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Al calar del Sol Levante
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E-book328 pagine4 ore

Al calar del Sol Levante

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Narrativa - romanzo (254 pagine) - Quattro anni di una universitaria italiana a Ōsaka, in un emozionante e istruttivo memoir che si legge come un romanzo.


La ventenne Stefania persegue con decisione un obiettivo di studi in recitazione, pronta a sfruttare l’opportunità di un corso presso la New York Film Academy. Ma la sua determinazione è destinata a sfaldarsi dopo unviaggio familiare in Giappone. Una scintilla emotiva le si accende dentro, catalizza una curiosità, un interesse e una volontà che non possono non avere un seguito. È così che si ritroverà a Ōsaka, per un corso di laurea in Scienze Umane. I suoi anni in Giappone le riserveranno varie sorprese, un percorso che sarà non solo di studio, ma anche di formazione e maturazione personale.

Al calar del Sol Levante è un memoir che si legge come un romanzo vivido e sincero, e interessante per l’attenta ambientazione. Un libro con cui vivere e scoprire svariati aspetti del Giappone, della sua società e delle sue dinamiche, attraverso le esperienze di una giovane occidentale che, pur se appassionata, deve comunque fare i conti con bias personali e filtri culturali per superare talune complessità di interazione. Soprattutto, per vivereappieno anche i sentimenti, l’amicizia e l’amore.


Classe 1992, Stefania Deplano lavora come insegnante di italiano per stranieri, si occupa di editing e graphicdesign e occasionalmente fa l’interprete di italiano e giapponese. Adora immergersi in varie forme di creatività fin da bambina, ricorda ancora che alle elementari era l'unica alunna a gioire le mattine del tema in classe. Dopo il liceo ha vissuto per un breve periodo a Londra e a New York, dove si è diplomata in recitazione. Nel 2012 ha visitato il Giappone per la prima volta e se ne è innamorata tanto da rinunciare al suo obiettivo di diventare attrice. Invece, si è trasferita a Ōsaka e ha frequentato l'università omonima per quattro anni, conseguendo la laurea in Scienze Sociali. Quando ha deciso di condividere le sue vicende personali risalenti a quel periodo è nato il suo romanzo d'esordio: Al calar del sol levante. Attualmente vive nella sua amata Sardegna, che le regala un mare al quale non potrebbe mai rinunciare. Figlia di un percussionista professionale, adora la musica: suona la chitarra, danza e studia canto. I suoi artisti preferiti sono Michael Jackson e Elvis Presley.

LinguaItaliano
Data di uscita6 feb 2024
ISBN9788825427936
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    Anteprima del libro

    Al calar del Sol Levante - Stefania Deplano

    Avvertenze

    Per la trascrizione dei termini giapponesi è stato adottato il sistema Hepburn, secondo il quale le vocali vanno pronunciate come in italiano e le consonanti come in inglese. Si noti che:

    ch è un’affricata come la c in cestino

    g è velare come la g in gatto

    h è aspirata

    j è un’affricata e si legge come la g in gelsomino

    s è sorda come nella parola italiana salone

    sh viene pronunciata come la sc italiana, vedi la parola scelta

    u è spesso resa sorda o quasi muta se compresa tra due consonanti sorde come in kutsu, o se preceduta da sh o ts, vedi shimasu o tsuki

    w si pronuncia come una u rapida

    y va letta come la i italiana

    z si pronuncia come la z di zolla a inizio di parola e come la s dolce in casa quando è all’interno di parola

    Il segno diacritico ¯ (macron) sulle vocali ne indica l’allungamento. I termini giapponesi sono resi al maschile in italiano, salvo parole che si riferiscono a un soggetto necessariamente femminile come geisha. Per i termini giapponesi si rimanda al Glossario in fondo al volume.

    Prologo

    Ratatouille sarebbe presto diventato il film che più detesto al mondo.

