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Hyoukiba: Il guerriero
Hyoukiba: Il guerriero
Hyoukiba: Il guerriero
E-book449 pagine6 ore

Hyoukiba: Il guerriero

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Info su questo ebook

In una tragica notte degli Anni '80, i coniugi Bergmann, tedeschi residenti in Giappone a Yokohama, vengono brutalmente assassinati dai fratelli Yusuke e Kazuko Okimasa, boss di un piccolo clan della Yakuza. Rimasti orfani, i tre figli Magdalene, Christopher e Karl seguiranno tre diversi destini. È al piccolo Christopher che toccherà la sorte peggiore: rapito quella stessa notte da Hyotaru Yakuta, assassino al soldo degli Okimasa e maestro di un'antica e segreta disciplina marziale, viene portato in Cina e trasformato, negli anni, in un guerriero imbattibile e privo di sentimenti. Sedici anni dopo...
LinguaItaliano
Data di uscita12 gen 2018
ISBN9788833430065
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    Anteprima del libro

    Hyoukiba - Alessandro Ottino

    ALESSANDRO OTTINO

    HYOUKIBA

    IL GUERRIERO

    ALESSANDRO OTTINO

    HYOUKIBA IL GUERRIERO

    Prima edizione cartacea, gennaio 2017

    Isbn 978-88-3343-006-5

    Lello Lucignano Editore

    Tutti i diritti sono riservati. © Copyright LFA Publisher

    Via A. Diaz n°17 80023 Caivano - Napoli – Italy

    Tel. e Fax 08119244562

    www.lfaeditorenapoli.it - www.lfapublisher.com - info@lfapublisher.com

    Partita IVA 06298711216

    Facebook, Twitter, Instagram & Youtube: LFA Publisher

    PREFAZIONE

    sognavo di pubblicare un libro fin da quando ero un bambino in grado di scrivere solo al tempo presente, ed ora ritrovarmi con questo volume in mano mi fa davvero uno strano effetto.

    È come se il tempo si fosse fermato, trasportandomi ad oltre vent’anni fa, quando ancora non possedevo un computer, ed i racconti che scrivevo erano inchiostro su carta di quaderno.

    E pensare che devo la mia passione per la scrittura agli squali.

    No, non sono impazzito, ma devo proprio a quelle creature se nell’estate del lontano 1994 (o era il 1995?) iniziai a mettere per iscritto le mie idee.

    È una storia che vale la pena approfondire, perché iniziò quando guardai il film del 1975 di Steven Spielberg, Lo Squalo.

    Mi appassionò così tanto, che quando poco dopo trasmisero il sequel, Lo Squalo 2, quello del 1978, lo registrai ed iniziai a guardarlo e riguardarlo a raffica, senza dimenticarmi poi del terzo e quarto film della saga (sì, lo so, è un po’ macabro per un bambino delle elementari, ma d’altronde il battesimo del fuoco lo avevo già fatto, guardando parti della miniserie IT di Stephen King… e chissà perché odio i clown).

    Insomma, a furia di guardare uno squalo che si divorava le persone, iniziai a comprare libri e documentari, e quando imparai tutto sulle principali specie, diedi sfogo alla mia fantasia, mettendo per iscritto una serie di storielle di poche pagine di quaderno, che intitolai Lo Squalo 1, Lo Squalo 2, Lo Squalo 3 e così via fino al numero 16, uno per ogni specie.

    Venne poi il turno dei dinosauri, così mi inventai la versione ignorante di Jurassic Park, ed una serie di altri improbabili racconti (ne rammento solo uno che parlava di tsunami).

    Pagherei per poterli rileggere, ma l’alluvione che colpì il Piemonte nel 2000 se li portò con sé.

    Naturalmente, crescendo, la razionalità tolse spazio alla fantasia, e invece che scrivere iniziai a leggere partendo dai fumetti: Topolino e Paperinik, e poi Tex Willer. I Piccoli Brividi furono i primi libri che lessi, ed il primo vero romanzo si intitolava Meg, scritto da Steve Alten. Ah, parlava di uno squalo preistorico che riemergendo dalla Fossa delle Marianne… bè, si capisce.

