Sarà mica per sempre
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Anteprima del libro
Sarà mica per sempre - Manuela Leonessa
Maino.
UNO
In mutande e canottiera, Emma, trattenne il fiato per chiudere la cerniera dei jeans. Si espose allo specchio, davanti e di profilo, senza tirare in dentro la pancia. A che pro barare, la pancia c’era e non era occultandola che sarebbe sparita. Aveva bisogno di una dieta, di un progetto mai più trippa
, perché così non poteva andare avanti.
Così, con quel corpo tondo e bianco come una mozzarella, e quel cespuglio aggrovigliato al posto dei capelli, che per dipingerla ci sarebbe voluto l’Arcimboldo.
Raccolse i capelli e cercò di nasconderli con una coda, ma rinunciò al primo tentativo e voltò la schiena allo specchio. Per quel giorno aveva visto abbastanza.
Scoraggiata uscì dalla camera, per compilare la lista della spesa.
Arrivata al supermercato di Venaria boccheggiò avvilita alla vista della ressa. Le auto in processione entravano e uscivano dal parcheggio senza soluzione di continuità e la massa di gente che si avvicendava nel magazzino era costante e compatta. Emma rivolse un pensiero lubrico alla spesa per corrispondenza mentre si mescolava alla folla acquirente.
Lista in una mano e carrello nell’altra si infilò rapidamente nella prima corsia utile: pasta corta, farina e certosa. Non trovò l’olio di semi di mais e optò per quello di colza. Qualcuno le aveva detto che era cancerogeno ma se fosse rimasta lì troppo a lungo sarebbe morta comunque. Crema idratante, spugne per i piatti e ammorbidente.
Si affrettò alle casse poco meno di venti minuti da quando era entrata, ma dopo i primi secondi di coda si accorse di non aver preso la carta igienica.
La carta igienica appartiene a un momento assolutamente marginale dell’esistenza, ma farne a meno complica la faccenda, però l’idea di abbandonare la coda per andare a recuperarla non la sfiorò neanche per un attimo. Emma cominciò invece a guardarsi intorno, tanto per capire quante persone avessero a cuore i dettagli più intimi della propria vita e nella fila accanto alla propria notò un carrello contenente ben due confezioni di carta igienica, di marca, da dieci rotoli. Guardò con invidia il proprietario ed ebbe un tuffo al cuore.
Lei conosceva quel viso. Quella signora, piena di morbida carta igienica a tre strati nel carrello, era la mamma di Alice.
Distolse in fretta lo sguardo dal volto della donna sperando che non si accorgesse di lei e rapida uscì dalla coda per infilarsi nella corsia Igiene e WC. Una volta al riparo Emma respirò sollevata.
Alice. Non aveva mai smesso di pensare a lei.
DUE
Con aria vagamente scontenta, Barbara, attraversò rapidamente corso Brunelleschi. Da un po’ di tempo la vita era poco gratificante con lei. Usciva da casa senza poter salutare il piccolo, ancora addormentato, faceva un lavoro che, per carità non si disprezza nulla, ma era un fallimento professionale. Era e soprattutto si sentiva un’immigrata priva di aspettative per il futuro.
Fosse stata da sola non se ne sarebbe preoccupata, era in grado di sopportare tutto, o almeno le piaceva crederlo. Però c’era Filippo, il suo cuoricino, il suo tenero cucciolo di 24 mesi. Pensò alla gioia del suo batuffolo quando a fine giornata lei tornava a casa, ai suoi passetti di corsa e a quelle braccine spalancate, pensò a quanta fiducia avesse in lei. Com’era possibile amare tanto una persona?
Tornò con la memoria al giorno della nascita di suo figlio. Quel giorno non era stato il più bello della sua vita.
Era arrivata in ospedale accompagnata dalla madre. Le contrazioni incalzavano. Ogni dieci minuti ondate dolorose la investivano con crampi spaventosi. Era peggio della peggiore dissenteria mai sofferta. E non c’era modo di alleviare quel dolore. In sala travaglio un’ostetrica decisa l’aveva rassicurata dicendole che tutto sarebbe andato bene se si fosse ricordata di respirare ritmicamente, di trovare una posizione comoda, di rilassare i muscoli, di mantenersi calma e se avesse smesso, diamine, di contorcersi come un lombrico sbrindellato.