    Era un’afosa serata di luglio e me ne stavo sul divano a sperare che il ratto della Pixar realizzasse il suo sogno di diventare chef, quando il mio cagnolino, Lucky, si sentì improvvisamente male: rigurgitò una sostanza dall’odore pungente, fece pipì per la cucina senza autocontrollo e cadde a terra. D’un tratto, non riusciva più a reggersi sulle zampe. Per fortuna, quell’attacco giunse al termine e il mio amico a quattro zampe si stabilizzò. Così, gli pulii la pelliccia sporca di vomito con dei panni umidi per dargli conforto. Poco più tardi, mia madre chiamò il veterinario per raccontargli cos’era successo. Ormai lo incontravamo di frequente perché il mio cane aveva problemi gravi ai reni e seguiva un trattamento settimanale.

    Camminavo nervosamente avanti e indietro nella stanza adiacente, aspettando che la telefonata finisse e mia madre mi riassumesse il parere medico. Tuttavia, comparve sulla porta e disse: – Stefania, il dottore vuole parlare con te.

    – Con me? – risposi, confusa.

    Mi porse il cellulare e lo afferrai col cuore in gola. Quando il veterinario mi spiegò che la via più compassionevole sarebbe stata l’eutanasia, rimasi impietrita.

    Non aveva alcun senso.

    Quel giorno era cominciato come sempre. Mi ero svegliata presto per portare Lucky a passeggio. Ci eravamo goduti l’aria fresca dell’alba e l’odore dei pini della scuola elementare di fronte a casa. Pur zoppicando, il mio cagnolino aveva ripercorso a testa alta le vie del quartiere che conosceva da ben quindici anni. Aveva felicemente annusato con minuzia ogni centimetro di strada: la tipica routine. Poi era arrivata la sera e mi ritrovavo con la cornetta appiccicata all’orecchio a sentire parole assurde come eutanasia? Non poteva essere vero…

    – Abbiamo l’appuntamento in clinica domani mattina – mi avvertì mamma.

    Spensi la televisione. Non mi importava più di sapere come finiva la storia del topo e non avrei mai più voluto guardare neanche un fotogramma di Ratatouille.

    Di notte non riuscii a chiudere occhio.

    Mi spostavo senza pace dalla mia camera al salotto per vegliare su di Lucky. Aveva sei mesi quando era uscito dal canile per unirsi alla nostra famiglia, io cinque anni. Il giorno in cui c’eravamo conosciuti per la prima volta fuori dalla scuola materna eravamo due cuccioli. Mamma era venuta a prendermi con lui per farmi una sorpresa. Adesso era un cane anziano e io una ventenne dai progetti ambiziosi.

    La mattina seguente, il sole sorse puntuale e uscimmo per la solita passeggiata. Feci del mio meglio per non tradire la mia angoscia perché Lucky era intelligente e avrebbe capito che qualcosa non andava. Volevo che non si rendesse conto di nulla, che pensasse che fosse una giornata qualunque.

    Qualche ora dopo, mi lasciò per sempre.

    Eravamo cresciuti come fratelli.

    Mi ero affezionata a Lucky fin dal primo sguardo e, nel corso degli anni, mi aveva insegnato che la compassione e il rispetto sono importanti forme d’amore. Prendendomi cura di lui, avevo imparato a prendermi cura degli altri e di me stessa.

    1.

    La televisione… Un dolce susseguirsi di bla, bla, bla per alienarmi dal mondo reale.

    – Stefy, abbiamo bisogno di una vacanza. Fai il workshop di recitazione a Londra e quando torni prepariamo le valigie per raggiungere tua sorella in Giappone – annunciò mia madre.

    – Ok, dai, poi vediamo – borbottai dal divano, apatica.

    Lucky se n’era andato da meno di una settimana, quindi che mi importava? Non volevo nemmeno uscire di casa, figuriamoci prendere un aereo. Diventare attrice era un sogno che coltivavo già da qualche anno ed ero sempre stata attratta dal Paese del Sol Levante. Eppure, avrei dovuto compiere uno sforzo eroico per andare in Inghilterra a seguire il corso di recitazione che avevo pianificato mesi prima. E l’opportunità di mettere piede in Giappone non mi smuoveva di un millimetro dall’inerzia.

