Fiori di Sambuco
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Anteprima del libro
Fiori di Sambuco - Giuseppe Bartolini
LUCCIOLE E FIORI DI SAMBUCO
Loreto 1956
Che emozione uscire di sera, al buio, dopo cena e magari fino a mezzanote e oltre!
A nove anni era un'esperienza straordinaria. Insieme con mio padre andavo a cantare la messa di Natale. Prima si passava sotto i portici del Santuario per la vestizione nella sala prove: una tunica rossa e un camice bianco. Poi si entrava in chiesa per la porta principale e subito a destra si saliva su per la stretta scala a chiocciola in ferro battuto fino al coro: un grande balcone in legno dominato dalla presenza del bellissimo organo.
Mio padre però mi aspetava sotto e seguiva la messa con gli altri. Anche lui aveva cantato nel coro per molti anni, ma nel 1956 era stato licenziato, insieme con altri coristi che avevano la sola colpa di essere comunisti. La Chiesa non poteva più accettare dei cantori che, pur essendo dei bravi cristiani in tutto e per tutto, avevano il torto di votare comunista.
Quella decisione fu un brutto colpo per le finanze della nostra famiglia, perché cantare nel coro era un lavoro ben retribuito. A quella disgrazia si aggiunse poi la perdita del suo lavoro, per crisi industriale, nella fabbrica di fisarmoniche di Castelfidardo. Forse queste due novità furono alla base della decisione di mandarmi in Perù dallo zio d'America. Le mie due sorelle lavoravano sì ma da poco, in una fabbrica di corone da rosario.
Ma forse ci fu un'altra motivazione mai individuata con precisione. Mio zio Ubaldo, in migliori condizioni economiche di mio padre, potrebbe avergli proposto di farsi carico della mia istruzione come risarcimento per averlo lasciato solo, dopo la sua emigrazione in Sudamerica, a sostenere il carico economico del padre anziano e della sorella minore.
Anch'io guadagnavo qualcosa cantando nel coro e qualche mancia prendevo anche servendo la messa. Ogni mattina, prima di andare a scuola, andavo in chiesa, nella grande basilica mariana, a fare il chiericheto e dopo aver servito la messa rimediavo qualche lira, soprattutto dai preti che venivano da altre parrocchie a dire messa nel grande Santuario. Mi ronzano ancora in testa le litanie lauretane: Auxilium christianorum ora pro nobis, Mater purissima ora pro nobis, Virgo clemens ora pro nobis, Turris eburnea ora pro nobis, ecc. ecc.
Nel pomeriggio, dopo i compiti, tutto era più bello. La nostra casa era proprio ai limiti della cità, dove incominciavano gli orti e i campi e le strade non erano asfaltate. L'asfalto urbano arrivava fino alla scalinata. Sotto, davanti al mio portone, iniziava la lunga striscia bianca di terra battuta, che si vedeva scodinzolare fino alle colline di fronte, a Castelfidardo, dall'altra parte della vallata.
Dalla mia finestra vedevo mezzo mondo: tutta la valle del Musone, dal Monte S. Vicino sugli Appennini, al Monte Conero sulla costa adriatica. Dalla piramide tronca al leone accovacciato. Vedevo formarsi lontano i temporali e avvicinarsi impetuosi con lampi e tuoni cancellando le montagne.
A maggio le strade di campagna erano fiancheggiate da grandi siepi in fiore e da alberi di sambuco. I grandi fiori bianchi, i panighi, piacevano tanto ai coleotteri con la corazza verde, i volantini. Noi li catturavamo facilmente e ci divertivamo a mettergli un guinzaglio al collo con il filo da cucito della mamma, per farli volare a piacimento. La sera li mettevamo dentro una scatola delle scarpe, bucherellata apposta per farli respirare e rifornita di profumati fiori di sambuco per farli mangiare.
Zio Umberto faceva il calzolaio in una stanza sotto casa. Ci faceva divertire con i suoi canarini che rallegravano l'ambiente e con i suoi misteriosi movimenti dei muscoli bicipiti mentre teneva una mano dietro la testa.
A luglio i rumori della trebbiatrice, la macchina da batte, invadevano la via. Prima si sentiva in lontananza il classico battito di un trattore che si avvicinava lentamente trainando una lunga carovana composta da trebbia, scala, scaletta e carretto dei lubrificanti e carburanti. Noi bambini le correvamo incontro per vedere quello spettacolo fantastico di una grande macchina rumorosa di colore rosso, con grandi ruote di ferro, lunghe cinghie di cuoio, scatole oscillanti, nuvole di paglia svolazzante. Il corteo entrava nell'aia, già predisposta per la trebbiatura con grandi cumuli di covoni. Poi decine di operai trebbiavano per molte ore in un frastuono impressionante. La campagna sembrava diventata una fabbrica o un luna park.
