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La balena di piazza Savoia. L’immaginario che avevamo in dote
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La balena di piazza Savoia. L’immaginario che avevamo in dote
E-book300 pagine3 ore

La balena di piazza Savoia. L’immaginario che avevamo in dote

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Primi anni ’70: un bambino vede una balena in una piazza al centro di Campobasso. L’incontro è davvero avvenuto o si tratta solo di una fantasia infantile? Nessun altro degli amici di allora sembra ricordare il passaggio di quella balena sotto formalina, trasportata da un camion ed esibita a pagamento come in una fiera ottocentesca.
Intanto, mentre la balena dorme per molti anni sepolta nel suo inconscio, quel bambino scopre la passione per il cinema e comincia ad annotare su decine di agende i titoli dei film visti al cinema, archiviati all’indomani della grande crisi che trasformerà per sempre lo spettacolo cinematografico in qualcosa di irrimediabilmente diverso. Quelle agende ormai ingiallite costituiscono il filo di Arianna alla vera e appassionante storia della balena Goliath, ricostruita attraverso un’indagine degna di un romanzo giallo: arpionata in Norvegia nel 1954, imbalsamata e mandata a viaggiare per un quarto di secolo sulle strade d’Europa, nelle piazze delle grandi città e dei paesini sperduti, oltre la Cortina di Ferro, fino in Grecia e Israele per sbarcare poi a Bari dove inizia il suo tour nell’Italia degli anni ’70.
Il ventre della balena ancestrale e “quel vortice luminoso in cui si rincorrevano polvere, colori, fumo di sigarette”, la balena e la sala cinematografica, epici protagonisti di una stagione avventurosa, sono il leitmotiv di un’educazione sentimentale e, insieme, la metafora di un immaginario destinato a fatale estinzione.
Sullo sfondo c’è una nazione turbolenta raccontata dal punto di vista di un bambino di provincia che oggi, ormai adulto, prova a ricomporre il puzzle della memoria e a decifrare i segnali di un Paese che stava cambiando senza che ne avesse coscienza. La scoperta e l’agonia del cinema popolare, la formazione di una generazione in cerca di risposte, l’insinuarsi di nuovi immaginari che contribuiranno poi a determinare la storia più recente dell’Italia.
LinguaItaliano
Data di uscita11 set 2020
ISBN9788831461092
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    La balena di piazza Savoia. L’immaginario che avevamo in dote - Leopoldo Santovincenzo

    Scritti Traversi

    LA BALENA DI PIAZZA SAVOIA

    L’immaginario che avevamo in dote

    di Leopoldo Santovincenzo

    LA BALENA DI PIAZZA SAVOIA

    L’immaginario che avevamo in dote

    di Leopoldo Santovincenzo

    © 2017 - Edizioni Exòrma

    Via Fabrizio Luscino 73 - Roma

    Tutti i diritti riservati

    www.exormaedizioni.com

    Progetto editoriale Orfeo Pagnani

    Collana Scritti Traversi

    ISBN 978-88-98848-85-0

    Impaginazione omgrafica, roma

    In copertina Illustrazione di Lorenzo Santinelli

    Golia arriva a Torino, 1954.

    I had no nation now but the imagination.

    Derek Walcott, The Schooner Flight

    Il camion con la balena era disposto proprio davanti all’ingresso della Villa Comunale, sulla destra del grande palazzo dell’Incis che domina la piazza.

    L’INCONTRO

    Una tarda mattina senza sole e senza ombre ho visto una balena a piazza Savoia. La pelle grigio scuro a tratti si scioglieva degradando in un bianco sporco e ingiallito come pagine di un libro ammuffito. Ho sfiorato i fanoni, lunghi, secchi e sfilacciati. Sono così fitti perché devono trattenere il plancton, l’ho letto su un libro illustrato. L’odore è denso, salato, di salmastro e disinfettante. Naturalmente è morta anche se sul momento non ci ho pensato. Sta facendo l’estremo viaggio prima di decomporsi per sempre, mesto tour di periferia o forse funerale lento del più grande mammifero di tutti i tempi. Solo ora mi chiedo, per la prima volta, dove sarà finita dopo l’ultima esibizione, se è stata fatta a pezzi, bruciata, seppellita, abbandonata in una discarica abusiva.