    Alle elementari ero fissata col cartone animato e il fumetto di Dragon Ball.

    Inizialmente non lo collegavo al Giappone. Mi piaceva la storia e basta. Ero innamorata di Vegeta e fantasticavo di diventare brava nel combattimento come il protagonista, Gokū. Sapevo che non sarei mai riuscita a lanciare in aria palle energetiche per sconfiggere perfidi nemici venuti dallo spazio, però i miei genitori alimentarono le mie fantasie iscrivendomi a karate quando avevo otto anni.

    Mia madre mi comprò pure un CD delle musiche originali dell’anime. Ricordo ancora quanto fossi eccitata quando lo ricevetti! Sistemai con cura il disco nel mangiadischi e schiacciai play.

    Appena la prima canzone prese a scorrere, rimasi senza fiato.

    Poi espirai…

    Ma che razza di lingua strana è questa?, pensai, amareggiata. Non era di certo italiano. Non era l’inglese delle Spice Girls e nemmeno quello figo dei Backstreet Boys. Ero stata fregata!

    – Mamma, questo non è Dragon Ball! – protestai, indignata. Lei mi assicurò che era proprio Dragon Ball. L’aveva detto il commesso esperto del negozio.

    Ascoltai di nuovo il CD. Facendo attenzione, mi capitò di udire la parola "Gokū", così appurai di non essere stata imbrogliata.

    Pian piano mi abituai a quella lingua aliena. A un certo punto, presi persino ad apprezzarla e a cantarla, probabilmente sbagliando tutte le parole. Scoprii che era giapponese e che veniva parlata in un Paese lontano chiamato appunto Giappone. C’era qualcosa di vagamente familiare… A karate, l’istruttore accompagnava le mosse con dei numeri stranieri, che io ripetevo come un pappagallo. A mia insaputa, contavo regolarmente in giapponese da uno a dieci! Fu incredibile realizzare che fosse la stessa lingua di Dragon Ball, di Sailor Moon e di altri centomila cartoni animati che amavo. Quelle meraviglie provenivano dallo stesso luogo! Non avevo idea di dove si trovasse, ma non poteva che essere speciale.

    Poco tempo dopo, Sara, mia sorella di quattro anni più grande, mi regalò dei manga e cominciai a divorarli: Ranma ½, Inuyasha, Temi d’Amore fra i Banchi di Scuola… C’erano spesso delle note a piè di pagina che spiegavano alcuni aspetti della cultura nipponica. Li trovavo interessanti, a volte persino scioccanti. Pesce e riso a colazione? Alghe… Sono matti?, mi dicevo, disgustata.

    Col passare degli anni, Sara si appassionò sempre di più a questo famigerato Giappone, finché non ci andò per festeggiare il suo diploma di scuola superiore. Una volta tornata in Italia, me ne parlò come se fosse un mondo incantato, dove personaggi pazzeschi come il demone Inuyasha non erano il ghiribizzo di un artista ma la realtà (grazie al cosplay). Le casette coi tetti tegolati e le porte scorrevoli dai bordi legnosi di Ranma ½? I cortili coi laghetti circondati da grosse pietre e alberelli dalle chiome perfettamente tonde? Esistevano sul serio!

    Le persone, poi… Mi raccontò che erano gentili, affidabili ed estremamente pulite, mica incivili come noi italiani, che non seguiamo le regole, ci sentiamo in diritto di arrivare in ritardo e ci lamentiamo di ogni piccolezza.

    I giovani? Per strada coi capelli multicolore e costumi che in Italia avremmo potuto indossare solo a Carnevale. Per avere una libertà simile, immaginai che gli adulti e gli anziani avessero una mentalità aperta. Inoltre: treni spaziali, gabinetti che si aprono da soli, grattacieli infiniti, bagni caldi tra le montagne…

    – Stefy, sono sicura che ti piacerebbe un sacco! – disse mia sorella.