    L’idea di scrivere un romanzo mi venne durante l’adolescenza, quando i temi scolastici risultavano di gradimento ai professori, posto che mi si chiedesse di parlare di attualità dando sfogo alla mia creatività, e non di sviluppare un tema su argomenti storico – letterari, altrimenti parlare di blocco dello scrittore sarebbe stato alquanto indicato: guardavo il banco pensando a cosa mangiare ai distributori automatici. Anche se ricordo di qualcuno al liceo che per due anni non apprezzò la mia capacità creativa, e a distanza di oltre tredici anni ancora non ho capito quale fosse il motivo.

    Ma scrivere richiede tempo e, almeno per quanto mi riguarda, una certa serenità. Cosa che, ai tempi del liceo, non potevo proprio dire di avere.

    Libero dagli obblighi scolastici, dopo qualche anno presi finalmente l’iniziativa e misi per iscritto questa storia. La scrissi tra il 2010 ed il 2011, anche se, a voler essere precisi, la prima parte del prologo probabilmente la scrissi un annetto prima, abbandonandola temporaneamente al suo destino, e credo che leggendola si possa notare una lieve differenza con le successive.

    In ogni caso, siamo nel 2017, e in tempi recenti la storia l’ho parecchio revisionata.

    Penso scrivere sia una di quelle cose che si impara e si migliora mano a mano che la si fa, e dato che nel frattempo ho messo per iscritto altri tre romanzi, oltre ad aver letto decine di libri, credo di avere un po’ migliorato e modificato il mio stile. Non a caso, poco tempo fa, la rilessi da capo, e dopo poche pagine mi chiesi se non fosse il caso di lasciar perdere ed abbandonare i tentativi di ricerca di un editore. Ve lo garantisco, era leggibile, ma poco ordinata e piuttosto acerba. I personaggi combattevano e basta. Avevo evidentemente parecchia rabbia repressa in quegl’anni.

    È iniziato così un lungo lavoro di revisione, dove nulla è cambiato a livello di trama, ma qualcosa in più è stato aggiunto, qualcosa che ora può dare un’identità migliore ai personaggi chiave.

    Tutte le locazioni e le informazioni sono state da me minuziosamente ricercate ed approfondite.

    Evito di iniziare un lungo e noioso sermone sulla lingua giapponese e mi limito a spiegare che il nome Hyoukiba, seguendo i canoni della lingua italiana, potrebbe essere letto semplicemente come iokiba, o iochiba se preferite, dato che il nostro alfabeto non comprende la lettera K. Per quanto riguarda gli altri nomi, la lettera K è sempre letta come un C dura (es. C di cane), mentre CH diventa la nostra C dolce (es. C di ciliegio).

    Questo per semplificarvi un po’ la lettura.

    Come detto, ho revisionato lo scritto della storia, ma ho lasciato immutate le note personali che trovate al fondo, dove leggerete che non sono un praticante di arti marziali, cosa non più vera. Non che io sia diventato chissà quale esperto, ma tre anni di pratica mi hanno trasmesso molte cose, anche a livello personale, che mi hanno permesso di arricchire un po’ il testo.

    Sempre al termine del libro, ho aggiunto una sezione di curiosità, dove riporto i vari riferimenti a film famosi che ho inserito (a volte inconsapevolmente) nella storia.

    Trovate anche una sezione con l’elenco dei personaggi.

    Suggerisco però di non leggere queste ultime cose fino alla fine, onde evitare spoiler.

    Non mi dilungo oltre, e ringrazio la LFA Publisher, e tutto il suo team, per avere reso il mio sogno una realtà.

    Grazie.

    A mio fratello Stefano

    "Since I ran into my fate

    I saw big mistakes that

    I’ve done the past few years

    No wonder I am guilty

    and stuck."

    Wasted; - Crossing Belt

    <>

    ANTEFATTO

    Arnhold Bergmann ormai era un uomo finito, e di questo ne era consapevole, nonostante i suoi soli trentacinque anni.