    Il problema è che nessun altro sembra essersene accorto, nessuno sembra ricordare il passaggio di una balena a Campobasso. Continuo a chiederlo ai miei coetanei, a quelli che hanno l’età dei nostri genitori, cerco indizi sulle vecchie cronache locali ma niente, il leviatano sembra essersi dissolto ben prima della sua consunzione fisica. Non so neppure collocare nel tempo quella mattina. Ero bambino e dunque era la fine degli anni Sessanta, non più tardi dei primi anni Settanta, una stagione così lontana, ancora di più perché appartiene alla storia di una provincia che almeno a quei tempi era davvero remota. Eppure mi sembra impossibile che un evento eccezionale, in un luogo in cui succedeva poco e niente, non abbia lasciato, almeno nei bambini dell’epoca, una traccia indelebile.

    La storia della balena è diventata, nel tempo, una piccola ossessione privata. L’incontro è davvero avvenuto o l’ho solo immaginato? È un ricordo artificiale come l’unicorno del cacciatore di replicanti di Blade Runner o forse si tratta di un sogno che, senza che me ne sia accorto, è scivolato nell’archivio delle memorie infantili? Un amico scrittore sostiene con assoluta convinzione che, da bambino, durante un viaggio in Turchia con i genitori, ha visto emergere da un lago una flotta di minuscoli sottomarini che, dopo un breve tratto a fior d’acqua, si sono nuovamente inabissati. Naturalmente in quell’istante il padre e la madre erano distratti, volgevano lo sguardo altrove. C’è anche da dire che, da grande, quando ha cominciato a scrivere storie, il mio amico ha scelto di bagnarsi in quel particolare mare della letteratura dove il realismo incontra la magia.

    Un giorno di pioggia di pochi anni fa, durante la pausa pranzo, riparavo sulla soglia di un bar di Borgo Pio quando la suoneria del cellulare annuncia una chiamata. Un’amica di Campobasso, molto più giovane di me, a cui avevo raccontato questa storia e che l’aveva recepita con divertito scetticismo, mi riferiva che ne aveva parlato a un suo amico che ha più o meno la mia età e che sì, certo, anche lui ricordava della balena. Ma l’eccitazione è stata di breve durata e ha lasciato quasi subito il posto a una sensazione di lieve inquietudine. Ho pensato che non era ancora una prova e che la mia ricerca sarebbe finita solo quando avrei trovato un ritaglio di giornale o una vecchia foto. Il sospetto, vagamente paranoico, è che il dilagare della mia ossessione, per contagio, abbia involontariamente innescato un processo di suggestione collettiva e che la mia generazione stia sviluppando, a Campobasso, una memoria condivisa e fittizia producendo ricordi di eventi che non sono mai accaduti. Più o meno dopo la morte di mia nonna, vent’anni fa, ho cominciato a sviluppare una quieta fobia: dimenticare i piccoli eventi quotidiani legati alla mia storia personale, alla mia famiglia, alla mia infanzia. Da adesso ogni cosa che dimenticherò – mi sono detto – è come se non fosse mai avvenuta. Sono figlio unico, né mia madre né mio padre erano di Campobasso e, a parte la famiglia acquisita di mia nonna, ormai praticamente estinta, non ho altri parenti laggiù. La cronaca minuta di un piccolo nucleo familiare di provincia, peraltro con labili radici sul territorio, appartiene a un ristrettissimo numero di persone; se poi ti capita di restare da solo ecco vanificarsi la possibilità di avere un riscontro oggettivo o anche solo un confronto sulle questioni, minime e massime, che costituiscono il tuo passato. Che cos’è il passato di un individuo, cosa il passato di una comunità, di una generazione. Quanto di quello che chiamiamo passato è misurabile e quanto invece è solo un addensato di memorie, pensieri, piccole tracce, immaginazione, rimozioni? Se davvero ognuno è sé stesso sulla base della sua storia personale, il passo successivo è cominciare a domandarsi: chi sono, quanto della mia identità è costruito a partire dalla realtà e quanto dall’immaginazione o da ricordi deformati nel corso del tempo?

    Mi ritrovo a sfogliare febbrilmente, in solitudine, montagne di vecchie fotografie solo per ristabilire verità minime e francamente anche inutili come il colore di un pullover di mio padre o l’esatta posizione di un soprammobile sulla credenza del tinello. Ascolto i vecchi 45 giri perché collaborino a restituire l’esattezza di una sensazione lontana, di un pensiero smarrito, di un’atmosfera perduta, di un istante rimosso. Si apre così, quasi involontariamente, un incessante e travagliato processo di continua verifica.

