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Lezioni di Mitologia
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E-book899 pagine10 ore

Lezioni di Mitologia

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Info su questo ebook

Poiché gli uomini da Dio ribellatisi ne meritarono la vendetta, che sulla terra gli sparse atterriti e maravigliati, il loro culto rivolsero alla Natura; e quindi l’universo che annunziar dovea la maestà del suo Autore, tempio d’idoli divenne, e gli Dei furono figli dell’uomo. Ma era sublime il primo errore dei mortali, e manifestava la dignità della origine loro. E consegnato infatti agli annali di tutte le genti che agli astri, e specialmente al sole ed alla luna, fu tributato il primo omaggio dell’uman genere disperso. E certo, se fra le cose create degna avvene alcuna di ammirazione, egli è il ministro maggiore della Natura, il padre degli anni e della luce, per cui l’universo ride e si rinnova, il vincitor delle tenebre, la vera sede di Dio, che, al dir del Profeta, vi pose il suo padiglione.
LinguaItaliano
Data di uscita14 feb 2018
ISBN9791029905100
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    Anteprima del libro

    Lezioni di Mitologia - Giovan Battista Niccolini

    INDICE

    Copyright

    A Gaspare Gorresio

    Avvertimento.

    Lezione prima.  Che contiene il Metodo da tenersi per insegnare la Mitologia.

    Lezione seconda.  Sulle diverse Cosmogonie.

    Lezione terza.  Dei Templi e dei sacrifizj.

    Lezione quarta.  Degli Altari ed altre notizie soprei i sacrifizj.

    Lezione quinta.  Dei sacrifizj umani.

    Lezione sesta.  Dei simulacri e dei boschi sacri, e dei riti ad essi risguardanti.

    Lezione settima.  Giove: suo nascimento, sua educazione e sue prime imprese.

    Lezione ottava.  Gli amori, le trasformazioni, i figli e i terapli di Giove.

    Lezione nona.  Dei cognomi di Giove.

    Lezione decima.  Giunone.

    Lezione decimaprima.  Dei cognomi di Giunone.

    Lezione decimaseconda.  Nettuno.

    Lezione decimaterza.  Mercurio.

    Lezione decimaquarta.  Dei simboli e degli uffìcj di Mercurio.

    Lezione decimaquinta.  Apollo.

    Lezione decimasesta.  I templi di Apollo.

    Lezione decimasettima.  Monumenti del tempio di Delfo.

    Lezione decimottava.  Apollo detto di Belvedere.

    Lezione decimanona.  Imagini di Apollo in pittura e in scultura.

    Lezione vigesima.  Dei cognomi di Apollo.

    Lezione vigesimaprima.  Diana.

    Lezione vigesimaseconda.  Gesta e simulacri di Diana.

    Lezione vigesimaterza.  Tempio di Diana in Efeso.

    Lezione vigesimaquarta.  Dei nomi più famosi di Diana.

    Lezione vigesimaquinta.  Minerva.

    Lezione vigesimasesta.  Dei cognomi di Minerva.

    Lezione vigesimasettima.  Venere.

    Lezione vigesimottava.  Cognomi più illustri di Venere.

    Lezione vigesimanona.  Vulcano.

    Lezione trentesima.  Marte.

    Lezione trentesimaprima.  Cerere.

    Lezione trentesimaseconda.  Dei simboli coi quali vien rappresentata Cerere.

    Lezione trentesimaterza.  Ancora dei simboli coi quali vien rappresentata Cerere.

    Lezione trentesimaquarta.  Feste Tesmoforie e misteri Eleusini.

    Lezione trentesimaquinta.  Iniziazione nei misteri Eleusini.

    Lezione trentesimasesta.  Ordine e riti dei misteri Eleusini.

    Lezione trentesimasettima.  Vesta.

    Lezione trentesimottava.  Il Caos, la Terra e l’Amore.

    Lezione tremesimanona.  Gli attributi e i simulacri di Amore. La Notte.

    Lezione quarantesima. Sonno.

    Lezione quarantesimaprima.  Celo, Oceano, Mnemosine, Temi ec.