L’idea di lasciarla soffrire in santa pace non era stata contemplata. Comunque non era stata la sofferenza a tormentarla ma il fatto di essere l’unica donna single di tutto il reparto maternità.
Tutte le travagliate avevano il marito accanto. Mariti che tenevano la futura puerpera per mano, che le scostavano ciocche di capelli zuppi dal viso congestionato. Mariti dallo sguardo innamorato, presenza maschia, forte, rassicurante. Coppie che respiravano al ritmo di un solo polmone, uomini che, con piglio virile, guidavano la moglie lungo i meandri dolorosi del travaglio.
Ad accompagnare lei non c’era stato nessun marito: assenza ingombrante, marchio di vergogna, difetto rivelatore di condizione illegittima. E lei, per il primo giorno di vita di suo figlio, avrebbe voluto qualcosa di meglio che una impietosa esposizione al pubblico rimprovero.
Non le piaceva l’idea che un giorno avrebbe dovuto raccontare a suo figlio chi era, come era nato e perché avevano lasciato la Germania per venire in Italia a fare la miseria.
L’angoscia arrivò, prevista, come tutte le volte che Barbara si poneva quella domanda e lei affrettò il passo per lasciarsela alle spalle. Era ancora presto per pensarci, lui era talmente piccolo.
Arrivò all’ampio portone con scalinata in marmo e attraversò l’atrio rigoglioso di piante poste in vasi grossi come appartamenti. Entrò nell’ascensore tappezzato di rosso cardinale e salì al quinto piano.
Sono arrivata!
percepì subito l’atmosfera tesa, e difatti nessuno le rispose.
Barbara esitò. D’accordo, era solo la donna delle pulizie ma almeno avrebbero potuto salutare. D’altro canto si sentiva nell’aria un odore di conflitto familiare nel quale lei non c’entrava niente. Non era la sua famiglia quella, e improvvisamente si sentì un’intrusa.
Non era nemmeno il lavoro che avrebbe voluto fare, quasi quasi se ne tornava a casa.
Si avviò invece verso la cucina e per poco non si scontrò con Ambra, la figlia diciannovenne di casa, che ne stava uscendo furiosa.
Sono stufa di essere trattata come una poppante, guardami, esco per la prima volta con il mio fidanzato e lei pretende che indossi questa, questa, ma guardami
ripeté sembro il giorno della Prima Comunione!
La camicetta denigrata da Ambra era bianca e carica di volant. Una camicetta che a Barbara piacque molto.
Se il mio parere conta qualcosa, la tua camicetta è bella.
Davvero?
chiese Ambra sorpresa. Beh, io me la cambio lo stesso.
Barbara sorrideva ancora quando entrò in cucina dove trovò la signora Livia che l’aspettava. Aveva l’aria sofferente. Del resto veramente allegra, Barbara, non l’aveva vista mai.
Buongiorno Barbara, l’ho sentita parlare con Ambra.
Di fronte a quell’espressione addolorata lei cancellò il sorriso dal viso.
Deve essere molto emozionata, per lei sarà una serata importante.
Sì, presumo di sì.
Livia cominciò a spostare i bicchieri nel lavello, ma senza avere realmente intenzione di metterli a posto, in fondo quello era compito della domestica. Lei ha figli, Barbara?
Sì, un bambino di due anni, Filippo.
È ancora presto per la fidanzata.
E così in due parole Livia l’aveva sistemata: non può capire cosa sto provando io in questo momento, perciò non s’immischi. Ah, a proposito, quando ha finito qua, ci sarebbero da togliere le tende in sala, temo che per noi oggi sarà una giornata campale.
Stirò le labbra in un freddo sorriso e uscì dalla cucina lasciando Barbara sola di fronte agli avanzi della colazione.
Per noi?
mormorò quest’ultima sentendosi già stanca alle nove del mattino.
Era a servizio presso la famiglia Brianza da quattro mesi. Non sapeva molto di loro: il marito era un ingegnere affermato, piccolo, dalla muscolatura nervosa, con un viso dall’espressione gentile, che a casa non si vedeva mai. La moglie, Livia, architetto presso lo studio del proprio padre, andava a lavorare quando ne aveva voglia. Avevano perso una figlia poco più che ventenne da poco. Infine c’era Ambra, la secondogenita. Graziosa e minuta come il padre, era iscritta da un anno presso la Facoltà di matematica.
