L'assist della strega
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L’indagine ruota intorno a una folla di personaggi bizzarri, stravaganti e coloratissimi. A questa variegata compagine si affianca un’importantissima sfida di basket, dove i ragazzi della Castel del Vicchio devono affrontare la squadra della Pietraforte, la loro storica e più titolata rivale.
Fantini, persona comune che in genere non ne fa mai una giusta, dovrà superarsi per gestire contemporaneamente l’attività investigativa e quella sportiva, cercando di evitare tutte le calamità naturali che di volta in volta si troverà davanti, nel corso della sua burrascosa permanenza a Castel del Vicchio.
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Anteprima del libro
L'assist della strega - Roberto Porcù
Roberto Porcù
L’assist della strega
Volume pubblicato in self-publishing con il supporto di Rosso China Servizi Editoriali
Ogni eventuale riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, fatti storici, siano essi realmente esistiti o esistenti, è da considerarsi puramente casuale.
Roberto Porcù
L’assist della strega
© Roberto Porcù
Proprietà letteraria riservata
Prima edizione 2017
Illustrazione in copertina a cura di Claudio Fucile
Volume pubblicato in self-publishing con il supporto di Rosso China Servizi Editoriali
I diritti di riproduzione e traduzione sono riservati. Nessuna parte di que-sto libro può essere utilizzata, riprodotta o diffusa con qualsiasi mezzo senza autorizzazione scritta dell’Autore. Copia singola non cedibile a terzi. La riproduzione, anche parziale, è vietata.
Disponibile anche in versione digitale in tutte le librerie on-line
Prefazione
Da bambino perdevo ore e ore a fantasticare su streghe e cavalieri e nella mia immaginazione si rincorrevano storie sempre diverse, ambientate nel medioevo, che avevano come protagonisti impavidi nobili senza macchia e senza paura che difendevano il popolo inerme e principesse indifese dagli attacchi di diaboliche fattucchiere. Una volta diventato adulto, ho preso coscienza che le donne accusate di stregoneria spesso sono state perseguitate e uccise soltanto perché, all’interno di una comunità ristretta ed emarginata, esercitavano pratiche magiche e guaritive. Allo stesso tempo, i nobili che io avevo erto a paladini della giustizia si sono spesso rivelati personaggi avidi, crudeli e senza scrupoli.
I recenti e raccapriccianti fenomeni di femminicidio che stanno flagellando il nostro Paese in questi ultimi tempi mi hanno fatto tornare in mente proprio quelle povere donne che nel medioevo, per invidia o capriccio di qualche potente, senza nessuna colpa hanno dovuto subire l’aspetto peggiore della crudeltà umana.
A fare giustizia ho chiamato Roberto Fantini, persona comune che in genere non ne fa mai una giusta. Il mio anti eroe è stato spinto dalla crisi economica ad abbandonare le vesti del tranquillo custode di un museo casentinese per indossare i panni del detective.
Lo scenario pare inquietante per chi, come lui, non si distingue certo per le doti di coraggio. Si tratta di catapultarsi dentro a una vicenda del millecinquecento per scoprire chi ha ucciso il Duca Amelio Fortebraccio di Cella Mariana durante l’esecuzione di due donne condannate al rogo con l’accusa di stregoneria.
A questa complicata vicenda si affianca un’importantissima sfida di pallacanestro, dove i ragazzi della Castel del Vicchio, affidati alla guida del povero Fantini, dovranno affrontare la squadra della Pietraforte, la loro storica e più titolata rivale.
Unico pregio del protagonista è quello di non rassegnarsi mai. Saranno poi la fortuna, il caso e alcuni suggerimenti che arriveranno direttamente dall’oltretomba ad aiutarlo a risolvere questa ingarbugliata vicenda.
Note biografiche
Roberto Porcù, nato a Firenze il 15 giugno 1969, è un bancario che vive a Firenze e che ha trascorso la vita lavorativa immerso nei dati e nelle fredde analisi dei flussi finanziari di ogni tipologia e specie. Felicemente sposato dal 2001 con Marzia, madre dei suoi due gioielli Francesco e Giovanni rispettivamente 12 e 6 anni.
È stato un terremoto generato dal primo figlio Francesco che ha rotto la corteccia celebrale e fatto uscire dalla testa dell’Autore tutta una serie di bizzarri personaggi rimasti sopiti dalla sua infanzia.