La trebbiatrice era una grande cassa di legno montata su un carro a quatro ruote della lunghezza di circa sei o sette metri dal colore arancione rossiccio. Dai lati sporgevano delle assi sulle quali erano montate delle pulegge, che trasmetevano il movimento a lunghe cinghie di cuoio. In questa macchina venivano introdoti i covoni di cereali, (grano, orzo, segale, avena ecc. e dalle varie uscite venivano fuori, separati, la paglia, la pula e i chicchi).
Oggi pochi operai eseguono tutto quel lavoro con una sola macchina, la mietitrebbiatrice che è in grado di mietere ed allo stesso tempo trebbiare.
Durante le pause del lavoro poi, i contadini si sedevano a mangiare all'aperto. C'erano lunghi tavoli di legno improvvisati con tavole e cavalletti. Il profumo del sugo della pasta era inebriante e qualche frutto o un pezzo di pane lo rimediavamo sempre.
In primavera le contadine del Ponte, così chiamavamo Villa Musone, una frazione cresciuta intorno a un ponte sul fiume Musone, risalivano la ripida strada per portare in paese i loro prodotti, specialmente la ricotta, avvolta nelle grandi foglie di fico. Portavano il carico in una grande cesta di vimini che appoggiavano sulla testa, dopo avervi arrotolato un telo creando così una stabile base d'appoggio.
Una di queste donne era la moglie del mio Santolo, il padrino del battesimo.
Le sere d'estate erano affollate di gente che passeggiava o che chiacchierava seduta per terra o su piccole sedie davanti o casa. Lentamente le lucciole punteggiavano, rischiaravano il buio e animavano le conversazioni.
Di giorno sulle piccole sedie davanti a casa sedevano le donne con un vassoio di legno sulle gambe. Mentre conversavano o spettegolavano, agitavano velocemente con destrezza le moiole, piccole pinze appuntite con le quali attorcigliavano il sottile filo di ferro per concatenare i batocchi e comporre le corone da rosario.
Si trattava di lavoro a domicilio che le numerose piccole aziende di articoli religiosi commissionavano a tutte le famiglie di Loreto. Si può dire che non c'era donna a Loreto che non avesse imparato a fare le corone da rosario.
D'inverno si stava tutti rannicchiati in cucina, l'unica stanza riscaldata. Il camino occupava gran parte della parete opposta a quella della porta. Il fumo e la cenere volavano su per la canna fumaria, certo, ma in gran parte aleggiavano per la stanza sopra la lampadina che pendeva dal centro del soffito. Quando si cucinava poi, la foschia in cucina era fitta-fitta. Le pentole erano appoggiate su un ripiano rivestito di mattonelle e forato, con griglia di ferro, in corrispondenza dello spazio sottostante, dove ardeva la carbonella. Un altro foro frontale, sul muretto di sostegno, permetteva di introdurre, in quello spazio, la carbonella e di alimentare il fuoco agitando, sventolando, una sorta di ventaglio di grandi piume, tenute insieme con un manico di legno. Questo sventagliamento serviva ad attizzare il fuoco, ma la produzione di fumo e lo svolazzamento di cenere erano altretanto garantiti.
La prima rivoluzione in cucina che ricordo fu quella della cucina economica a legna. Un cubotto di metallo di circa un metro di lato, con i fornelli, era collegato a un tubo di alluminio, o di acciaio laccato, per lo scarico dei fumi nella canna fumaria, senza dispersioni moleste. Il ripiano di ghisa poteva essere aperto, togliendo uno o più anelli, formando così un foro della dimensione più adata al diametro della pentola prescelta. Al di sotto c'era il focolare in ghisa, chiuso con uno sportello, per introdurre la legna da ardere che prima era stata appoggiata, ad asciugare, nel più grande sportello sottostante. A fianco del focolare c'era lo sportello del forno. Tutta una cucina concentrata in un mobile solo. Inoltre, sul ripiano c'era anche una pentola rettangolare con una lunga protuberanza inferiore nascosta in un incavo del mobile, per scaldare l'acqua in continuazione, per cucinare o anche per lavarsi, visto che in casa non c'era l'acqua calda corrente. A dire il vero per molti anni non c'era stata neppure l'acqua fredda corrente. Bisognava uscire di casa e andare alla fontana pubblica, a cinquanta metri di distanza, per rifornirsi di acqua.
La seconda rivoluzione fu quella del fornello a gas. Sopra un mobiletto alto circa un metro, una piastra di acciaio conteneva due o tre fornelli. La fiamma si otteneva accendendo il gas con un accendino piezoelettrico, senza pile, che emetteva una scintilla premendo un tasto.
Il gas raggiungeva i fornelli dalla bombola nascosta nel mobiletto sottostante attraverso un tubo di gomma, aprendo una piccola manopola di plastica, che consentiva di regolare il flusso e quindi l'intensità della fiamma. La bombola, un oggetto esplosivo molto pericoloso, veniva consegnata a domicilio, con tute le cautele, da un servizio specializzato.