    Lezione quarantesimaseconda.  Rea, o Cibele.

    Lezione quarantesmaterza.  Feste d’Ati. — Saturno

    Lezione quarantesimaquarta.  Dei Ciclopi e dei Dattili.

    Lezione quarantesimaquinta.  Dattili, Telchini, Gureti, Gabiri, Plutone.

    Lezione quarantesimasesta.  L’Inferno di Polignoto.

    Lezione quarantesimasettima.  Plutone, Furie, Parche, Danaidi.

    Lezione quarantesimaottava.  Proserpina, Caronte, Minosse, Radamanto, Eaco.

    Lezione quarantesimanona.  Fiumi infernali, e Nemesi.

    Lezione cinquantesima.  Fortuna, Vittoria.

    Lezione cinquantesimaprima.  Clio, Euterpe, Talìa.

    Clio.

    Euterpe.

    Talia.

    Lezione cinquantesimseconda.  Melpomene, Tersicore, Erato.

    Melpomene.

    Tersicore.

    Erato.

    Lezione cinquantesimaterza.  Polinnia, Urania.

    Polinnia.

    Urania.

    Lezione cinquantesimaquarta.  Urania sedente, Calliope.

    Urania sedente.

    Calliope.

    Lezione cinquantesimaquinta.  Le Grazie.

    Lezione cinquantesimasesta.  Esculapio.

    Lezione cinquantesimasettima.  Bacco.

    Lezione cinquantesimottava.  Generazione di Bacco.

    Lezione cinquantesimanona.  Nascita ed educazione di Bacco. Origine della vite.

    Lezione sessantesima.  Avventure di Bacco.

    Lezione sessantesimaprima.  Continuano le avventure di Bacco.

    Lezione sessantesimaseconda.  Continuano le avventure di Bacco.

    Lezione sessantesimaterza.  Maniere nelle quali Bacco è effigiato.

    Lezione sessantesimaquarta.  Altre maniere di rappresentar Bacco. I Sileni, i Satiri, e i Fauni.

    Lezione sessantesimaquima.  I Centauri.

    Lezione sessantesimasesta.  Le seguaci di Bacco.

    Lezione sessantesimasettima.  Monumenti più celebri rappresentanti di Bacco.

    Lezione sessantesimottava.  Altri monumenti bacchici.

    Lezione sessantesimanona.  Altri monumenti bacchici.

    Copyright © 2018 / FV Editions

    Immagine della copertina : Diane, G. Seignac (1870-1924)

    ISBN 979-10-299-0510-0

    Tutti i Diritti Riservati

    LEZIONI DI MITOLOGIA

    Giovan Battista Niccolini

    A GASPARE GORRESIO

    Non ha guari mi si rioffriva all’occhio uno dei vostri dotti opuscoli, colle cortesi parole da voi scrittevi per me: « in testimonianza d’amica memoria ». E bastarono perchè mi si ravvivasse con molta soavità e con nuovo desiderio la memoria dei colloqui nostri in Torino, singolarmente nell’anno 1862, da quando ebbi la ventura di conoscervi dappresso nella conversazione del celebre Conte Federigo Sclopis, allora Presidente del Senato, visitandovi io poi con assai frequenza nella Biblioteca Universitaria e passeggiando talora con voi nelle vie di cotesta veramente italiana città, al mio cuore carissima e dai buoni venerata, nella compagnia pure di quel dolcissimo Giovanni Boglino, fratello a me per intima amicizia, e nel quale già parvemi riabbracciare le sante anime di Silvio Pellico e di Vincenzo Gioberti, poiché e’ visse per lungo tempo familiare ad ambedue. — Sovrattutto m’è fìsso in mente quel giorno in cui ci aggirammo per Doragrossa, e voi con erudita e limpida parola, e con abbondevole copia di argomenti e d’esempi, sponevate parecchie verità intorno all’ Orientale Letteratura, della quale siete maestro, giustamente commendato in Europa.

    Non isgradite ora, che io, a testimonianza di grato animo e di affetto, che non iscema per lontananza nè per tempo, v’intitoli, fra le Opere che tutte riunisco e do alla luce del sommo Toscano del nostro secolo, fra le Opere del Niccolini da voi tanto ammirato, la Mitologia Teologica.

