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Nuovo Decameron
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E-book168 pagine2 ore

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Info su questo ebook

Alla metà del XIV secolo Giovanni Boccaccio immaginò che, per sfuggire alla peste che nel 1348 stava decimando Firenze, sette giovani donne e tre giovani uomini si ritirarono in campagna, ingannando il tempo mangiando, danzando e, soprattutto, raccontandosi storie. Nacque così il Decameron, una raccolta di cento straordinari racconti, uno dei testi fondamentali della nascente letteratura italiana ed europea.

Oggi, in un periodo tristemente segnato dall’emergenza pandemica e dall’obbligo del confinamento, abbiamo chiesto a sette scrittrici e tre scrittori dei nostri giorni di prendere il posto dei dieci narratori dell’opera di Boccaccio, scrivendo un racconto che prendesse le mosse, con la massima libertà, dal Decameron. Il risultato è una raccolta bellissima, che gioca con l’originale con passione e ironia, tra fedeltà e tradimenti, con meravigliose invenzioni linguistiche (come il dialetto umbro di Barbara Alberti o l’eccezionale falsificazione dell’italiano trecentesco di Michele Mari) o di trama (Jonathan Bazzi, Chiara Valerio), capovolgendo il senso originale (Chiara Barzini, Ilaria Gaspari), o trasportando il Medioevo ai nostri giorni (Antonella Lattanzi, Michela Marzano), discostandosi dal testo boccaccesco cercando di riprodurne i temi profondi, come fa Jhumpa Lahiri, o rileggendo da vicino l’opera con un misto straordinario di immaginazione e conoscenza filologica, come nel racconto di Stefano Massini che apre la raccolta e, tra riferimenti puntuali e svolte inattese, ripercorre l’intero Decameron.

Un grande libro che, sorprendendo ed emozionando il lettore, mostra la modernità, perenne ed eversiva, di uno dei testi più belli e importanti di tutti i tempi.
LinguaItaliano
Data di uscita4 feb 2021
ISBN9788830522701
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    Anteprima del libro

    Nuovo Decameron - Barbara Alberti

    DECAMERON

    STEFANO MASSINI

    Proemio

    Comincia il libro chiamato Decameron cognominato Prencipe Galeotto, nel quale si contengono cento novelle in diece dì dette da sette donne e tre giovani uomini.

    All’inizio del Decameron sette ragazze si trovano in una chiesa, durante la grande pestilenza che afflisse Firenze nel 1348. Lì incontrano tre ragazzi che conoscono e decidono, per sottrarsi ai rischi del morbo, di ritirarsi fuori Firenze, nelle case in campagna di alcuni di loro.

    Passano lì, dunque, i giorni della bella stagione, e la sera decidono di intrattenersi raccontandosi delle storie. La prima giornata le novelle sono a piacere, poi dovranno seguire un tema deciso dalla regina o dal re della giornata.

    Questo è l’elenco dei temi e dei regnanti:

    I GIORNATA: Regina Pampinea, nessun tema;

    II GIORNATA: Regina Filomena, avventure a lieto fine;

    III GIORNATA: Regina Neifile, uso dell’ingegno;

    IV GIORNATA: Re Filostrato, amori infelici;

    V GIORNATA: Regina Fiammetta, felicità raggiunta dagli amanti dopo avventure e sventure;

    VI GIORNATA: Regina Elissa, risposte argute che tolgono di impaccio;

    VII GIORNATA: Re Dioneo, beffe delle donne ai loro mariti;

    VIII GIORNATA: Regina Lauretta, beffe di ogni tipo;

    IX GIORNATA: Regina Emilia, tema libero;

    X GIORNATA: Re Panfilo, cortesia e avventure d’amore.

    In questa riscrittura originalissima del Proemio e della cornice del Decameron, Stefano Massini sembra far ritrovare al lettore i dieci componenti della allegra brigata boccaccesca. Nelle loro parole si trovano allusioni a molti dei racconti che compongono l’opera originale, alcuni dei quali sono stati riscritti dagli altri autori di questo libro. Lasciamo al lettore che ne avrà voglia e modo il compito di rintracciare i racconti originali nelle parole dei protagonisti di questo Proemio.