Parliamo di circa sei anni fa. Una sera, durante il tentativo di fare addormentare il bambino leggendo per l’ennesima volta una favola del mitico e indimenticabile Gianni Rodari, Francesco con gli occhi ancora ben vispi e vigili ha detto: «Babbo, perché non mi racconti tu una storia inventata tutta nuova?». All’inizio panico e terrore, poi, come per magia, sono stati gli stessi personaggi a entrare in punta di piedi nella camera da letto di Francesco e a suggerire a Roberto le loro bizzarre avventure. Da quel giorno queste strane e colorate creature non lo hanno più abbandonato. Questi divertenti rompiscatole lo hanno accompagnato anche mentre andava e tornava dal lavoro, suggerendo gli spunti per nuovi racconti della buona notte.
Sportivo modesto ma appassionato, fino ai 35 anni ha completato un discreto numero di maratone, anche se non ha mai fatto registrare tempi record degni di nota. Adesso lotta con gli storici compagni di squadra per distaccare l’ambulanza che accompagna tristemente l’ultimo partecipante, posizione che ricorda il moribondo sperso nel deserto che vede l’avvoltoio volteggiare sopra la sua testa.
Ha esordito col giallo grottesco Un detective dal cuore viola, edito in self-publishing con il supporto di Rosso China.
La scelta di pubblicare i racconti è legata alla riconoscenza di Roberto verso queste strane creature che gli hanno regalato momenti colorati di sano svago e divertimento.
Per quanto potesse correre la fantasia, l’immaginazione non ha potuto fare a meno di toccare eventi di vita vera. Ecco quindi spiegata la passione per la pallacanestro, dove da circa quattro anni segue con entusiasmo le prestazioni sportive del figlio maggiore, mentre dall’anno scorso all’età di cinque anni ha fatto il debutto nel suo primo torneo sportivo di pallacanestro anche il piccolo Giovannino. La squadra nella quale stanno attualmente militando entrambi, la Baloncesto Basket Firenze, non a caso è stata anche scelta per la canotta color viola che molto ricorda la maglia della nostra squadra del cuore, la Fiorentina.
Ai miei genitori,
ringraziandoli per la loro generosità
e l’aiuto concreto nella vita di tutti i giorni.
L’agenda dei ragazzi di oggi sembra già più impegnata
di quella del Presidente del Consiglio.
Anno Domini 1517
La Pozza della Lontra
Italia Centrale, anno del Signore 1517, la folta chioma della faggeta secolare che ricopriva Colle Lastrone era tagliata a ovest dal Fosso Lanciotto e a est dal Borro Nero. I due corsi d’acqua s’incontravano più a valle sulla Rupe dell’Aquila dando origine a due distinte cascate di una decina di metri di altezza. L’acqua si catapultava con forza dirompente nella Pozza della Lontra. Da quel punto in poi, i due corsi d’acqua si univano mescolando le loro onde spumeggianti e, dopo aver superato la pozza d’acqua, profonda alcuni metri, correvano verso la valle gorgogliando con un fragore paragonabile al rombo di un tuono. Sembrava di vedere un gruppo di cavalli bianchi lanciati al galoppo senza freni in una prateria vasta e selvaggia.
Nimue stava seduta su un masso ai bordi della Pozza della Lontra e osservava sua madre. Aveva solo dieci anni, ma il suo portamento, i suoi ragionamenti e la sua testa erano già quelli di una ragazzina di quindici anni di età. Amava quel posto ricco di fascino e di magia. I due corsi d’acqua che si affacciavano dalla rupe e si tuffavano impetuosamente nella pozza d’acqua donavano a quel posto un fascino primordiale. Una specie di cartolina ricordo di come doveva essere il mondo più di diecimila anni addietro, quando il passaggio della razza umana era ancora ben lontano dal portare tutti quei cambiamenti che avrebbero a poco a poco modellato – e a volte addirittura violentato – intere regioni. Piccole gocce d’acqua durante il salto si allontanavano dal getto della cascata spinte dal vento e rimanevano ferme e immobili nell’aria come sospese nel tempo e nello spazio; in certi momenti del giorno e con la giusta luce, regalavano alla vista degli occhi giochi di arcobaleni dai colori sgargianti e spandevano nuvole di fresco vapore su tutta l’area circostante.