Barbara non poteva lamentarsi di quella famiglia. I datori di lavoro erano gentili, educati, ma la trattavano come una cameriera. E, se l’evidenza dava loro ragione, Barbara trovava riduttivo essere trattata al pari o poco più di una aspirapolvere, così il suo amor proprio ne soffriva.
Con Ambra era stato diverso fin da subito. Probabilmente la madre le aveva spiegato come si tratta con il personale e lei, con altrettanta probabilità, aveva deciso di fare a modo suo. Ne era nato un rapporto disinvolto fatto di complicità e senso dell’umorismo.
Barbara stava rassettando la camera della ragazza quando se la vide di fronte con un paio di jeans logori, una maglietta poco più ampia di un reggiseno e truccata come il fondale del Mar Rosso.
Beh?, come ti sembro?
La ragazza si voltò per mostrare due ampi strappi nei jeans all’altezza delle natiche.
Quasi nuda.
No, ma dico, hai notato le mutande?
Si trattava di minuscoli slip giallo limone con disegnate piccole api posate su margherite. Barbara le contemplò con interesse, apprezzando i progressi dell’intimo nel campo della comunicazione non verbale, e concludendo: Serata da messaggi in codice.
Ambra la guardò perplessa e Barbara chiarì: "Un Benvenuto stampato sulle mutande sarebbe stato più chiaro."
Ma cosa stai dicendo?
Barbara incrociò le braccia riservandosi qualche secondo per studiare la ragazza seriamente. Le api, i fiori. La mamma non ti ha spiegato niente?
Ambra allargò le mani chiedendo in tono arrogante. E allora?
Fantastico.
Una volta c’erano i film di Tarzan che spiegavano alle fanciulle inesperte che compito delle Jane era quello di scappare e quello dei Tarzan di inseguirle al volo da liana a liana. Il segreto stava nella velocità, correre abbastanza veloce da risultare credibile ma non troppo per potersi far acchiappare. Meglio ancora se ci si perdeva nella foresta così da trasformare il ratto in salvataggio.
Ambra, evidentemente, apparteneva a una generazione di foreste disboscate dove era impossibile tanto perdersi quanto trovare una liana. Per non parlare dei Tarzan.
Generazione fornita di tutta una serie di strumenti di comunicazione tanto potenti quanto sottovalutati. Prendiamo quelle benedette mutande, a tutto potevano servire fuorché da barriera protettiva. E la fanciulla non sapeva far altro che chiedere: E allora? Con quel tono poi. Qualcuno doveva pur tentare di spiegarle qualche cosa. Come si chiama il tuo fidanzato?
Paolo.
Barbara si sedette sul letto della ragazza ancora da rifare e le fece cenno di sedersi accanto a lei sussurrando Solo due minuti
occhieggiando verso la porta come per farle capire che mamma Livia non avrebbe approvato. Ed è bello?
Ambra sorrise abbassando gli occhi.
Lo sapevo
sorrise Barbara intenerita ne ero sicura, del resto anche tu sei uno schianto. Con quelle mutandine poi.
Mi prendi in giro?
No, no, dico sul serio, comunque sei una splendida ragazza anche senza.
Senza le mutandine?
Barbara spalancò gli occhi fingendosi scandalizzata, ma Ambra divenne seria.
Quando ero piccola il nonno mi diceva che un giorno, per me, sarebbe arrivato il Principe Azzurro.
Barbara attese in silenzio che Ambra continuasse.
Ho sempre sognato il Principe Azzurro, arriva, mi adora, mi sposa. Bon, viviamo felici e contenti.
Barbara le sorrise.
Solo che…
Solo che?
Ambra cominciò ad attorcigliare un angolo del lenzuolo del letto disfatto. Solo che la fiaba non spiega cosa fanno Biancaneve e il principe una volta rimasti soli.
La cosa ti spaventa?
È una parola così all’antica.
Quale?
Vergine. A diciannove anni, poi!
Ti vergogni di non avere mai avuto un ragazzo?
Ma certo che di ragazzi ne ho. Quanti ne voglio, solo che non ci vado a letto.