    Tre anni dopo, nel pieno dell’adolescenza, lessi i romanzi di Amélie Nothomb, una scrittrice belga che ha messo nero su bianco le sue esperienze in Giappone, ed ebbi conferma che fosse proprio un pianeta a parte, da esplorare a tutti i costi almeno una volta nella vita. A vent’anni, mi si presentava finalmente l’occasione di andarci. Avrei dovuto fare i salti di gioia, ma ero piatta come il mare dopo la tempesta.

    In seguito a ripetute insistenze, mi lasciai trasportare dal desiderio di mia madre: era convinta che il viaggio ci avrebbe fatto bene e non avevo più energie per controbattere.

    A settembre sarei salpata sull’aereo diretto a Ōsaka.

    Pochi giorni prima di partire per il Giappone, avevo ricevuto la lettera di accettazione dall’Università di Kingston per studiare film e recitazione. Nonostante avessi mandato io stessa la richiesta e fossi lieta di scoprire che era stata accolta, decisi di rifiutare. In fondo al cuore, sapevo che l’Inghilterra non era il posto giusto per me. Dopo essermi diplomata al liceo, avevo trascorso qualche mese a Londra per prepararmi all’IELTS, un test di inglese per chi desidera studiare o lavorare in Paesi anglofoni. Viverci era stato tremendamente costoso. Non mi era piaciuto il clima, l’ambiente e nemmeno la vita sociale. Però non volevo mollare la recitazione. Mi dava la possibilità di immergermi nella psicologia umana, che mi aveva sempre affascinato, e di diventare più saggia attraverso l’interpretazione di diversi personaggi. Inoltre, amavo i film. Insieme alla musica e ai libri, le storie sullo schermo erano capaci di suscitare in me emozioni intense.

    Scartata l’Università di Kingston, l’altra alternativa che stavo considerando da qualche mese per perseguire i miei scopi era la New York Film Academy. Frequentandola anche solo per un anno, avrei ottenuto la preparazione e le credenziali necessarie per affrontare i provini di film e spettacoli. Sarei andata a caccia di lavoro come fanno tanti attori squattrinati.

    Questo era il piano.

    Il volo più lungo della mia vita era stato quello per Londra, tra le due e le tre ore. La parola jet lag non faceva parte del mio vocabolario. Questa volta mi sarebbero toccate ben dodici ore di viaggio!

    Dentro il veicolo, l’unico sistema per dare un po’ di sollievo alla mia povera schiena era avvicinarmi ripetutamente al bagno e fare la fila per entrarci. Mentre stavo in piedi, ne approfittavo per roteare le caviglie e sgranchirmi le ossa atrofizzate. Beh, Giappone, devi valerne la pena!, pensavo, mentre il tempo si divertiva a torturarmi scorrendo al rallentatore.

    Cercare di dormire fu inutile, quindi rimasi sveglia durante l’intera tratta. Mi distrassi giusto con qualche film. Fui scossa da un po’ di turbolenze sopra la Cina, ma rimasi composta. A un certo punto, i film non mi bastarono più, tantomeno le chiacchierate con mia madre. Volevo atterrare. Desideravo che l’aereo sfrecciasse verso Ōsaka veloce come i missili di Jeeg robot d’acciaio! Non ne potevo più.

    Dopo quello che parve un secolo, i miei occhi stanchi videro l’isolotto dell’Aeroporto Internazionale del Kansai fuori dal finestrino. Da quella prospettiva, non riuscivo a scorgere granché del Giappone. C’era solo il mare, la struttura dell’aeroporto e la pista d’atterraggio. Pian piano l’aereo scese di quota finché le ruote non toccarono il suolo.

    2.

    Sara frequentava la facoltà di studi orientali alla Sapienza di Roma, ma aveva deciso di mettere in pausa il suo percorso universitario per imparare il giapponese direttamente a Ōsaka, presso una scuola di lingua. Stava lì da sei mesi con il suo fidanzato nostrano, Gabriele, che l’aveva seguita pur avendo studiato una materia che non c’entrava assolutamente nulla con le culture orientali.