    Dettò il nostro Poeta nell’anno 1807-8 per gli Artisti queste Lezioni, di guisa che non possiam ricercarvi quel più peregrino sapere, quella più squisita dottrina, che in tali studj addimandasi dalla matura Filologia, dalla Critica odierna; ed egli ben lo sapeva, e lo scrisse a chiare note da sè medesimo.

    Tuttavia le versioni che qua e là vi ponea dagli antichi Poeti, rendono tale il Volume, che, eziandio senza il gran nome dell’Autore, potrebbe esser indirizzato all’eccellente traduttore del Ramaiana. Ad ogni modo, non cancellate da’ vostri affettuosi ricordi, quello di un ammiratore ed amico, che bramò anche in questa raccolta apparecchiare, per dirlo con modo dell’ Alighieri, grazioso loco al nome vostro.

    Ottobre 1871.

    CORRADO GARGIOLLI.

    AVVERTIMENTO.

    Dei pregj delle Lezioni di Mitologia di G. B. Niccolini, pubblicate nell’anno 1855 in Firenze, favellarono molto saviamente i critici e i biografi di lui, e tali giudizj riporteremo a suo tempo, come è debito nostro, in questa raccolta. — Dei difetti, o mancamenti, parlò l’Autore meglio di qualunque lettore, scrivendo, è gran tempo, a chi lo richiedeva di stampare il suo Corso; « Son grato alla cortese opinione che il  Prof. Valeri  ha delle mie Lezioni di Mitologia ; ma, dopo le opere di  Creuzer  e d’altri letterati Tedeschi, gli antichi Miti hanno mutato aspetto. Quindi mi converrebbe spender molto tempo e molta fatica, perchè la mia opera, scritta innanzi alle investigazioni dei valorosi filologi Alemanni, fosse degna della pubblica luce. Altri studj più cari me lo vietano ora; nondimeno gli son riconoscente della sua graziosa offerta »{1}. Ed è pure da riferire la breve lettera, colla quale, trenta anni appresso, e’ consentiva la stampa di una parte del Corso medesimo agli Editori Fiorentini: « Ben volentieri permetto loro, secondo che desiderano, di stampare le Lezioni  da me recitate nell’Accademia di Belle Arti nel primo anno del mio Corso. Li prego nulladimeno di fare avvertire che sono scritte coll’ unico scopo di porre nei giovani il desiderio di leggere i Classici, il cui studio tanto aiuta la fantasia degli Artisti. Per giungere a ciò, ho tradotto non piccola parte dei loro scritti; e se nella gioventù fosse entrato l’amore di questi studj io avrei fatto di più »{2}.

    Veramente unanime fu l’ammirazione per le versioni del Niccolini, lodato rispetto ad esse anche da critici non a lui molto benigni.

    Pubblicheremo la Mitologia Storica{3} immediatamente dopo la Teologica: e aggiungiam solo qui, che stampate tutte le Lezioni dell’Autore, si acquisterà migliore intelletto del suo metodo{4} e de’ suoi fini, e apparirà splendidamente la singolare armonia, che in tant’ Uomo avverossi fra il letterato, il poeta, l’erudito, il cittadino e l’insegnante degno dei nuovi tempi, ch’egli potentemente valse a preparare, e da’ quali dovrebbe sorgere, insieme colle voci di alta riconoscenza per lui, frutto più copioso di nobili ed efficaci opere, onde l’Italia non fallisca oggimai alla gloriosa sua meta.

    Ottobre 1871.

    CORRADO GARGIOLLI.

    LEZIONE PRIMA.

    CHE CONTIENE IL METODO DA TENERSI PER INSEGNARE LA MITOLOGIA.