Erano le tre di pomeriggio di una caldissima giornata di metà agosto, dove la calura estiva aveva circondato tutta la Piccola catena collinare dei Monti Guardiani, sovrastata dal Picco Vedetta; trovare refrigerio in quella fresca ombra, sotto le fronde degli alberi con la piacevole sensazione che ogni tanto regalavano le carezze degli schizzi della cascata era davvero inebriante.
La madre di Nimue si alzò e le andò vicino, le accarezzò i suoi lunghi capelli e le dette un bacio leggero sulla guancia.
«Bambina mia, come sei bella».
«Anche tu, mamma» rispose Nimue.
La madre di Nimue, Astrea, era una donna di una bellezza straordinaria e fuori dal comune. Il volto era selvaggio e dolcissimo allo stesso tempo. I suoi capelli rossi, folti, lunghi e ricci le ricadevano sino a metà della schiena, gli occhi verdi erano magnetici e, quando erano illuminati dalla luce del sole, risplendevano come gemme preziose abbagliando chiunque si trovasse nelle vicinanze.
Astrea rivolse a sua figlia un armonioso sorriso da madre e le prese il volto tra le sue mani, delicate e curate come quelle di una nobile dama.
«Amore mio, è arrivato il tuo momento».
«Quale momento?» rispose dubbiosa e impaurita Nimue, guardando dritto dentro gli occhi di sua madre.
Astrea non rispose, si alzò in piedi, allargò e sollevò le braccia verso il cielo e con gli occhi socchiusi rivolse lo sguardo verso il sole; iniziò a mormorare sotto voce una strana litania in una lingua completamente sconosciuta alla piccola Nimue. Terminata quella che poteva assomigliare molto a una preghiera, Astrea si spogliò e si tuffò dentro la pozza, nonostante l’acqua fosse gelida. Incurante del freddo, la donna prese fiato e tutto di un colpo s’inabissò sparendo alla vista della bambina. Nimue si alzò dal suo masso e si sporse dal ciglio rivolgendo il suo sguardo smarrito sulla superficie della pozza per cercare tracce di sua madre. Dopo pochi secondi, Nimue fu colta da un sentimento di terrore che non aveva mai provato sino ad allora e si mise a urlare disperata verso l’acqua cristallina: «Mamma, mamma!».
In quell’attimo successe qualcosa d’innaturale. Dal fondo della pozza si sprigionò una luce intensa e avvolgente e in quel momento ogni animale del bosco si fermò come fosse obbligato da una forza arcana a osservare un religioso silenzio. L’atmosfera era surreale, il vento cessò di colpo, le cicale non cantavano più dalle fronde dei rami, gli uccelli non emettevano più suono alcuno e, dopo pochi minuti che a Nimue sembrarono ore intere, sua madre riemerse dall’acqua. Se qualcuno quel giorno fosse stato lì a guardare questa scena, avrebbe pensato che si fosse trattato della nascita di una Dea.
Astrea si asciugò, si rivestì e, notando lo sguardo incredulo di sua figlia, le andò vicino, la baciò sulla fronte, le prese la mano e le posò delicatamente nel palmo una collana con un pendaglio d’argento che rappresentava una triplice luna con un pentagramma all’interno. Astrea si avvicinò il dito indice al naso come a suggerire a Nimue di fare silenzio e, tenendo un tono di voce molto basso e tranquillizzante, le sussurrò: «Figlia mia, questo è il regalo che mi è stato concesso di farti in dono».
Nimue guardò sua madre perplessa e timidamente le rispose, senza comprendere il significato delle parole che aveva sentito pronunciare pochi secondi prima: «Questa collana è molto bella».
Astrea sorrise: «Oh mia cara, questa è molto più di una collana, questo è un talento che la Dea Luna ha deciso di donare a te con la benedizione di tutti gli elementi primordiali di Madre Terra».
Nimue era sempre più turbata e inquieta.
«Mamma, non capisco».
Astrea la guardò con dolcezza e le accarezzò i lunghi capelli.
«Con il tempo capirai, con il tempo…».