    Quando la società automobilistica per la quale lavorava ad Amburgo, in Germania, gli aveva chiesto di trasferirsi in Giappone, nel 1981, come agente commerciale, aveva creduto che sarebbe stata un’avventura davvero fantastica. A maggior ragione lo aveva pensato quando Lydia, sua compagna dai tempi dell’università, di un anno più giovane di lui, aveva deciso di seguirlo ed iniziare una nuova vita insieme al suo compagno nel Paese del Sol Levante.

    All’epoca, la loro primogenita era già nata, e quindi per Lydia seguire suo marito in Giappone era stato quasi un dovere, più che per sé stessa, per la piccola Magdalene, che aveva bisogno della figura del padre, al quale era molto legata.

    Era il 1985, Magdalene aveva ormai raggiunto i dieci anni d’età e, a differenza della madre, parlava il giapponese già discretamente bene, ad un livello quasi pari a quello del padre, che lo aveva studiato in Germania prima di partire. Si era molto ben inserita nella scuola che frequentava, ed era anche molto ben voluta dai suoi amici.

    Le cose poi tra Arnhold e Lydia avevano funzionato a meraviglia. Dopo poco più di un anno che si erano trasferiti a Yokohama, nel 1982, era nato il loro secondogenito, Christopher, ora di tre anni, e da appena tre mesi era nato anche il terzogenito, Karl.

    Una famiglia felice.

    Ma le cose erano destinate a cambiare.

    Arnhold aveva preso il vizio del gioco d’azzardo, ed era ormai cliente fisso di una piccola casa da gioco clandestina, chiamata "Sasori", lo Scorpione, nel distretto portuale di Yokohama.

    Era scontato che tale posto fosse di proprietà della mafia giapponese, da cui sarebbe stato meglio girare alla larga. Il gioco d’azzardo, infatti, in Giappone è severamente vietato.

    Arnhold aveva iniziato a frequentare il Sasori da un paio di mesi, insieme ad alcuni suoi colleghi giapponesi. Date le enormi vincite iniziali, non era stato difficile per la febbre da gioco impadronirsi della sua mente. Presto aveva iniziato a perdere moltissimi yen, e la sempre maggior voglia di rivincita lo avevano portato ad accumulare debiti per lui impossibili da ripagare.

    Lydia era ormai consapevole che la situazione fosse ai limiti del tollerabile, il marito era indebitato fino al collo, al punto che le minacce di morte erano ormai all’ordine del giorno, e premeva per chiamare in causa la polizia locale.

    E così avevano fatto.

    Il quotidiano locale del 16 Aprile conteneva un vasto articolo sull’arresto di alcuni giocatori d’azzardo e della relativa chiusura di una bisca clandestina.

    PROLOGO

    Tokyo, Giappone, 1985

    Il pomeriggio del 28 aprile, a Tokyo, nello sfarzoso quartiere di Shinjuku, in un alto palazzo costruito di recente a ridosso dello Shinjuku Gyoen, il grande parco della zona, un enorme uomo di colore, alto più di un metro e novanta, attendeva pazientemente che il suo ascensore giungesse all’ultimo piano, il diciottesimo. L’attesa era noiosa, il palazzo era entrato in funzione da poco, e nonostante i fratelli Okimasa, proprietari della costruzione, non avessero badato a spese, l’ascensore in dotazione non era certo uno dei più veloci che gli anni Ottanta di Tokyo avessero visto. Persino lui, l’americano trentatreenne Charles, chiamato da tutti Kuma, Orso, per il suo metro e novanta d’altezza e i suoi centodieci chili di muscoli, aveva utilizzato ascensori migliori e ben più veloci a San Francisco, sua città natale, dove aveva vissuto fino a circa tre anni prima.

    Kuma aveva trascorso gli ultimi mesi della sua vita americana a San Francisco nel carcere di San Quintino, per aver causato l’incendio doloso del palazzo della compagnia assicurativa per cui lavorava, e che lo aveva licenziato, finché non aveva incontrato Kazuko Okimasa, il minore dei due fratelli, che in quel periodo si trovava a San Francisco per affari e che, venuto a conoscenza della storia, aveva pagato la cauzione in cambio del suo trasferimento a Tokyo come bodyguard dei fratelli, essendo l’afroamericano un’imponente cintura nera di Karate.