    [N.d.E.]

    Di tutto ciò che era stato, ricordavano pochissimo.

    Sprazzi, frammenti. Niente di più. Sarà che molti anni erano passati. Innumerevoli, che a contarli sulle dita non bastavano le mani. Ma il tempo d’altra parte fa così, non chiede il permesso, e come un filo leggero di perle infila i giorni come le stagioni. Potevano essere trent’anni, o di più. Forse era mezzo secolo. O chissà, magari da ere millenarie stavano là dentro, chiusi, sbarrati, per difendersi dal contagio.

    Il tetto, appena fuori attaccava a piovere, gocciolava sulle loro brande. L’umido disegnava mappe geografiche sulle pareti di calce viva, e gli infissi a stento reggevano l’urto del vento. Ma la grande sala in cui si erano accampati continuava a proteggerli, ultimo baluardo contro la peste nera. Si erano salvati. Sì, la piovra coi suoi tentacoli non li aveva afferrati, in qualche modo la fuga era riuscita. Questo lo sapevano. Ma il resto?

    Dopo tanti anni, una nebbia fitta copriva ogni cosa.

    Qualcuno sognava di notte, ancora, la navata buia di una grande chiesa. Non accadde una sola volta, il sogno tornava spesso, ne parlarono insieme, ci fu chi disse: «Anch’io ho questa immagine dentro, da qualche parte, affiora: una chiesa scura e dieci ragazzi che scappano». Che fossero loro quei dieci, o ciò che ne restava?

    Difficile dirlo. Forse un tempo erano stati in dieci, forse un tempo erano stati giovani, occhi di cerbiatto e caviglie leggiadre, non potevano escluderlo. Ma adesso erano quattro vecchi, solo quattro vecchi col muso imbronciato cadente in avanti, spalle spioventi come grondaie, gambe di cristallo. Quattro relitti. Altri erano scomparsi, nel tempo, inabissati, per il lento logorarsi della vestaglia umana. Non restavano ora che gli ultimi vegliardi, chiusi in una villa in rovina, il cui tetto gocciolava sulle brande e gli infissi ululavano alla tramontana.

    Unico appiglio di un passato scomparso era un pezzetto di carta, su cui ancora si riusciva malamente a leggere uno stinto tratto d’inchiostro: «… Morte, là fuori, regna sovrana. I cadaveri si buttano sui carri come sacchi, si odiano i corpi, i loro miasmi. Proibiti i funerali, la carcassa di chi muore è nulla più che un ammasso di carne sfatta…».

    Dunque si erano salvati.

    I loro corpi avevano resistito, come fortezze prese d’assalto dal nemico alle porte. Ancora a tratti gli sembrava di sentire per un attimo, vicinissimo, sul collo, il fiato della morte, riconoscevano l’eco dei passi di lei che li braccava. Eppure ancora respiravano, eppure ancora erano vivi, fra le rughe scavate si potevano distinguere i segni delle vene lievemente pulsanti, cariche d’un sangue imperterrito, senza macchie e senza marciumi.

    Dell’infinito tempo trascorso nella villa, rammentavano solo che per anni interi, per giorni e giorni, avevano narrato. Oh, se avevano narrato. Non c’era racconto che non avesse risuonato sotto le capriate livide dell’altissimo soffitto, là dove a tarda primavera facevano il nido i rondoni. Storie su storie, parole su parole si erano susseguite nel silenzio interminabile di mattine assolate e notti piovose, tanto che ormai nessuno più sentiva né la voglia né il coraggio di ricominciare a raccontare. E tacevano. Tacevano perché ogni storia era stata detta, ogni storia era stata tentata, tessuta come un lino e messa in vendita sui banchi del mercato.