A quel punto la cucina economica diventò solo una stufa per riscaldare l'ambiente e per cucinare ogni tanto soprattutto con le pentole più grandi.
Abitavamo al secondo piano. Il gabinetto era fuori al freddo, all'interno di un piccolo vano, quasi un balcone coperto con sottili pareti di mattoni forati. Sopra un muretto c'era un buco, coperto con un asse di legno, che comunicava diretamente con un tubo di cemento addossato al muro esterno della casa e collegato con la fognatura. Soltanto negli anni sessanta si costruì un bagno interno, grazie al finanziamento dello zio d'America. Lui in Perù, già dagli anni cinquanta, aveva una casa con tre bagni con tuti i servizi. Durante una visita nel 1960 convinse il fratello ad ampliare la casa, a costruire una doccia e installare una caldaia a legna, per avere l'acqua per il bagno, la cucina e i radiatori per il riscaldamento in ogni stanza. Prima il bagno si faceva in cucina, dentro la mastella, la grande vasca di metallo di circa 60 cm di diametro e altretanto di altezza, che si usava anche per fare il bucato.
Fino ad allora, in camera da letto si andava solo per dormire, dopo che il letto era stato riscaldato infilando tra le lenzuola il prete, una sorta di gabbia di legno di forma ovoidale, all'interno della quale si appoggiava la monaca, un braciere pieno di carboni accesi.
Le pescivendole venivano a piedi al mattino, per cinque chilometri, da Porto Recanati, spingendo i loro carretti carichi del pesce pescato dai loro mariti. Entravano a vendere nel mercato comunale coperto e tornavano a casa nel pomeriggio. Vestivano tutte di nero, come le altre donne di Porto Recanati, che venivano a vendere le stoffe casa per casa. Questa divisione del lavoro tra uomini e donne di Porto Recanati aveva finito per definire anche i rapporti di potere economico a vantaggio delle donne che gestivano il denaro ricavato dalla vendita del pesce e delle stoffe.
Quei carretti - i carioli - li costruivano mio padre e mio nonno. Avevano una bottega dove fabbricavano carri per l'agricoltura - i birocci - carrozze per la città e ogni tipo di carretto per trasportare merci.
Il padre di Arduino, un mio compagno di scuola, usava un carro, costruito da mio padre, trainato da un cavallo per andare a vendere le sue merci.
L'avvento dell'automobile ha fatto scomparire tutto questo, ma negli anni cinquanta c'era ancora qualcuno che utilizzava questi carri o che usava gli animali come forza motrice al posto del motore a scoppio.
Io gironzolavo sempre intorno alla bottega fin da piccolissimo. Il mio primo gioco-lavoro fu quello di raddrizzare i chiodi, perché non si usava buttare un chiodo appena un po' storto. Mi sedevo per terra a gambe larghe e battevo il chiodo storto con un martello su una base di ferro. Non so quante volte ho colpito un dito al posto del chiodo. Sbagliando s'impara.
Il momento più divertente del lavoro in bottega era il montaggio del cerchio di ferro sulla ruota di legno. Davanti alla bottega il cerchio veniva scaldato per dilatarlo. Disteso per terra, veniva ricoperto di legneti e di ricci, gli scarti di lavorazione del legno che prendevano fuoco più facilmente. Le fiamme scaldavano il ferro e aumentavano il diametro del cerchio che, con delle lunghe pinze speciali, si sollevava e si montava sulla ruota appoggiata orizzontalmente su un cavalleto. A quel punto bisognava raffreddare il cerchio e qui potevo partecipare al gioco: si trattava di andare alla fontana, lontana cinquanta metri, riempire un secchio, portarlo indietro e gettare l'acqua sul cerchio. Raffreddandosi il cerchio stringeva la ruota e il lavoro era finito.
Per giocare ci s'inventava sempre qualcosa, perché raramente capitava che i genitori o qualche altro parente ci regalassero un giocattolo. Ricordo come da vecchie biciclette rotte ci costruivamo cose nuove. Il cerchio, liberato da gomme e raggi, diventava una ruota da far rotolare spingendolo e guidandolo con un bastone o una canna. I raggi diventavano un arco e delle frecce opportunamente appuntite strofinandole su una pietra dura o sul ferro.
Dalle ruote delle vecchie automobili si ricavavano i cuscinetti a sfera con i quali costruivamo dei monopatini o dei carretti a tre ruote di cui una applicata a un manubrio, per fare le gare nelle discese.
Uno degli spettacoli più attraenti era il Giro d'Italia, che passava quasi tutti gli anni lungo la strada statale SS 16. Ci si arrivava in poco più di venti minuti a piedi scendendo per la Scala Santa, un percorso panoramico fatto di diverse scalinate monumentali e di sentieri in terra battuta. Arrivati alla grande curva vicino alla stazione ferroviaria, si poteva avere un bel punto di osservazione per vedere la