    Da allora Kuma serviva fedelmente i suoi datori di lavoro.

    L’ascensore si aprì, e Kuma percorse il breve tratto che lo separava dall’ufficio di Yusuke Okimasa, il fratello maggiore di Kazuko. Si trovava su una balconata, che dava su una hall sottostante molto ampia. Arrivò di fronte alla porta blindata di vetro, ed entrò senza bussare.

    Ogni volta che entrava in quell’enorme ufficio, lungo una dozzina di metri e largo almeno cinque, ne restava affascinato: il pavimento era in pietra levigata e lucida, di un grigio dalle svariate tonalità, nella quale ci si poteva quasi specchiare, per non parlare dei mobili in legno pregiato e la scrivania in vetro. Alle spalle di essa, una piccola vetrata a semicerchio, con un raggio di un metro e la cui base di circa un metro e mezzo poggiava sul pavimento, permettendo la vista sul parco sottostante e l’ingresso al palazzo.

    Kuma si avvicinò alla scrivania di Yusuke. Questi era un uomo sulla quarantina, piuttosto paffuto, alto un metro e settanta, con i capelli neri lunghi fino alle spalle ed un accenno di calvizie.

    <> chiese Yusuke, restando seduto alla scrivania e mostrando un’ottima padronanza della lingua inglese. Accennò un sorriso e sollevò lo sguardo da alcune fotografie che aveva sulla scrivania di vetro.

    <Sasori>> disse Kuma, con la sua profonda voce baritonale. Mostrò una copia di un giornale locale.

    Kuma non sapeva parlare molto il giapponese, anzi, era a malapena capace di fare un discorso sensato, tuttavia era in grado di comprendere a grandi linee alcuni testi, come i titoli dei quotidiani.

    <> gli rispose Yusuke, con una lieve sfumatura di noia nella voce, <> spiegò, con un lieve sorriso sulle labbra che non presagiva nulla di buono nelle sue intenzioni.

    <> appoggiò i gomiti sulla scrivania, incrociò le dita delle mani e vi appoggiò sopra il mento.

    <> sentenziò.

    <> chiese Kuma, sedendosi alla scrivania. Una domanda piuttosto retorica.

    <> rispose calmo Yusuke, che poi cambiò d’un tratto espressione. I suoi occhi si ridussero ad una fessura e la sua voce si fece un sussurro: <>

    Kuma rimase sorpreso. Se da un lato non era certo la prima volta che Yusuke ricorreva a certi metodi, da un altro era anche vero che mai aveva proposto una così drastica soluzione. Sterminare un’intera famiglia pareva decisamente troppo anche per Kuma, e Yusuke notò l’espressione del suo gorilla, un misto di stupore e dissenso.

    << Ora di aumentare il nostro prestigio. Chiunque deve sapere che il clan Okimasa non perdona affronti>> spiegò Yusuke.

    <> domandò Kuma, cercando di mantenere un tono composto.

    <<È un atto di forza. Voglio che tutti i clan di questa città lo sappiano. Andrò io di persona ad assistere alla punizione.>>

    Kuma di nuovo mostrò la sua sorpresa. Mai prima d’ora Yusuke Okimasa aveva partecipato in prima linea a questo genere di cose. Il fratello Kazuko sì, ma Yusuke mai.

    <> si volse verso una delle foto appese alla parete, che ritraeva suo fratello Kazuko dalla cintola in su, a braccia conserte, con il taglio dei capelli neri a spazzola ed il pizzo nero, a braccia incrociate, vestito con una casacca gialla senza maniche, <<… sono suoi i soldi che il Signor Bergmann ha ricevuto in prestito per continuare a giocare, quindi ci tiene a presentare il conto di persona. In ogni caso, vista la sua imminente partenza, sarà della partita anche il Maestro Yakuta.>>

    Kuma spalancò la bocca, e passarono un paio di secondi prima che riuscisse a parlare. <>

    Ed era vero: Kazuko Okimasa era un maestro di Kung Fu, nonostante avesse appena ventidue anni, ed era un tiratore infallibile pistola alla mano, perfettamente in grado di compiere da solo la spedizione punitiva. Allora perché disturbare il Maestro Yakuta?