    I due, quella mattina, stavano aspettando me e mamma all’aeroporto in compagnia di una loro amica, una donna giapponese di nome Eri. Mi salutò con un abbraccio affettuoso per poi ripetermi più volte in inglese quanto fossi bella. Ero ignara dei canoni estetici locali ma, reduce da dodici ore di volo, mi sentivo il mostro di Loch Ness. Sognavo un letto morbido, che arrivò solo dopo aver completato il check-in in hotel.

    Qualche ora più tardi, io e mia madre ci svegliammo dal coma e realizzammo che era sera.

    La notte di Ōsaka non era affatto buia. Guidate da Sara e Gabriele, raggiungemmo a piedi un quartiere rumoroso e affollato chiamato Dōtonbori, le cui vie sono un susseguirsi di luci al neon e insegne giganti a forma di pesce palla, granchi, ravioli e polpi. Notai subito un ponte largo ma piuttosto corto che collegava due strade separate da un fiume: l’acqua scurissima produceva sfavillii mescolandosi con la luce dei cartelloni pubblicitari. Proprio a zonzo su quel ponte, c’erano dei ragazzi coi capelli uguali a quelli di David Bowie in Labyrinth – Dove tutto è possibile, tinti di vari colori, ma soprattutto di biondo platino. Mi chiesi cosa stessero facendo conciati in quel modo, in giacche eleganti che mi facevano sudare solo a guardarle col caldo che c’era. Vagavano apparentemente senza meta, aggiungendo così un tocco di mistero allo scenario.

    Osservavo quel mondo a bocca aperta. Il mio sguardo veniva ipnotizzato da qualunque cosa, come se fossi un insetto lungo un viale pieno di lampioni e volessi ronzare attorno a ogni lume. Eppure, allo stesso tempo, ero pervasa da una sensazione di familiarità, come se quel pacchetto di esoticità non fosse poi così nuovo. Non saprei dire se ciò derivasse da immagini viste negli anime o casualmente in qualche documentario, ma lo straordinario mix contraddittorio di sbalordimento e riconoscimento mi faceva palpitare il cuore.

    Nelle due settimane successive continuai a provare le stesse emozioni, con un crescendo di intensità.

    La seconda mattina mi svegliai nella stanza dell’albergo dopo aver dormito fino a tardi nel letto più comodo del pianeta. Scostai la tenda e venni travolta dalla vista dei grattacieli. Mi sentii un moscerino e pensai: Wow… è questo il sublime?

    Entrai in bagno. Stavo per aprire il coperchio del gabinetto, ma con uno scatto quello si levò per conto suo facendomi sobbalzare. Mi ero dimenticata di come i water avessero una vita propria in Giappone.

    Io e mia madre incontrammo mia sorella in un café ai piedi dell’hotel. Dato che non parlavamo giapponese, lasciammo che Sara ordinasse per noi la colazione: una fetta di chiffon cake e un cappuccino al matcha a testa. Mia mamma rimase così entusiasta del cappuccino che ne ordinò un altro gesticolando di fronte al commesso. Dopodiché, ci spostammo in treno per una gita nella città di Nara.

    Quando arrivammo, notammo subito dei gruppi di cervi che passeggiavano per strada con disinvoltura. Oltre Lucky, che sapeva attraversare sulle strisce, non avevo mai visto degli animali comportarsi come normali cittadini! Dispensai coccole a ogni angolo con un sorriso indelebile stampato in faccia.

    Quel pomeriggio visitai un tempio maestoso chiamato Tōdai-ji, nel quale c’erano statue di Buddha enormi, alte almeno qualche metro, color bronzo scuro o dorate. Gli occhi dei Buddha erano leggermente socchiusi, come delle fessure che contengono una valanga di saggezza. Così mi lasciai inondare dalla sacralità dell’ambiente: entrare in un tempio non era come visitare una chiesa. C’era odore di incenso e legno, non di grotta e acqua benedetta. Quel profumo mi trasmetteva un rassicurante senso di unione col cosmo. Mi dava l’impressione che non mi sarebbe mai potuto capitare nulla di male.

