: se ne andava con il suo acquisto sbagliato ma felice e contenta.

    La signora Ines, direttrice del negozio, scoraggiata commentava quando la cliente usciva:

    -Battaglia persa in partenza con clienti come questa. Si vede che a casa hanno specchi de legno. Questa cliente non ci fa buona pubblicità ma viene a fare acquisti tanto spesso...e va bene così.- sospirava.

    Ines era stata la prima ad essere assunta come commessa all’apertura del negozio parecchi anni prima. Con il passare degli anni, le commesse si erano alternate perché c’era chi si sposava e lasciava il lavoro, chi sceglieva di cambiare e fare altro, Ines era rimasta guadagnandosi con la sua capacità la nomina a direttrice.

    Biondo cenere, i capelli raccolti in uno chignon, camicette di seta impeccabili su gonne e pantaloni preferibilmente neri: era minuta e dolce, ma dirigeva il negozio con una fermezza da generale nascosta dietro al sorriso. Sposata e madre non aveva lasciato il lavoro, che la gratificava, per fare la casalinga come la maggioranza delle donne negli anni sessanta.

    Altre due ragazze lavoravano nel negozio: Flora e Linda che svelavano all’ultima arrivata, Arianna, i segreti per diventare una perfetta commessa:

    -Offri sempre alla cliente il capo che ti richiede di due taglie inferiori, poi stupisciti quando la signora ti precisa che quella non è la sua taglia e falle notare che sembra molto più magra. Se insiste confidandoti la sua età tu rispondi che non le credi, che sta scherzando e non la dimostra.- suggeriva Flora sorniona. Linda continuava ridendo:

    -Se si ostinano a volere un colore sbagliato, che non dona al viso e la fa sembrare un pesce lesso tu annuisci, dì alla signora che le mette in risalto il colore degli occhi!-

    Flora era bruna, alta e formosa; vestiva sempre all’ultima moda grazie ai campionari, i nuovi arrivi di stagione che si potevano acquistare a prezzi scontati nel negozio. Era fidanzata con un rappresentante di farmaci e contava di sposarsi presto.

    Linda era una finta rossa per mettere in risalto i suoi bellissimi occhi verdi, due caramelle alla menta. La pelle bianca e perfetta risaltava ancora di più circondata da quel caschetto di capelli. Spiritosa e allegra non aveva ancora scelto un ragazzo fra i suoi numerosi spasimanti.

    Arianna era stata accolta con simpatia da loro, ascoltava i consigli e ne faceva tesoro.

    Fare le pulizie del salotto, ogni domenica mattina, era il compito che sua madre le aveva assegnato: armata dell’aspirapolvere che la sua genitrice odiava Arianna passava e ripassava divano e poltrone. Riordinando la stanza con la fantasia faceva il giro del mondo: i suoi genitori avevano scelto e acquistato quel salotto poco dopo aver traslocato. La stoffa che lo ricopriva aveva disegni orientaleggianti: maharaja con turbante e narghilè sedute a gambe incrociate guardavano sinuose odalische ricoperte da veli ondeggianti. Dal poggiatesta e dai braccioli del divano partivano due curve che le ricordavano i sedili delle carrozze dei treni. Le gambe dorate che le sostenevano sporgevano oblique, simili a quelle del tavolino di cristallo appoggiato al centro del tappeto a fiori che riportava alla mente la Cina.

    Appesi al muro, chiusi nelle cornici di gesso, in un interminabile balletto, le danzatrici africane a seno nudo con gonnellino di paglia mossa nel movimento ritmico del tam tam di tamburo dei suonatori con le piume in testa.

    Per completare il giro del mondo in ottanta passi sul tavolino di cristallo facevano bella mostra ceramiche di Bassano e animaletti in vetro di Murano.

    A lavoro finito doveva stirare i pantaloni con la piega perfetta, a piombo, che suo padre avrebbe indossato il giorno seguente. Quei pantaloni che, seduto in ufficio per ore, perdevano presto la piega e diventavano lucidi sul fondo schiena, dove strusciavano sul legno della sedia. Per togliere quel lucido Arianna usava delle pezze bianche bagnate che a contatto con il calore del ferro da stiro evaporavano: il vapore caldo arrossava il suo viso dalla pelle sensibile e delicata.

    Nel pomeriggio del giorno di festa aveva il permesso di uscire per andare al cinema con le amiche o per ritrovarsi nei festini da ballo che in quegli anni si organizzavano nelle case, a condizione che rientrasse puntualmente per l’ora di cena.

    I ragazzi che già lavoravano erano proprietari di Vespe e moto: d’estate in compagnia giravano per i paesi vicini alla ricerca di feste e fiere. Le automobili erano poche: i genitori gelosi le prestavano raramente ai figli, fra mille raccomandazioni e paure di vederle tornare ammaccate, con la vernice rovinata, supponendo che i ragazzi facessero pazzie tipo gioventù bruciata. Diventarono di moda i jeans, le magliette colorate e attillate, le ballerine e i giubbotti di pelle.

    La sera dopo la chiusura del negozio, Arianna e Linda percorrevano insieme la piazza di Mestre per poi salutarsi vicino alla chiesa e divedersi per tornare a casa. Una sera di primavera un improvviso acquazzone le fece correre per ripararsi sotto i portici, vicino alla famosa gelateria.