    Hyotaru Yakuta era un mercenario sul libro paga degli Okimasa. Apparteneva ad una misteriosa stirpe segreta di guerrieri, in cui vi era un solo maestro con un solo allievo in tutto il mondo. Yakuta era l’ultimo di questi guerrieri, poiché il suo maestro si era da tempo ritirato. Yusuke non aveva mai posto tante domande a riguardo, quel che contava per lui era avere a disposizione un uomo la cui forza, agilità ed intelligenza, in termini di azione, non fosse inferiore a nessuno.

    Per questo Kuma rimase stupito dalla sua partecipazione.

    <>

    Kuma ascoltava quasi sconvolto. Yusuke lo aveva messo al corrente di notizie finora impensabili. Una famiglia tedesca stava per essere uccisa in persona dai fratelli Okimasa, accompagnati da un misterioso mercenario che lui stesso aveva visto poche volte, e che di lì a poco sarebbe partito per la Cina più remota ad occuparsi di traffici di droga. Robe da non credersi.

    <> disse Kuma, che venne quasi interrotto da un gesto della mano di Yusuke: <> e lo osservò alzarsi ed uscire, dopodiché tornò a guardare le foto che aveva sulla scrivania.

    Scattate evidentemente di nascosto, ritraevano la famiglia Bergmann, coloro che avevano osato sfidare gli Okimasa e che presto avrebbero pagato con la vita il loro gesto.

    Quella sera Arnhold era di umore cupo. Sapeva che aver denunciato i suoi creditori poteva essere stata una mossa molto pericolosa. Nonostante fossero passate due settimane dalla chiusura del Sasori, non riusciva a restare tranquillo. Si sentiva osservato, minacciato. Così, quella sera, poco prima della cena, propose la sua idea drastica, ma all’apparenza l’unica plausibile: tornarsene in Germania.

    <> sbottò rassegnata sua moglie Lydia, in preda alla frustrazione.

    Il suo viso tirato la faceva sembrare più vecchia. Negli ultimi tempi la tensione per l’incolumità di suo marito le aveva tolto quella bellezza tipica delle donne del Nord Europa. Carnagione chiara, occhi azzurri e capelli biondi ambrati, Lydia era certamente una bella donna, ma il suo viso angelico aveva da tempo lasciato spazio ai segni dello stress e della paura.

    <> Arnhold si voltò verso la scala che portava al piano di sopra, fissando con i suoi grandi occhi verdi il piano superiore, pensando al neonato Karl che dormiva beato nella stanza dei genitori, nel suo lettino.

    Lydia lesse la preoccupazione nel suo sguardo ed osservò suo marito per qualche istante. Era sempre di aspetto gradevole, capelli corti castani scuri ed un fisico tendente al magro. Ma anche su di lui pesava la tensione delle ultime settimane, ed il suo sguardo rivolto al piano superiore, fece automaticamente girare Lydia verso la finestra che dava sul cortile, attraverso cui si vedeva nella penombra il loro secondo figlio, Christopher, che giocava con il gatto del vicino afferrandogli la coda.

    <> disse Arnhold, mentre la moglie si alzava ed usciva in cortile, senza dargli risposta.

    Fuori, il piccolo Christopher stava ancora giocando con il gatto, che però pareva non gradire troppo il trattamento che gli veniva riservato.

    <> lo sgridò sua madre, prendendolo in braccio e spaventando il gatto affinché si allontanasse.

    <<Neko wa desu!>> disse divertito il bambino, che iniziava a masticare un po’ di lingua giapponese grazie agli insegnamenti del padre ed alla straordinaria capacità infantile di assimilare informazioni.