    Di tanto in tanto, accadeva però che uno di loro fissasse lo sguardo nel vuoto, e muovendo le labbra come fossero incrostate dal ghiaccio di un’alba invernale, si azzardasse ancora a sfidare il silenzio.

    Fu Filomena, quella sera, a tossire per schiarirsi la voce. Esitò, prese un lungo respiro, chiuse gli occhi, strinse le palpebre come per intuire figure lontane. Poi cominciò:

    «Tante e tante volte, voltandomi a guardare indietro, mi sono chiesta qual è fra tutte le mie storie quella che salverei. Dico l’unica, la sola, non più di una, perché di storie ve ne sono troppe che non servono né a chi le sente né a chi le dice. Cento e più ve ne ho raccontate, ma fra queste cento, più di tutte, voglio risentirmi dire come andò di quel nobile signore – toh, guarda: me ne sfugge il nome – che si infiammò d’una donna al punto tale da uccidere per lei il suo amatissimo falcone... O forse era una gazza? Un aquilotto? Uno sparviero? Non ricordo. E non ricordo nemmeno come inizia… Eppure talmente tante volte l’ho narrata che perfino le pareti, se potessero parlare, la direbbero a memoria, per filo e per segno, senza sbagliare. Ecco, allora: gliela lascio volentieri. Non v’è bisogno alcuno che io la dica ancora: è già nell’aria, sta attaccata dappertutto, perché ci sono storie che se fai silenzio le senti risuonare, oltre le parole. No, nossignore, sapete che c’è? Ne dico un’altra. Una di quelle che nessuno ricorda. Una storia che chissà se l’ho mai detta, una storia così, fatta per l’ombra. E se vi sembra strana, non chiudetele per forza l’orecchio, ascoltatela comunque fino in fondo, che per dimenticarla avrete tutto il tempo.

    Accadde dunque che un giovane – una testa calda, un morettino tutto occhi e mento in alto – se ne partì in viaggio. E dovunque si fermasse, si vantava con chiunque d’aver con sé una borsa piena d’oro. Non è che mentisse, intendiamoci. La borsa ce l’aveva, infatti, oh se ce l’aveva, qui, bella, gonfia, stretta al fianco. Tant’è. Quel giorno sfilava per strade e piazze un’immane processione, con statue, ceri, pinnacoli e stendardi. Fu là dentro, fra i Deo gratias e i Miserere, che si fecero avanti due sorelle dai seni giganteschi come tabernacoli, donne di malaffare di quelle che l’oro lo fiutano come cagne. Insomma quel ragazzo se lo agguantarono fra dita inanellate e cosce profumate, da maliarde tutte labbra ciglia e lingua, e via via via via lo sfilarono dagli Osanna in excelsis Deo e se lo portarono appresso nella loro catapecchia che più sudicia non c’era. Dopo averlo in ogni parte sbaciucchiato, arraffata la borsa con i soldi, tiraron giù la leva d’un arguto marchingegno: nel letto si spalancò una botola e il cristiano cadde giù giù e giù ancora, giù a strapiombo, nel letamaio, giù, nella fogna, giù, e se possibile più giù dove il basso non ha il più basso. Buttato là sotto, fra i sorci e le blatte, nel buio intriso di tanfo, il poveraccio cominciò a strisciare mangiando merda e melma, fino a che riuscì nero come pece da non so che diavolo di pozzo. Ora, caso volle che da lì passassero per caso due avanzi di galera, che sentendolo piangere a singhiozzi si misero a guardare se in quel grumo puzzolente v’era per caso qualcosa di più da spremere. Lui ci cadde in pieno, urlava come un vitello che due balorde l’avevano gabbato, per cui quegli altri prima da par loro lo consolarono, poi lo fecero abboccare alla lenza: se voleva tornar di nuovo ricco, gli desse aiuto a fare il loro colpo. Per un pertugio dell’antico duomo l’avrebbero calato giù in una specie di cunicolo e là, là sotto, accanto al santo corpo morto d’un sacrosanto cardinale, c’era – Domineddio! – tutto l’oro del mondo. Loro da lassù gli avrebbero calato un cesto, ma prima di tirarlo su, bastava gli mandasse nulla più che quell’unico rubino, grosso come mezza mano, che stava incastonato sulla santa mitria d’oro del sacrosanto venerabile stecchito.