Un bel problema da confessare.
Tu dici?
chiese la ragazza afflitta.
Barbara si accorse che stavano parlando già da un bel po’, si rendeva conto che avrebbe dovuto interrompere la conversazione e riprendere i lavori, ma le dispiaceva lasciare Ambra così demoralizzata. Improvvisamente, Livia bussò alla porta della camera della figlia.
Ambra? Io esco per un paio d’ore.
Okay!
Bene, il tempo non sarebbe stato più un problema. Barbara rimase un attimo a riflettere con la testa lievemente inclinata, poi chiese: Prova a ricordarti quando eri piccola, cosa facevi quando volevi una cosa. No, meglio
si corresse quando i tuoi volevano qualcosa da te e tu non eri d’accordo.
Facevo casino e bon.
Prova a raccontarmi un episodio, ne ricordi qualcuno?
Ambra si concentrò in silenzio per qualche secondo poi sorridendo chiese: Sai andare in bici, Barbara?
Sì, più o meno come gli altri.
A cinque anni mi hanno regalato una bici incredibile. Tutta bianca e rosa, con il cestino e la bottiglietta per l’acqua. Me la invidiavano tutti. Io avevo da poco tolto le rotelle ed ero ancora piuttosto insicura, hai presente?
Certo.
Un giorno sono uscita con mamma e Alice e ho voluto portare la bici. La mamma non era proprio contenta, per lei era più comodo avermi per mano ma io ho insistito tanto.
Barbara annuì, difficile non essere solidali con la madre.
La mamma e Alice camminavano vicine e io correvo avanti con la bicicletta. La mamma continuava a dire: vai piano, non ti allontanare, stai qui, e di nuovo vai piano. Ma come si fa ad andare piano quando hai appena tolto le rotelle?
Barbara sollevò le sopracciglia comprensiva.
Insomma, due palle. Ma le mamme sono fatte per rompere.
Ambra!
la apostrofò Barbara offesa nella categoria.
Tu sei madre da poco e non puoi capire
tagliò corto la ragazza. Così la mamma mi ha detto che se non riuscivo ad andare piano era meglio che andassi a piedi, e mi ha intimato di scendere. Ma secondo te
indagò è logico permettere a una bambina di usare la bici e poi costringerla ad andare piano?
Non saprei
mormorò Barbara, che se avesse potuto alla bici di Filippo avrebbe tolto anche le ruote.
Ma è come chiedere a un tizio di tagliare la barba a tutti quelli che non se la tagliano da soli e poi incriminarlo perché si è tagliato la propria. È la stessa cosa.
È che noi ci preoccupiamo.
Certo. E se io chiedo a un tizio di tagliare la barba a tutti quelli che non se la tagliano da soli
ripeté Ambra convinta che Barbara non avesse capito niente se lui si rade la propria disobbedisce perché taglia la barba a se stesso e non doveva, perché lui non può tagliare la barba a uno che se la taglia da solo. Se non se la taglia sbaglia ugualmente perché avrebbe dovuto tagliarsela visto che è uno di quelli che non si taglia la barba da solo. Chiaro, no?
Per niente
confessò Barbara ma direi che è un paradosso.
Sì, l’ho studiato a scuola. Ed è un paradosso anche il mio.
Anche tu ti fai la barba da sola?
indagò Barbara avvicinandosi per osservarle il mento. Ottimo rasoio
concluse dopo l’esame ravvicinato.
Mi sa che dovrei farla anche a te, hai un po’ troppa pelurietta qua
indicandole la zona dei baffi.
E cosa mi dici di quella barba di tua madre?
Già, mia madre. Lei se la fa fare dalla parrucchiera. Un ottimo lavoro, però ogni tanto qualche pelo incarnisce, e questo la rende dispettosa.
E così?
E così impedisce alle bimbe di andare in bici come si deve.
Giusto. E poi che succede?
E poi
Ambra tornò seria provando a rievocare la giornata di tanti anni prima la bambina si mette a frignare. Protesta. Non le va di portarsi in giro la bici a mano, ma i peli incarniti quella volta sono particolarmente fastidiosi e la mamma non cede di un millimetro.
Provare con una crema?
propose Barbara.
Meglio le sorelle maggiori.