    <> gli disse con dolcezza Lydia, dandogli un bacio in fronte. <> continuò Lydia con un gran sorriso, fissando il figlio negli occhi.

    Christopher era davvero un bel bambino, con due grandi occhi verdi come quelli del padre ed i capelli biondi folti e lunghi fin quasi alle orecchie, a differenza di sua sorella maggiore, che seppur avesse gli occhi azzurri della madre, aveva i capelli di un castano scuro come quelli del padre.

    <> disse allegro Christopher, con un’affermazione assolutamente innocente.

    <> gli disse sua madre, sempre tenendolo in braccio e fissandolo negli occhi, questa volta in tono più serio di prima.

    Il bimbo sorrise ancora ed annuì intensamente.

    <> chiese una voce di un tedesco incerto proveniente dal marciapiede di fronte al loro cortile sprovvisto di cinta. Un signore stava smontando dalla bicicletta.

    <<Konbanwa, Murai sensei>> gridò Christopher, che riconobbe Murai, l’amico di famiglia. Era stato maestro di giapponese di sua sorella, e faceva parte di un gruppo di monaci buddhisti residenti in un tempio non molto distante dalla loro casa, e nel quale Lydia si recava tre volte a settimana a sistemare il giardino.

    <<Konbanwa, Christopher san>> rispose il monaco, inchinandosi senza mai distogliere lo sguardo da Lydia e suo figlio. Il bimbo le scese dalle braccia per andare a fare un piccolo inchino davanti a Murai, il quale sorrise e gli diede una carezza in viso.

    Murai era un piccolo monaco completamente calvo, come voleva la tradizione buddhista, ed aveva una carnagione piuttosto olivastra. Figlio di padre giapponese e madre thailandese, il settantenne monaco Murai vantava esperienze di viaggi spirituali sia in Thailandia, sia in Germania, dove aveva diretto la piccola comunità buddhista berlinese per poco più di tre anni, prima di decidere di tornare in Giappone, dove con sua grande sorpresa aveva conosciuto i Bergmann grazie a Lydia, e con i quali aveva legato immediatamente, data anche la sua discreta conoscenza della lingua tedesca.

    <> lo salutò Lydia, che nonostante lo conoscesse da molto tempo, manteneva sempre un linguaggio molto ossequioso nei suoi confronti.

    Christopher fu il primo a correre in casa, annunciando al padre che era arrivato Murai.

    La cena in compagnia dell’amico trascorse tranquilla fino a che, finito di mangiare, Arnhold decise di spiegare al monaco la sua decisione: <>.

    <> ricordò amaramente Murai, <> continuò, allargando le braccia e guardando Lydia. <>

    Murai era molto legato a Magdalene, essendo la bambina stata sua allieva per i primi tempi in cui i Bergmann si erano trasferiti a Yokohama. Lui le aveva insegnato la lingua giapponese, e la bambina gli si era molto affezionata. In verità il monaco era legato a tutta la famiglia da un profondo sentimento d’amicizia, e in cuor suo sperava di poter ripetere la positiva esperienza anche con Christopher quando sarebbe stato il momento, e poi con Karl, quando sarebbe cresciuto. Ma i Bergmann stavano per tornare in Germania, e lui non poteva non salutare la sua piccola allieva.

    <> propose Lydia.

    <> chiese Murai.

    <> Lydia parlò a voce bassa, e per un attimo Murai pensò che le venisse da piangere.

    << È  una bambina intelligente. Saprà farsene una ragione. Lydia, il dolce…>> disse sorridendo Arnhold, cambiando discorso, in modo da non rendere tristi gli ultimi momenti che avrebbero passato con l’amico monaco.

    La notte era inoltrata già da un pezzo. La sveglia sul comodino a fianco del letto matrimoniale dove dormivano i coniugi Bergmann segnava quasi l’1.30 di notte. Fuori non si sentiva un rumore. Murai dormiva profondamente nel letto di Magdalene, accanto a quello di Christopher, che era girato su un fianco in posizione fetale, con una manina sotto la guancia. La casa era immersa nel buio. Solo l’illuminazione artificiale della via le donava una sfumatura bianca.