    Poiché gli uomini da Dio ribellatisi ne meritarono la vendetta, che sulla terra gli sparse atterriti e maravigliati, il loro culto rivolsero alla Natura; e quindi l’universo che annunziar dovea la maestà del suo Autore, tempio d’idoli divenne, e gli Dei furono figli dell’uomo. Ma era sublime il primo errore dei mortali, e manifestava la dignità della origine loro. E consegnato infatti agli annali di tutte le genti che agli astri, e specialmente al sole ed alla luna, fu tributato il primo omaggio dell’uman genere disperso. E certo, se fra le cose create degna avvene alcuna di ammirazione, egli è il ministro maggiore della Natura, il padre degli anni e della luce, per cui l’universo ride e si rinnova, il vincitor delle tenebre, la vera sede di Dio, che, al dir del Profeta, vi pose il suo padiglione.

    Ma col proceder del tempo l’uman genere, dai vizj e dalle sciagure avvilito, così il mondo divise, che ogni bisogno ebbe un dio, e fu facile allora agli istitutori dei popoli idolatri, che utili cose vollero persuadere al volgo, il fingere d’aver commercio cogli Dei; e lusingar volendo ad un tempo la popolare ambizione, recarono alle divinità l’origine delle nazioni per essi ordinate. Quindi è che l’istoria di tutte le genti (se quella dei Giudei se ne eccettua, che Iddio scelse pel sacro deposito del suo culto) comincia dalle favole: onde io ho giudicato di dover con queste dar principio alle mie Lezioni, ed aprire quel vasto arringo, in cui inoltrandomi sì pieno di lusinghiera fiducia sul vostro compatimento, ho quasi dimenticato la difficoltà dell’impresa a che accinto mi sono.

    Non fu mai maggiore l’opportunità di ripetere col divino Alighieri;

    « Che chi pensasse al poderoso tema,

    E all’omero mortai che se ne carca,

    Noi biasmerebbe se sott’esso trema. »

    Ma per dimostrarvi che arduo è l’assunto, ed accrescere ad un tempo in voi il desiderio di impadronirvi di quelle notizie che sono l’oggetto delle mie fatiche, ho deliberato di darvi il prospetto delle Lezioni che formeranno il Corso della Mitologia nel presente anno. La strada che dobbiamo percorrere ò difficile ad un tempo stesso ed amena; ed io, per quanto la povertà dell’ingegno mio lo concede, porrò ogni mia cura per allontanare tutti gli ostacoli che s’incontrano in così lungo cammino.

    Essendomi prefìsso di cominciare dalle Favole per quindi condurle dove, purgate dalla ragione, prendono sembianza d’Istoria, mi è necessario dì par lare in primo luogo delle opinioni che sulla formazione degli Dei e del mondo avevano le diverse idolatre nazioni; poiché la notizia di questa formazione è fondamento di tutta la Mitologia, e in molti vetusti monumenti, non conoscendo quello che immaginarono gli antichi su questo particolare, nulla i simboli direbbero agli occhi ineruditi.

    Percorsa che avremo l’istoria di questi vaneggiamenti coi quali l’umana ragione architettò l’universo, si renderà necessario di mostrare come dai Pagani si adoravano questi Dei, nati dai forti inganni della loro mente. Quindi i templi, gli altari, i boschi sacri, gli asili, le statue, i sacrifizj saranno l’oggetto delle nostre ricerche.

    Questo esame ci porgerà l’occasione di dividere le divinità pagane in due classi: maggiori, e minori. Sarà mia cura di non omettere veruno dei simboli coi quali questi Dei vengono rappresentati, e di combinare per quanto potrò la Mitologia scritta colla figurata; e per rialzare maggiormente la vostra fantasia, quando alcuno degli antichi poeti canterà le lodi e le gesta dei numi, io leggerò la migliore traduzione che siavi; e quando questa manchi, sia tale che vivamente e con dignità non rappresenti l’originale, avrò io l’ardire di volgarizzarlo per vostro vantaggio, come la tenuità dei miei lumi il comportano. Gli Inni di Omero e di Callimaco, le Metamorfosi d’ Ovidio, poeta sopra ogni altro pittore, e le opere di molti altri famosi diventeranno a voi familiari, e così la vostra mente, ricca delle immagini veramente ritratte da questi ingegni sovrani, nuova vita imprimendo nelle tele e nei marmi, accrescerà quella nobile e antica gara che regna fra la Pittura e la Poesia.