A estirpare i peli?
No, a convincere le madri incarnite.
Cosa ha fatto tua sorella?
volle sapere Barbara
"Le ha detto, non rompere mamma. No, scherzo sghignazzò Ambra.
Le ha promesso che mi avrebbe guardato lei, perché ero tanto contenta e sarebbe stato un peccato farmi smettere."
Ha estirpato il pelo
concluse Barbara.
Magnificamente.
Alice.
Era stata una sorella meravigliosa e le mancava davvero. A volte un po’ meno. A volte riusciva quasi a credere che fosse solo fuori casa e prima o poi sarebbe tornata. Ma quando le mancava, le mancava tutto di lei: il suo affetto, il suo sostegno, il suo odore, la sua voce. In quei momenti le sarebbe piaciuto rivederla. Anche una volta sola.
Perché mi hai fatto raccontare questa storia?
chiese dopo un lungo momento di silenzio.
Barbara arricciò le labbra riflettendo. Aveva perso il segno e ci mise un attimo a ritrovarlo.
Tua madre voleva da te una cosa e tu ne volevi un’altra. È stato semplice, no?
Semplice cosa?
chiese Ambra continuando a non capire.
Tu pensi che Paolo si aspetti qualcosa da te stasera?
le chiese a sua volta Barbara posando una mano sul ginocchio della ragazza. Era più forte di lei, amava il contatto fisico, per lei era un elemento imprescindibile della comunicazione, e comunque sapeva che ad Ambra non dava fastidio. Non rispondermi. Non voglio sapere la risposta, ti chiedo solo di riflettere.
Ambra la guardò attenta, incrociando le mani e aspettando il seguito.
Tu cosa vuoi che accada stasera?
Ambra arrossì lievemente e Barbara la stoppò nuovamente. Neanche questo voglio sapere
la rassicurò. Voglio solo che ti sia chiaro che non importa quanti anni hai, non importa che idea si è fatto Paolo di te, e non importa neanche cosa possano pensare di te i tuoi e le tue amiche. Importa solo ciò che tu vuoi e ciò che non vuoi fare.
Barbara aveva levato la mano dal ginocchio della ragazza per sottolineare le parole con gesti misurati. Quella volta, quando eri bambina, tu volevi andare in bici e volevi andare veloce, giusto?
Ambra la osservava attenta.
Stavolta puoi rispondere.
La ragazza sbatté gli occhi sentendosi colta in fallo e mormorò Sì.
E ci sei riuscita, no? Magari tua madre aveva ragione, magari sarebbe stato più prudente stare vicino a lei e non correre troppo.
Barbara sospirò, solidarizzando silenziosamente con la madre. E il suo Filippo era pure un maschietto, sicuramente più agitato e spericolato di una femminuccia. Ma l’onestà intellettuale le imponeva di continuare e al punto in cui era, senza carriera senza patria e senza opportunità per il futuro, era l’unica cosa che le rimanesse. Che fregatura.
Ma per te contava soprattutto quello che volevi tu. Giusto?
Non sapendo se stavolta dovesse rispondere o no, Ambra si limitò a un cenno di assenso con la testa, che a Barbara sembrò bastare.
E così dovrà essere stasera
concluse, poi guardò Ambra negli occhi per indovinare i suoi pensieri. La ragazza ricambiò lo sguardo. Sembrava convinta ma perplessa, titubante.
Ma quella volta c’era Alice ad aiutarmi.
Barbara la guardò con un sorriso dolce e le posò di nuovo la mano sul ginocchio, questa volta premendola delicatamente ma con fermezza. Così, per farle sentire che non era sola. Ci sarà anche stasera.
TRE
Spalancò gli occhi nel buio.
Conosceva bene il momento del risveglio.
Del risveglio brusco. Quello con la bocca impastata e la testa vuota. Vuota come una cornamusa finite le feste di Natale che annaspa per recuperare qualche idea con cui riempirsi. Lo smarrimento per qualche secondo è totale. Idee niente, peggio di un comizio elettorale.
La confusione durò quanto doveva durare, poi Savana ricordò di essere nel proprio letto, di fronte c’era la finestra: vedeva le fessure della tapparella, e di fianco doveva esserci il comodino con la lampada. Allungò il braccio per accenderla. La stanza si rischiarò lievemente e Savana si sentì subito meno spaesata.