    Per merenda ci fermammo in una locanda e mangiammo un dolce detto kakigōri: una montagnetta di ghiaccio triturato a neve che viene condito con degli sciroppi al gusto di tè verde, fragola o altri frutti. Mi scricchiolò tra i denti sprigionando un gusto di matcha zuccherato che accentuò subito la mia felicità.

    Più tardi, entrammo in un parco buio immerso nella foresta e iniziò a piovere. L’aria fresca irradiò un aroma d’erba bagnata. Il suono dei ruscelli e delle gocce che battevano sulle piante rilassò il mio corpo e la mia anima. Quello fu solo il primo assaggio inebriante della natura giapponese.

    A Kyōto visitai il monte Hiei, coperto da manti di abeti snelli e lunghi. Io e i miei familiari prendemmo la funicolare e raggiungemmo un punto panoramico. Lì, seduti su una panchina in cima al mondo, ammirammo le montagne limitrofe, che si intersecavano tra di loro in onde dalle sfumature blu. Era un dipinto a cielo aperto.

    Nel quartiere di Gion, percorsi stradine dal sapore tradizionale, delimitate a destra e a sinistra da casette in legno di diverse tonalità di marrone, con le loro lanternine rosse che pendevano all’ingresso e le tipiche porte scorrevoli striate da linee color sabbia o noce scuro. Ero sul set di Memorie di una geisha! Percorrendo la salita che portava al tempio del Kiyomizudera, ammirai le numerose botteghe dai tetti tegolati che vendevano souvenir locali su uno sfondo dominato dalla pagoda color arancio.

    Nella stessa zona, mi fermai per una notte presso un ryokan, ovvero una locanda tipicamente giapponese. Oltre alla mia famiglia, c’erano anche Eri e suo marito. Quando me lo presentò, mi sporsi per far schioccare le labbra a contatto con le sue guance, in segno di saluto. Lui tentò di respingermi e, dato che non capivo come mai stesse facendo così, usai la forza per completare il mio gesto.

    Non ci riuscii.

    – Stefy, i giapponesi non si danno i baci sulle guance quando si incontrano! – mi avvertì mia sorella. – Eri ci bacia e ci abbraccia solo perché sa che siamo italiani, però con gli altri non devi farlo.

    Guardai il volto sconvolto del marito di Eri.

    – Accidenti, non ci avevo pensato…

    – Adesso lo sai.

    – Quindi come devo salutare le persone?

    – Sorridi e non toccarli.

    – Ricevuto – confermai, notando che il marito di Eri guardava verso il basso paralizzato.

    Quella sera, mentre cenavamo tutti insieme, presi la bottiglietta della salsa di soia e la inclinai sul sushi. Purtroppo, mi scivolò e fece la doccia al mio cibo. – Ops! – dissi con un sorriso, cercando di scansare qualche pezzo di sushi dal lago nero che si era creato nel piattino.

    Alzai lo sguardo.

    Il marito di Eri mi osservava, un lato della bocca deformato in una smorfia.

    – Stefy… – mormorò Sara, sbuffando. – Vedi questo piccolo piattino rettangolare?

    Aveva il tono di un genitore che tenta pazientemente di educare un bambino.

    – Sì, lo vedo.

    – Ci metti la salsa di soia e poi ci inzuppi delicatamente il sushi.

    – Ah…

    Avevo bisogno di poggiare le bacchette da qualche parte per bere un sorso d’acqua. Non sapendo dove metterle, le infilzai nel riso. Era così colloso che sarebbero senz’altro rimaste in piedi.

    Stefy, no! – fece Eri, scandalizzata.

    Sbattei le palpebre.

    – Non si ficcano le bacchette nel riso! – mi spiegò in inglese, l’unica lingua che avevamo in comune. – Quella è una cosa che si fa quando qualcuno muore.