Martedì 6 gennaio, Parma-Fiorentina: 1-0
Martedì 6 Gennaio, una data da ricordare per secoli! La Befana salutava il Casentino ripromettendosi di arrivare l’anno prossimo puntuale come sempre per chiudere in bellezza tutte le festività natalizie, ma non era stato certo questo il motivo che avrebbe reso questa data memorabile.
La partita che la Fiorentina aveva giocato a Parma, l’ultima in classifica, era appena terminata con la sconfitta di uno a zero per la squadra viola; una prestazione catastrofica come non si vedeva da anni, coronata dal rigore sbagliato in maniera incredibile dal super centravanti tedesco Mario Melanzan. Il bomber teutonico era stato strapagato dalla Fiorentina, convinta di accaparrarsi un campione tanto forte da fare impallidire anche i palati più fini, con il preciso obiettivo di portare la squadra di Firenze molto alta in classifica. Anche i tifosi viola più diffidenti avevano evitato di fare ironici commenti sopra al buffo cognome da ortaggio, in considerazione del curriculum blasonato del super campione. Il buon Melanzan aveva davvero tutte le premesse in regola per garantire alla squadra gigliata quintali di gol.
Al contrario delle rosee aspettative, una volta arrivato sotto le palle del David di Michelangelo, il sogno dei supporter fiorentini si era infranto in mille pezzi. Melanzan faticava a fare rete anche in allenamento e, dopo una quindicina di partite caratterizzate da prestazioni catastrofiche, la tifoseria gigliata si era scatenata a cucire addosso al povero calciatore gli epiteti più bizzarri.
Avevo visto la partita a Bibbiena a casa di mio suocero, juventino doc, e ben sapevo che da lì a breve sarebbero partite frecciate al veleno. Il mio caro suocero Arnolfo avrebbe dato sfoggio di tutto il suo repertorio che probabilmente, da buon juventino, si era anche preparato con certosina cura da qualche settimana. D’altronde, la partita che aveva giocato la fiorentina gli aveva dato una ghiottissima occasione. Io stesso avrei approfittato, fossi stato al suo posto.
Proprio mentre Arnolfo si era diretto alla madia per tirare fuori la bottiglia di grappa di Mirtillone e due bicchieri che avevano il significato simbolico di dare il fischio d’inizio agli sfottò, aveva squillato il telefono in casa Martini. Non appena mia suocera aveva alzato la cornetta, un silenzio gelido era calato in tutta la stanza. Quintilia nel rispondere aveva balbettato una mezza frase incomprensibile e, subito dopo, avevo visto mio suocero scattare verso di lei con una velocità tale che pareva l’olimpionico Bolt mentre si accingeva a vincere la sua ennesima medaglia d’oro nei cento metri piani.
Arrivato davanti alla povera donna, Arnolfo si era messo a fare dei gesti inconsulti e incomprensibili. Muovendo le labbra ma senza fare uscire parole, come se di colpo fosse diventato sordomuto, mio suocero le aveva mimato la parola Aspetta, accompagnando le smorfie del volto con una gesticolazione di mani per far capire la necessità imprescindibile di prendere tempo.
Come un fulmine, Arnolfo se ne era scappato in cucina ed era subito tornato con foglio e penna e si era messo a scrivere vicino a Quintilia, che stava ribollendo dalla rabbia fortemente indispettita. Quella santa stava lanciando con lo sguardo degli occhi fulmini e saette al suo caro dolce marito.
Io avevo capito perfettamente quello che stava succedendo e non mi ero lasciato scappare questa ghiotta occasione d’oro. Mi ero alzato quatto quatto dal divano, indicando con il dito indice l’orologio che avevo al polso e, cercando anch’io di comunicare a gesti e smorfie in quella situazione tragicomica, avevo fatto capire ad Arnolfo che si era fatto tardi e che dovevo scappare. Veloce e senza voltarmi indietro, mi ero diretto verso la porta, la mia ultima speranza di salvezza.
Arnolfo, colto in contropiede, era indeciso se abbandonare Quintilia e bloccare la mia fuga oppure continuare a scrivere sul foglietto. Dopo un attimo di riflessione, il mio amato suocero, per mia fortuna, aveva deciso di rimettersi a dare indicazioni scritte a Quintilia lasciandomi in tal modo libera la via dell’uscio.