    In quel momento, da una curva cento metri prima della casa, apparve una piccola macchina nera a fari spenti, una Honda Civic Hatchback del’78.

    <> disse un giovane ragazzo, seduto dietro il sedile anteriore del passeggero. Aveva baffi e pizzetto uniti e i capelli tagliati a spazzola. Portava una giacca da imprenditore nera su una camicia azzurra.

    <> rispose il conducente, un tipo giovane dai capelli lunghi fino alle spalle e completamente spettinati. Sembrava avesse messo le dita in una presa di corrente.

    <> chiese una voce gelida, proveniente dal posto dietro il conducente.

    <> rispose distrattamente Kazuko Okimasa.

    <> disse divertito Yusuke, dal sedile anteriore sinistro a fianco del conducente.

    <> ordinò, e molto lentamente il conducente fermò l’auto, dopodiché scese per andare ad aprire la portiera al padrone.

    Yusuke scese, e l’autista sollevò il sedile anteriore del passeggero, in modo da far scendere i due seduti dietro.

    Kazuko scese per primo.

    <> disse sarcasticamente il Maestro Hyotaru Yakuta, che portava un particolare vestito lungo fino alle caviglie, rosso fuoco, con incise rune e disegni di un giallo acceso. Era calvo, ma dalla nuca partiva una lunga e sottile treccia di capelli neri, che gli arrivava quasi fino a metà della schiena. Dimostrava all’incirca cinquant’anni.

    <> spiegò Yusuke, quasi divertito dalle lamentele di Yakuta.

    <> ordinò Kazuko all’autista, mostrando il suo quasi metro e ottanta di altezza.

    Lo spettinato tornò a sedersi in auto.

    <> Yusuke sorrise e, insieme, i tre si avviarono verso quella casa bianca a due piani, con una bicicletta coricata in mezzo al cortile.

    Quando il campanello di casa suonò, la prima a svegliarsi fu Lydia. In una frazione di secondo capì che per nessuna ragione potessero essere i Takudo, la famiglia da cui era Magdalene. Immediatamente si voltò verso Arnhold, che si stava mettendo a sedere sul letto.

    <> borbottò l’uomo, dopodiché, evidentemente con la mente annebbiata dal sonno, si avviò verso le scale che scendevano al piano inferiore.

    Lydia aveva una brutta sensazione. Prima di fermare suo marito, decise di andare da Murai, che si stava giusto affacciando al corridoio in quel momento.

    <> chiese il monaco.

    <> rispose Lydia, e scese di corsa le scale, due gradini per volta, bloccando il marito appena prima che allungasse la mano verso la chiave infilata nella porta d’ingresso. <> sussurrò al marito, che la guardò un pochino imbarazzato, forse per aver capito di non essersi reso conto di cosa stesse succedendo.

    Prima che potesse rispondere alla moglie, una voce cupa, minacciosa e gracchiante, come quella di un uomo grasso, risuonò fuori dalla porta: <>

    <> rispose Arnhold in giapponese, con fare di sfida.

    La risposta fu un sonoro crack, e la porta che si abbatté violentemente addosso al Signor Bergmann, facendolo volare indietro. Lydia venne anch’essa urtata dalla porta, ma non cadde. Le bastò osservare il primo dei tre uomini sulla porta per capire cosa li aspettava, un individuo vestito di bianco, sul metro e settanta, discretamente grasso e con un sigaro cubano acceso in bocca.

    In un disperato gesto d’affetto e protezione materna, si voltò e corse su per le scale, per raggiungere i suoi figli, ma un proiettile sparato con una pistola dotata di silenziatore da Kazuko Okimasa la fermò a metà della scala, colpendola ad una gamba.

    Il suo urlo di dolore attirò l’attenzione di Murai, che era in quel momento nella stanza dei coniugi Bergmann, intento a sollevare un addormentato Karl dal suo lettino. Posò il neonato sul letto dei genitori e si affacciò nel corridoio. Dato che la stanza dei coniugi era la prima del piccolo corridoio del piano superiore della casa, poté vedere Lydia distesa sulla scala, con lo sguardo sofferente e terrorizzato. Stava osservando proprio il punto in cui il monaco si trovava.