    E poi? Mi rimandate giù subito la corda?

    Immediatamente!

    E di tutto il resto del tesoro che ne faccio? chiese il ragazzo.

    Ti riempi più che puoi le tasche… fu la risposta, … dopodiché noi tiriamo su la corda, ed è cosa bella e fatta.

    Lui, asciugandosi i lacrimoni, fece cenno di sì col mento. E fu così che di nuovo – per la seconda volta in un giorno – finì sprofondato, giù e giù ancora, giù a strapiombo, e se possibile più giù dove il basso non ha il più basso.

    Stavolta però non v’eran ratti, ma un’aula bassa da sbatterci il capo, tutta zeppa di ceri e turiboli d’incenso, e i muri li vide ch’erano laccati, scolpiti dappertutto d’oro, ma d’un oro tronfio, santissimo e massiccio. Il corpo del cardinale stava steso in mezzo, coperto di diamanti e di zaffiri, di ex voto e di cuori trafitti. Il giovane si fece il suo coraggio: arraffò il rubino dalla mitria, lo infilò nel cesto, e come d’accordo lo rimandò su in alto. Ma poi? Accidenti. Per quanto aspettasse, con gli occhi su su su, non solo non tornò la corda: non tornò proprio più nulla…».

    Ma Filomena qui si fermò. Spalancò gli occhi neanche fosse davanti a un baratro. Faceva sempre così, ormai lo sapevano, faceva sempre così quando d’un tratto dimenticava il seguito. Non vedeva più niente, diventava come cieca, e la sua storia finiva nel buio.

    Per questo gli altri tre detestavano che prendesse a raccontare: si sarebbe irrigidita appena un po’ dopo l’inizio, lo sapevano, di lì a poco, quando la storia entrava nel vivo, lo sapevano. E allora?

    Allora toccava agli altri metterci del loro, inventando, perché nessuno più ricordava come fossero davvero le storie.

    Dioneo si alzò dunque in piedi, cercò il più stabile equilibrio delle sue gambe maldestre, raggiunse un angolo della stanza e lentamente guardò il soffitto, come se puntasse chissà cosa lassù in alto:

    «Per quanto aspettasse, con gli occhi su su su, non solo non tornò la corda: non tornò proprio più nulla… E mentre gridava a mo’ di un moccioso imbizzito, rosso paonazzo e stridulo, lo strasantissimo cardinale si mosse sul letto funebre. Fu come un fremito, neanche avesse freddo. Ma poi si tirò proprio su, a sedere sul sepolcro, e rideva di gusto: Benvenuto sottoterra, compare d’oltretomba. Ti hanno sepolto vivo o sbaglio?.

    Oh, misericordia! Vade retro! urlò quell’altro.

    Eh, no, no: Vade retro si usa col demonio, bellimbusto, io sono un santo.

    Ma io allora mi pento! Santità vostra, mi pento di tutto quel che ho fatto nella vita!

    Il cardinale si divertiva un mondo: E che hai fatto mai? Sentiamo.

    Il ragazzo si buttò ai suoi piedi, gli abbracciò le gambe. Mi pento di tutto! Mi pento di quando mi travestii da arcangelo Gabriele per godermi una devota!

    Benissimo, ma questo devi dirglielo all’arcangelo in persona: non ho né ali né spade di fuoco, ti sembro Gabriele?

    Stretto avvinghiato alle sue gambe, il giovane sbiancò: Siete allora san Pietro venuto a giudicarmi? Mi pento, l’ho detto, mi pento: una volta per vedere esposto sant’Arrigo feci finta d’essere storpio, e già che c’ero poi mi misi a camminare gridando ‘Miracolo!’.

    Ah, che spasso che sei tu! disse il cardinale che ridendo sputacchiava dai denti marci.

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