    La balena di piazza Savoia è il precipitato della mia nevrosi. Ma anche il passaggio segreto per accedere ad altri interrogativi, a nuove riflessioni. In termini di immaginario infantile vivevamo ancora, in quegli anni, con un piede nell’Ottocento. Non l’Ottocento risorgimentale, con il suo impasto di pedagogia patriottica (Enrico Toti!), socialismo umanitario (il libro Cuore!), catechismo a figurine (la Bibbia illustrata! Quo vadis al cinema!) ma, al contrario, un Ottocento mitico, visionario, avventuroso. Il terreno di scrittori come Jules Verne, Herbert George Wells, Robert Louis Stevenson, Emilio Salgari, Edgar Rice Burroughs, Rudyard Kipling (il Kipling del Libro della giungla mediato naturalmente da Disney). Un universo popolato da piovre tentacolari, feroci pirati, cowboy e indiani, astronavi e sottomarini, legioni romane e legioni straniere, fieri esploratori, marziani verdognoli, uomini-scimmia, dischi volanti, tigri sanguinarie e dinosauri. Un pantheon affollato di eroi, di cattivi e di creature straordinarie collocate nella mia memoria tutte insieme, senza distinzioni tra realtà e fantasia, in un tempo senza tempo, come se un misterioso onnisciente padrone del gioco li avesse meticolosamente separati dalla carta lucida dei trasferibili imprigionandoli per sempre nella mia immaginazione. Un calderone in cui l’esotismo costruito a tavolino dall’Occidente coloniale incrociava la proiezione in un futuro altrettanto sconosciuto, uno spazio di frontiera da esplorare, conquistare e possedere ma soprattutto da immaginare. Gli archetipi di questa grande letteratura popolare e di conseguenza della formazione infantile della mia generazione, erano il Viaggio e l’incontro con l’Altro. Non a caso, anche se ancora non lo sapevamo, si trattava dei grandi fantasmi con cui crescendo avremmo dovuto presto fare i conti nella nostra esistenza di provinciali: valicare i confini, conoscere il mondo, confrontarci con l’altro da sé. In questo scenario l’unico mito ottocentesco autoctono ad avere solitaria cittadinanza nel nostro tempo era Pinocchio, soprattutto nella rilettura contadina di Luigi Comencini per la televisione di Stato, molto più amata dagli italiani rispetto alle devianze disneyane. Collodi, al di là dei suoi intenti pedagogici, anima, come scrive Giovanni Jervis in una bella prefazione all’edizione del 1968, un «fantastico domestico», ed eccoci ancora nel regno del visionario tra creature mutanti, magie, resurrezioni miracolose, alberi degli impiccati, animali parlanti, circhi equestri. E naturalmente – anche se Collodi scrive pesce-cane – balene: «Se gli è grosso!… perché tu possa fartene un’idea, ti dirò che è più grosso di un casamento di cinque piani, ed ha una boccaccia così larga e profonda, che ci passerebbe comodamente tutto il treno della strada ferrata colla macchina accesa». In questa prospettiva la balena di Campobasso era meno fuori posto di quanto non appaia oggi. Anzi, era quasi parte dello scenario immaginifico che avevamo in dote. In un certo senso l’aspettavamo.

    Nel misterioso benché netto ricordo, la mia balena giaceva esposta su una sorta di tir aperto da un lato, con una modesta tendina a coprire parzialmente la scena. Il camion era disposto proprio davanti all’ingresso della Villa Comunale, sulla destra del grande palazzo dell’Incis che domina la piazza, di fronte a quello che al tempo era il Jolly Hotel.

    Questo spettacolo così anacronistico, da fiera ottocentesca, è riaffiorato alla mia coscienza ogni volta che in un film o in un libro o in una fotografia mi sono imbattuto in un freak show. La cinica esibizione commerciale dei fenomeni di natura, uomini, donne e bambini affetti da gravi malformazioni genetiche oggetto di studio della teratologia, ha conosciuto la sua massima fortuna negli Stati Uniti tra la prima metà dell’Ottocento e gli anni Quaranta del Novecento, versione popolare e degradata delle camere delle meraviglie allestite nelle corti europee del Settecento. Giganti, nani, donne barbute, gemelli siamesi, feti bicefali in formalina, il terribile geek, ermafroditi e quanto altro la natura ha prodotto in un’epoca in cui la scienza, ancora in evoluzione, era al servizio esclusivo delle classi abbienti, in cui l’ignoranza e la superstizione erano infinitamente più comuni e in cui, infine, il politicamente corretto era di là da venire. Storia infame, tragica, fondata sull’ambiguo binomio attrazione/repulsione. Ma anche rito premoderno, un esorcismo – spiega Leslie Fiedler in un saggio definitivo sull’argomento – contro le paure primordiali dell’uomo relative alle «proporzioni, la sessualità, la nostra condizione di esseri superiori alle bestie e la nostra fragile individualità». Tale oscena fiera, che costituisce forse la matrice della neotelevisione, continua così, in altre forme e in altri termini, a convivere con il nostro inconscio. E si rivela molto meno arcaica e lontana da noi di quanto avremmo pensato.