    <> disse Lydia, in tedesco per non attirare l’attenzione dei killer, più in un ringhio di dolore che in un urlo disperato.

    Murai non stette a pensarci. In un lampo aveva di nuovo Karl in braccio, che continuava a dormire ignaro di cosa stesse succedendo. Si diresse verso la camera di Magdalene e Christopher, ma il bambino non c’era più. Doveva aver sentito tutto, forse era scappato via, pensò Murai, ma non c’era tempo di cercarlo. Dal piano di sotto, una voce aveva appena pronunciato le parole: <>, quindi presto qualcuno sarebbe salito a prendere Lydia, e lui non poteva rischiare di farsi trovare in una delle stanze che certamente sarebbero state perquisite.

    Non c’era altra soluzione che uscire dalla finestra della camera dei bambini, che dava su una piccola porzione di tetto pendente sul quale era possibile camminare.

    Kazuko sollevò per un braccio Lydia, che si dimenò inutilmente, e la trascinò con forza giù per la rampa di scale.

    Arnhold era ancora disteso a terra, accanto alla porta spaccata quasi a metà. Osservava impotente la moglie che gli veniva gettata a fianco in malo modo, poi, in un urlo rabbioso, si rivolse ai tre che gli stavano di fronte: <>

    <> disse in tono calmo Yusuke Okimasa, tirando dal sigaro.

    <<È per il Sasori, vero? Per i soldi che vi devo? Ve li farò avere! Prendetevela con me, ma lasciate stare mia moglie e i bambini!>>

    <

  • > Lydia non finì la frase in tedesco rivolta a suo marito. Una pallottola la colpì in piena fronte. Cadde riversa sulla schiena con un foro in fronte.
  • L’urlo di Arnhold venne soffocato da una rapida presa per la gola da parte di colui che fino a quello momento ancora non aveva aperto bocca, il Maestro Yakuta.

    Arnhold strinse con forza il braccio di Yakuta, che però non mollò la presa, mentre Kazuko sussurrò all’orecchio del malcapitato:

    <>, riferendosi all’esecuzione della moglie, <<… e adesso toccherà ai tuoi figli, prima che anche tu passi a miglior vita. Così avrai il tempo di riflettere su cosa succede a chi pesta i piedi ai fratelli Okimasa>> continuò spietato, dopodiché si avviò su per le scale a cercare i bambini.

    In un lampo Kazuko fu al piano superiore ed entrò nella stanza dei coniugi Bergmann. Qui osservò la stanza, notando che il lettino del neonato era vuoto. Corse nella stanza che si trovava di fronte, era lo studio di Arnhold, ovviamente vuoto. Si spostò nella stanza a fianco, quella di Magdalene e Christopher. Qui notò i due letti disfatti e toccò quello vicino alla finestra. Era caldo. In quei due letti ci aveva dormito qualcuno, fino a pochi istanti prima. Osservò la finestra: chiusa. Difficile che due mocciosi potessero uscire da quella finestra, di certo non un bimbo di tre anni che non arrivava al davanzale, e benché meno un neonato, pensò. Forse la più grande avrebbe potuto, ma dal momento che la finestra era chiusa, Kazuko non si pose il problema e tornò alle scale, dopo aver controllato il bagno e guardato dalla finestra al fondo del corridoio, che dava sul retro della casa.

    <> disse leggermente incollerito, scendendo le scale.

    Un accenno di sorriso comparve sul volto di Arnhold, e Yusuke Okimasa se ne accorse.

    <> ordinò calmo, e Yakuta mollò la presa alla gola di Arnhold, che trasse un profondo ed affannoso respiro, poi tossì.

    <> chiese Yusuke, con un tono di voce quasi assente. Si guardò intorno, poi tornò a fissare l’uomo che intanto si era rimesso in piedi.

    <> disse in tedesco, e cercò di colpire con un

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