    Le estrassi veloce come re Artù con Excalibur. – Uffa, ma è possibile che non ne combini una giusta? – bofonchiai.

    Gaffe escluse, il soggiorno presso l’hotel fu meraviglioso.

    Rimasi di stucco quando appresi che c’erano le terme. Mi ricordai subito di averle viste rappresentate nei manga e mi eccitai! Optai per quelle private perché non mi andava di denudarmi di fronte alle altre persone, ma fu comunque un’esperienza indimenticabile perché non mi era mai successo di immergermi nell’acqua bollente all’aperto, circondata dalle canne di bambù. Fu catartico.

    In stanza, trovai un set di cortesia con una saponetta al matcha. Annusai l’essenza acuta di tè verde e il cuore mi fece una capriola in petto: odorava di Giappone. Decisi di portarla in Italia come ricordo e la ficcai in borsa. L’avrei usata come un portale per catapultarmi di nuovo in quel mondo incantato.

    La mattina seguente, mia sorella mi comprò una vestizione da geisha, le intrattenitrici tradizionali nipponiche, con tanto di mini book fotografico per documentare l’evento.

    Quando ero alle superiori, avevo visto il film Memorie di una geisha e avevo letto il romanzo da cui era tratto, scritto da Arthur Golden, e Storia proibita di una geisha di Mineko Iwasaki. Ero rapita dalla figura artistica delle geisha e non potevo credere che per un’oretta mi sarei trasformata in una di loro!

    Fui guidata in una sala dove venni truccata e imparruccata. Poi scelsi un kimono blu e due donne mi aiutarono a indossarlo, uno strato dopo l’altro. Per quanto si evincesse che fossi occidentale, fui soddisfatta del risultato finale e mi divertii a mettermi in posa di fronte al fotografo. Fu uno dei mille e più momenti di gioia che si erano accumulati con rapidità da quando avevo messo piede in quella terra straniera.

    Nel Paese del Sol Levante, ogni elemento tendeva alla perfezione, che fosse un giardino tradizionale dalle forme armoniche o la pulizia impeccabile di un treno di città. Mi stavo innamorando. Portavo degli occhiali magici e invisibili che facevano brillare tutto.

    Irasshaimase! – esclamò una commessa con un grosso sorriso, quando entrai in un bellissimo negozio di cancelleria e tazzine.

    Irassh

    – Stefy, no! Non ripetere! – mi interruppe mia sorella.

    – Perché? Ha cominciato lei – mi difesi subito.

    – Sì, ma non ti ha detto ciao – spiegò Sara. – Ti ha dato il benvenuto.

    – Ah, e quindi cosa dovrei rispondere? Grazie?

    – Sorridi e stai zitta.

    Feci spallucce. Se lo diceva lei!

    Concludevo in bellezza le mie giornate entrando nelle sale giochi! C’erano tantissime macchine a disposizione. Iniziai a saltare come una matta la notte in cui ne incrociai una di Dragon Ball. – Devo giocare assolutamente! Mamma, dammi una monetina. Sara, come si fa?

    Mi accomodai di fronte allo schermo. Di fianco c’era un giovane impegnato in una partita.

    – Come lottatore, scelgo Vegeta – annunciai.

    – Non avevo dubbi – commentò Sara. Cliccò qualche tasto e poi aggiunse: – Mi sa che se cominci adesso, combatterai contro questo ragazzo alla tua sinistra.

    Lo sbirciai con la coda dell’occhio: aveva i capelli scompigliati e sembrava in uno stato di trance mentre muoveva i comandi.

    – Vabbè, non mi fa paura.

    – Non sarà meglio aspettare? Se perdi, paghi per niente.

    – Sono pronta a batterlo.

    Mia sorella avviò il gioco e mia madre rimase lì in piedi a godersi la scena.

    Mi ritrovai in un campo di guerra. Palle energetiche che si scagliavano da ogni lato. Vegeta correva

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