    Il viaggio comincia alla mezzanotte del 4 giugno 1954, dieci anni prima della mia nascita, a Bergen, Norvegia. Dopo un inseguimento durato centosessanta giorni, una Balaenoptera physalus viene tratta dalle fredde acque del Nord dall’arpione infame della baleniera Skimoe, dotato di carica esplosiva nella punta e sparato da un cannoncino. L’uncino penetra nella carne, si apre come un fiore, rompe il vetro della fiala, l’acido solforico incendia una carica di polvere pirica, si produce una piccola esplosione. La balena è ferita a morte. Dopo una corsa sull’acqua durata tutta la mattinata, agganciato a un cavo d’acciaio del diametro di otto centimetri che gli impedisce di inabissarsi, il cetaceo si arrende. Issato sulla nave officina, deposto a riva con l’aiuto di cento uomini, sotto gli occhi del presidente dell’Istituto di Zoologia di Friburgo è scuoiato, eviscerato, trattato in formalina e infine caricato su un semirimorchio di ventisei metri trainato da un vecchio trattore olandese. Le cronache dicono che nella cavità orale sia stata ritrovata la ricetrasmittente che gli inseguitori avevano lanciato oltre i fanoni per non perdere le tracce della preda. «Il suo fegato pesa 650 chili, 550 il cuore, la lingua 220! 22 metri la lunghezza, 68 tonnellate il peso!».

    «L’aureo fulgore dei più remoti ricordi di infanzia si fonda non tanto sui nudi fatti, quanto sulla mescolanza di immagini magiche, di cui si ha più un sentimento indistinto che una vera consapevolezza. La parabola di Giona inghiottito [dalla balena] rende perfettamente la situazione di chi si inabissa nei ricordi dell’infanzia, sfuggendo così al mondo presente. Si cade apparentemente nelle tenebre più fitte, ma si hanno poi visioni inaspettate di un mondo ultraterreno». Ma tutto questo lo avrei letto solo molti anni dopo, naturalmente ignoravo chi fosse Carl Gustav Jung e non immaginavo neppure lontanamente che il mito di Giona potesse essere materia di studio psicanalitico oltre che soggetto di illustrazioni bibliche.

    Soprattutto non sapevo che presto anche io sarei stato inghiottito, eppure andò proprio così.

    NEL VENTRE DELLA BALENA

    Non riuscivo a staccare gli occhi da quel vortice luminoso in cui si rincorrevano polvere, colori, fumo di sigarette. Era quello, per me, lo spettacolo e siccome avrò avuto forse solo due anni rischiavo di trovarmi sprofondato sul fondo di una sedia di legno come tutti gli altri e non vedere niente. Invece avevo avuto il privilegio di essere messo in piedi, ritto su un bracciolo a dominare la sala come un re, sotto il mio sguardo un oceano di teste sudate. E girandosi indietro verso la platea, quel bambino poteva vedere lo stesso luccichio balenare in centinaia di occhi, indizio dello strano incantesimo che teneva tutti lì, fermi a guardare verso un unico punto. Ecco, è così che ricordo il mio primo incontro con il cinema a cui non ho potuto non attribuire, nel rievocarlo, un respiro epico e fantastico. Da sempre la sala cinematografica mi è apparsa come il più misterioso dei luoghi. Una folla sta seduta, immobile, in silenzio e guarda tutta nella stessa direzione: un’immagine che potrebbe essere uscita da un quadro di Magritte. I mondi lontani nello spazio e nel tempo che appaiono quando si anima lo schermo, i bestiari fantastici che ci si trova a fronteggiare, le situazioni extra-ordinarie in cui si viene catapultati in un batter di palpebra, concorrono a fare del cinema un’esperienza eccezionale: è come se, al primo incontro con un film in sala, ogni spettatore cinematografico avesse assistito alla nascita del cinematografo.

    «La morte cesserà di essere assoluta», scrive La Poste il 30 dicembre 1895, due giorni dopo il primo spettacolo pubblico del cinematografo al Grand Café, sul Boulevard des Capucines di Parigi.