Io come un fulmine mi ero gettato fuori di casa facendo entrare nei polmoni l’aria fredda dell’inverno. Se mi ero salvato quel giorno, era stato solo grazie a un colpo di pura fortuna più unico che raro.
Quello che era successo era legato alla passione di Arnolfo per la caccia. Mio suocero quella mattina si era alzato prestissimo e con il suo cane era andato in giro nei boschi a cercare di catturare la selvaggina di stagione. Forse a causa del freddo, forse per colpa di uno sciopero selvaggio dei pennuti, quel giorno neanche mezzo passero aveva fatto capolino e così Arnolfo, a metà mattina, aveva dovuto fare ritorno a casa senza aver sparato neanche una cartuccia.
Come da tradizione dei cacciatori casentinesi, quando era passato al Bar dello Sport, naturalmente, aveva dato tutta un’altra versione dei fatti. Tre fagiani, due lepri, una trentina di quaglie e dieci tordi, due dei quali catturati con un tiro balistico a rimbalzo degno di un campione olimpico di biliardo. Quintilia avrebbe avuto un bel da fare quel pomeriggio a levare tutte quelle penne, ma chissà che arrosti e che sughetti per accompagnare le pappardelle.
Se le balle dei cacciatori dovevano essere di volta in volta sempre più sofisticate per chi le raccontava al fine di essere ritenute quantomeno verosimili, anche gli smascheratori inventavano tecniche sempre nuove per sbugiardare i contaballe. L’ultima idea che era venuta al vecchio Fosco, compagno di caccia storico di Arnolfo, era quella di chiamare a casa la moglie del cacciatore che al bar le aveva sparate più grosse per avere un riscontro esatto sulle prede catturate. Badate bene che bastava che la malcapitata moglie rispondesse un generico «Eh oggi sì che ha portato diversa roba a casa. È stata una giornata proprio fortunata» e subito la balla veniva scoperta.
Per farla breve, quel giorno era stata proprio la telefonata del buon Fosco, Santo subito, a salvarmi da mio suocero che al bar aveva raccontato di avere sterminato tutte le quaglie di Toscana e Alto Lazio. Quella sera l’amico di Arnolfo aveva chiamato Quintilia dal bar – proprio appena terminata la partita di calcio della Fiorentina – per fargli il terzo grado, e il buon Arnolfo, scrivendo sul fogliettino che aveva posto sotto il naso di Quintilia, tentava di far ripetere a quella povera donna di sua moglie ad alta voce l’elenco esatto della selvaggina ufficialmente dichiarata al bar. La meschina aveva risposto al telefono senza inforcare gli occhiali e quindi stava facendo una gran fatica a leggere il foglietto e interpretare i gesti del marito. Proprio prima che uscissi di casa, sembrava sul punto di mandare a quel paese Fosco, Arnolfo, gli altri amici cacciatori e tutti i fagiani della Toscana intera.
Tornando verso casa per fortuna non avevo incontrato altre pericolose amicizie calcistiche e quindi avevo evitato di dover affrontare l’argomento spinoso Fiorentina. Passati pochi minuti ero riuscito a tornarmene a casa mia, dove Asia, mia moglie, mi aspettava per cena. Terminato il pasto, quando il silenzio della notte si era impadronito della casa e del paese, mi ero affacciato alla finestra e, nonostante il freddo, ero poi uscito in terrazza. Le nuvole avevano abbandonato il cielo e ora si poteva godere di un panorama mozzafiato di stelle che, tremolanti, lampeggiavano alte e luminose. La mente era libera di volare e inseguire traiettorie unendo a caso i puntini luccicanti degli astri celesti per creare ogni volta figure nuove e dare spazio alla libera immaginazione per inventare i nomi di nuove costellazioni.
Quella visione mi stava facendo fare pace con il mondo quando, unendo una decina di puntini luminosi, mi era apparso il volto del calciatore tedesco Melanzan e subito l’avevo ribattezzata la costellazione del carciofo; forse si era fatta l’ora di andare a dormire.
La giornata appena conclusa chiudeva un periodo davvero difficoltoso e particolarmente sfortunato. Il posto dove lavoravo, un museo dove erano esposti importanti dipinti di un famoso pittore casentinese, era stato costretto a chiudere a causa di una frana che aveva reso l’edificio pericolante. Non potendo