    Nuvoloni neri, minacciosi, correvano nello stretto sprazzo di cielo che si intravedeva alzando lo sguardo. Le tovaglie colorate che coprivano i tavolini dei bar si muovevano alle folate di vento come fazzoletti mossi da mani invisibili per salutare. Le piante esposte all’aperto dal fiorista accanto alla chiesa venivano ritirate frettolosamente e riportate all’interno, prima che le foglie e i fiori venissero danneggiati o i vasi rovesciati. La violenza della pioggia fece apparire subitanee pozzanghere dove i colombi incuranti di bagnarsi, andavano a bere. La gente che si era riparata dall’acqua sotto i portici, chi ridendo chi brontolando, commentava l’improvviso temporale:

    -Non ci sono più le primavere di una volta!- esclamò un anziano passandosi sulla testa, pelata e lucida, il fazzoletto che aveva tolto dalla tasca.

    -Sarà colpa de tutte ste bombe- rincarò un altro facendo l’occhietto al vicino, sapendo di innestare una miccia per parlare di politica, della guerra del Vietnam. Così lontana che non sembrava vera né ci riguardasse: si ascoltavano le notizie, si guardavano le immagini come in un film. In mezzo a tutte quelle voci Arianna e Linda, senza ombrello, aspettavano che smettesse di piovere quando le avvicinò un giovanotto che abbracciò Linda e le salutò ridendo:

    -Ciao, non avete l’ombrello?-

    -Che stupido! Solo mio fratello può fare una domanda così.- disse Linda facendo una smorfia:

    -Ti presento mio fratello Flavio, il genio di famiglia. Lei è Arianna, la mia nuova collega.-

    -Potevi dirmelo prima che avevi una collega così carina- e aggiunse rivolto ad Arianna – non mi dice mai niente. Dov’è il rispetto dovuto al fratello maggiore?-

    I due continuarono a punzecchiarsi scherzando: Arianna li guardava divertita. I due fratelli non si somigliavano per niente: Flavio era alto magro e moro, forse per l’eccessiva magrezza un po’ curvo. Aspettando che spiovesse chiacchierarono piacevolmente: quando si salutarono cadevano le ultime gocce. Sull’asfalto lucido e lavato si riflettevano le luci dei lampioni accesi nell’attimo in cui Arianna si mise a correre verso casa, in ritardo.

    Dopo quella sera, all’uscita del negozio trovavano spesso Flavio che, fingendo di passare per caso, coglieva l’occasione per unirsi a loro. Sorprendendo la sorella invitò Arianna a prendere un gelato in loro compagnia il sabato sera dopo cena:

    -Vedrai, ti presenteremo i nostri amici, tutti ragazzi simpatici, mangeremo il gelato in piazza, poi si andrà al cinema o a ballare.-

    -Per un gelato va bene, ma i miei genitori pretendono che rientri per le dieci e mezza- li informò Arianna.

    -Dieci e mezza di sabato sera?!- esclamò Linda.

    -Tu puoi fare tardi perché sei con me, altrimenti….- le rispose Flavio, poi rivolgendosi ad Arianna –Vada per il gelato e rassicura i tuoi che ti riaccompagnerà a casa il fratello maggiore della tua amica.-

    Seguirono altri inviti, altri incontri sempre in compagnia dei loro amici.

    Alla fine di giugno era il compleanno di Linda, avrebbe festeggiato i suoi vent’anni con una festa all’aperto nel giardino davanti casa: fu invitata anche Arianna.

    Flavio si presentò ai suoi genitori per rassicurali che l’avrebbe riaccompagnata a mezzanotte, come Cenerentola.

    Il cancello era spalancato: fra le piante i lampioncini illuminati e le candele sparse qua e là, rendevano l’atmosfera suggestiva. Appoggiati al muro, per lasciare libero lo spiazzo a mattonelle dove poter ballare, due tavoli ricoperti da tovaglie bianche offrivano agli ospiti bibite, tramezzini e dolci in attesa della torta e dello spumante. Sul davanzale di una finestra aperta avevano messo il giradischi: la musica di scandalo al sole saliva fino alle piante, si allungava negli angoli bui.

    Linda corse incontro ad Arianna tutta eccitata, bella nel suo vestito leggero dello stesso colore dei suoi occhi. La prese per mano per presentarla a tutti:

    -Per chi ancora non la conosce lei è Arianna- e la trascinò nella sua stanza per raccontarle di Dino, la sua ultima conquista:

    -Deve ancora arrivare, chissà cosa mi regalerà? Te lo presento, poi mi dirai cosa ne pensi.-

    Arianna aprì la borsetta e le porse il suo regalo: Linda la baciò sulle guance dicendo:

    -Li apro tutti insieme più tardi, i regali.- e tornarono all’aperto.

    Era una bella festa, Arianna si stava divertendo; improvvisamente provò la sensazione di essere osservata.

    Stava ballando con Flavio e cominciava a sentirsi a disagio quando vide, sotto la tettoia ricoperta di edera dov’erano parcheggiati motorini e biciclette, vagare una lucciola rossa. Osservò meglio: non era una lucciola ma la brace di una sigaretta. C’era qualcuno appoggiato alla parete ricoperta di foglie; nel buio si intravedeva solo il biancore della camicia e l’ardere della sigaretta.

    -C’è qualcuno, o mi sbaglio, vicino all’edera?- chiese a Flavio continuando a ballare. Lui si girò per guardare:

    -Sembra Marco, mio cugino. Non l’hai ancora conosciuto?-

    Arianna scosse la testa in segno di diniego.

    Finito il disco Flavio la prese per mano e si avviarono verso il cugino nascosto nell’ombra:

    -Marco- chiamò -esci dall’ombra, come Lazzaro risorto.-

    Come sempre cercava la frase scherzosa per divertire i presenti. Dal buio emerse quello che avrebbe potuto essere

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