    «The Great Mouna! La regina delle balene!». La balena, figurazione primordiale di una natura non ancora a dimensione d’uomo: metaforicamente ultimo sopravvissuto tra gli animali preistorici, evocata nei miti biblici della creazione, eletta a enigmatica forza distruttrice nella più grande epopea romanzesca dell’Ottocento. La sua immagine entra attraverso i sogni nell’avventura della psicanalisi quale messaggera di un inconscio collettivo ancestrale, emblema, nella sua protettiva capienza, di un processo di rigenerazione. Fin dall’antichità esistono racconti allegorici di uomini imprigionati nel ventre della balena che tornano a vedere la luce, sbiancati come feti adulti dall’immersione nei succhi gastrici del cetaceo. Il Sydney Morning Herald documenta che a fine Ottocento, sulla costa sud dell’Australia, era in uso curare i reumatismi calandosi per almeno trenta ore dentro la carcassa di una balena e tenendo fuori appena la testa. Esistono anche delle vecchie foto, surreali e vagamente inquietanti.

    Entrare nella balena affondando come Pinocchio nella pancia del pesce-cane, in un «buio così nero e profondo, che gli pareva di essere entrato col capo in un calamaio pieno d’inchiostro», e uscirne cambiati per sempre è morire e rinascere. Forse, è come andare al cinema.

    «In quel buio simile a una luminosità annerita si staglia la sagoma spaventosa di una balena imbalsamata». Tra i baracconi di una fiera infernale si aggira un disperato Giacomo Casanova, per la prima volta a Londra. L’imbonitore continua a declamare il suo invito «con toni rochi, viscerali»: «The Great Mouna! La regina delle balene! Il Leviatano di Giona! Tutti quanti possono entrare, il ventre è ancora caldo: è una balena femmina. Guardate, la sua bocca vi invita a entrare. Avete paura? Chi non entra nel ventre della balena non troverà mai il suo tesoro: così dice l’antico libro della saggezza. Entrate e vedrete, giù per la gola e ancora più in fondo, nella pancia della Grande Mouna…». Casanova cede alla chiamata, sale le scalette accodandosi a una tenebrosa processione di ombre e oltrepassa la soglia.

    «La Mouna è una porta che conduce chissà dove… un muro che devi buttare giù», continua l’imbonitore: ci addentriamo nella penombra verso un fioco bagliore… una candela accesa, una scatola con un foro, una lente, immagini di «vulve diavolesche che sorridono con orrenda levità» si proiettano dalle lastre di vetro incastonate in un disco di latta a uno straccio bianco che fa da improvvisato schermo: è la lanterna magica, la più antica forma di precinema che si conosca, a metà tra scienza e magia, tra spettacolo da fiera e stregoneria. Padre Athanasius Kircher l’ha già descritta a metà del 1600 nel libro Ars magna lucis et umbrae. Il buio, accogliente ventre della balena, diventato camera obscura, si sovrappone alla sala cinematografica. Solo pochi anni prima un Fellini più cordiale e affettuoso aveva messo in scena un’altra allegoria del cinema, destinata a rimanere nell’immaginario collettivo: la trasognata gita in mare di una piccola comunità per guardare nel buio della notte le luci colorate del transatlantico Rex di passaggio al largo di Rimini.

    Ma ora, nel 1976, la visione è diventata fosca e corrotta: Giacomo, «mai morto perché mai nato», è uno spettrale avventuriero che si trova faccia a faccia con la Grande Mouna, proiezione leggendaria di uno smisurato utero materno da cui il maschio italiano non è mai veramente uscito e dentro il quale si manifestano le immagini spaventose di vagine dentate disegnate, nella realtà, da Roland Topor.

    Federico Fellini, Donald Sutherland e la Balena sul set di Casanova (foto di Michelangelo Durazzo).

    Nel marzo del 1809 una balena putrescente lunga ventitré metri era davvero esposta su una chiatta ormeggiata sul Tamigi, tra Blackfriars e London Bridge; scrivendo il Casanova, Federico Fellini e Bernardino Zapponi avevano forse attinto, tra tante fonti, anche a quelle vecchie cronache londinesi. Ma chissà se in questa sequenza c’è anche una memoria del passaggio della nostra balena, questa volta a Roma, a pochi passi da casa del regista.

    Il Casanova di Federico Fellini l’ho visto un pomeriggio di molti anni dopo, in una minuscola sala d’essai romana. Con adolescenziale stupore scoprii le mie ossessioni infantili finalmente ricongiunte:

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