Ma c’era l’incubo. Sempre lo stesso. Erano mesi che lo sognava e alcuni particolari erano ormai impressi nella sua memoria: c’era una ragazza sola seduta in un’auto, aveva il capo reclinato sul sedile e gli occhi chiusi. I capelli bagnati e appiccicati al viso. Sembrava stesse dormendo.
L’aria nell’auto era densa di fumo grigio, e Savana sapeva benissimo che la giovane non stava dormendo.
La ragazza era strana: un misto di se stessa e di qualcun’altra, non riusciva a identificare quel qualcun’altra, era sicura di conoscerla o di averla conosciuta un tempo, e Savana sapeva che era importante ricordare chi fosse.
Incontrare la mamma di Alice non era stata una buona cosa per Emma, le aveva anzi lasciato la smania di recuperare un contatto con l’amica perduta. Di fare qualcosa, qualunque cosa pur di rivivere un rapporto, seppur illusorio, con lei. D’impulso prese la cornetta del telefono e compose il numero di casa di Alice; le dita trovarono i tasti giusti all’istante. Al secondo squillo rispose una voce dal timbro giovane Famiglia Brianza…
Sono Emma.
Sì?
Emma, troppo emozionata per rispondere, riattaccò di colpo. Barbara rimase con la cornetta silenziosa in mano. Livia le chiese chi fosse al telefono.
Non so, una certa Emma, poi ha riattaccato.
Livia sbiancò. Barbara le si avvicinò preoccupata, ma la donna la fermò con un rigido gesto del braccio poi uscì dalla stanza visibilmente turbata. Ambra arrivò di lì a poco. Quel giorno la spesa era toccata a lei.
Barbara, mi aiuti?
Posate le borse sul tavolo di cucina, la ragazza chiese dove fosse la madre e Barbara le raccontò della telefonata. Al nome di Emma anche Ambra reagì in modo strano: agitò la testa più volte in segno di rifiuto poi concluse con rabbia Deve essere stato uno scherzo.
Barbara la guardò incuriosita e Ambra le spiegò:
Emma era la migliore amica di mia sorella. Erano state compagne di classe fin dalle scuole elementari e praticamente non si separavano mai. Da quando Alice non c’è più non abbiamo più sentito parlare di lei. Non che frequentasse la famiglia neanche prima, comunque.
Forse voleva farvi le condoglianze.
Ma ha riattaccato.
Forse le è mancato il coraggio.
Ambra fece spallucce.
Non so nulla della morte di tua sorella
tentò Barbara con delicatezza.
È vero, non ne parliamo volentieri
ammise la ragazza cominciando a tirare fuori dai sacchetti il contenuto della spesa. Barbara prese la cesta dell’acqua e andò a riporla nel ripostiglio. Rientrata in cucina trovò Ambra che contemplava due pacchi di biscotti. Che fai?
Guardo.
Trascurando la merce sparpagliata sul tavolo Barbara si avvicinò ad Ambra e ai suoi pacchi di biscotti. Visto qualcosa?
Dove?
Là sul pacchetto. È un po’ che ce l’hai in mano.
Ah, il pacchetto
si riscosse la ragazza, posandolo. Volevo leggere gli ingredienti ma me ne sono dimenticata.
E perché volevi leggerli?
Mi sono dimenticata anche questo.
La telefonata ti ha turbato, vero? Devono essere ricordi penosi per te.
Turbata sì
riconobbe la ragazza. Però non mi è dispiaciuta. Io penso ad Alice in continuazione. Una volta parlavo anche tanto di lei, ma la gente non ama parlare dei morti.
La gente non ama sentirsi impotente. Se fossimo in grado di resuscitare i morti sarebbe diverso
.
Sì. L’impotenza è imbarazzante, ma se sapessimo resuscitare i morti non avrei più bisogno di parlare di lei.
No. Lei sarebbe qui.
Un po’ ne parlo con mio padre, ma io vorrei parlare di Alice quando era viva.
E lui?
Lui invece pensa solo alla sua morte
rivelò Ambra appallottolando una borsa, ormai vuota, e infilandola in un porta sacchetti a forma di gallina appeso al muro. "A