    L’amenità di questi studj, nei quali desidero avervi compagni e non discepoli, diverrà maggiore quando esaurita la teologica Mitologia, giungeremo ai tempi che chiamò favolosi Varrone, nei quali si contengono imprese che argomento furono dei più celebrati antichi poemi. Il lungo viaggio degli Argonauti di cui fu prezzo il vello d’oro conquistato da Giasone, che, soccorso da Giunone, dal coraggio e più dall’amore, vinse tanti pericoli, somministrerà materia a molte Lezioni, e potrete di mille immagini far tesoro udendo i versi di Orfeo, di Apollonio Rodio e di Valerio Flacco, nelle di cui carte vivono ancora

    « Quei gloriosi che passaro a Coleo: »

    vi sembrerà di errare sulle sponde del Fasi estremo, e di veder veramente dalle glebe incantate nascere fatali guerrieri; spirar fiamma i tori che tardano a riconoscere lo stesso tiranno di Coleo, e domato il terrore custode del vello di Frisso dai potenti incantesimi di Medea, della quale Euripide finirà di narrarci le sciagure e i delitti.

    Ma maggiore argomento di pianto vi daranno gli squallidi campi di Tebe, contrastati dagli odj profani di due fratelli destinati alla colpa ed all’odio vicendevole, che nè la pietosa sorella, nè la madre veneranda per la maestà dei mali, nè la morte stessa può estinguere, poiché la pira che il consuma, si divide, o sembra far guerra. Stazio, sublimo artefice del terrore, ci sarà guida, e vedromo ancora in Eschilo ed in Euripide i Sette Re congiurati all’eccidio di Tebe.

    Ed eccoci giunti a quell’epoca in cui la Grecia potente spiegò  tutte le sue forzo por vendicare l’ingiuria del violato ospizio di Menelao; eccoci all’istoria d’Ilio sciagure d’Ilio che fama divennero di Omero,

    « Di quel signor dell’altissimo canto.

    Che sovra gli altri com’aquila vola. »

    Chi fra voi non rivolgorà la sua attenzione ai versi di tanto poeta, del

    « Primo pittor delle memorie antiche. »

    di quello che colla divina Iliade dettò i più sublimi concetti a Fidia, a Zeusi, a Polignoto e ad Apelle?

    O sacra arto dei versi! Ilio appena mostrano le rovine, ma il suo nomo vola eterno por le bocche degli uomini, e a quante carte, a quante statue, a quante pitture atlìdata fu la t’ama di quelli ho pugnarono e cadiloro sotto le mura, opera degli Dei!

    Dopo che Omero ci avrà descritto l’ira di Achille, la discordia degli Dei, il tenero addio di Andromaca ad lettore, che rimprovera a Paride lo sciagiure della patria e la sua viltà, e fìnalmente Priamo che bacia le mani lorde del sangue del suo figlio per riaverne il cadavere. Quinto Calabro ci dirà gli altri infortunj che successero fino a quel giorno fatale in cui i Greci, aiutati dal tradimento e dalla fortuna, adeguarono al suolo l’altezza di Troia convertita in cenere e caverne.

    Nè senza vendetta fu il pianto dell’Asia. Gli scogli Cafarei ruppero le navi trionfali dei Greci ingannati dalle infide faci di Nauplio. Sul soglio del Re si assise l’adultero Egisto. L’amore e le tempeste resero lungo l’errore di Ulisse, mentre i Proci insidiavano la fedeltà di Penelope, che aspettandolo, canuta divenne.

    Sofocle ed Euripide comanderanno il nostro pianto sulle sciagure di molti dei vincitori dell’Asia. Le avventure dell’accorto figlio di Laerte narrate ci saranno da Omero nel suo poema. Egli è grande ancora in questo, poiché (come Longino con degno paragone si espresse) se nell’Iliade egli è simile al sole quando nel mezzo del giorno riempie di sua luce l’universo, nell’Odissea ancora imita l’astro medesimo allora che tramontando, sembra coi suoi raggi mandare l’ultimo saluto alla terra.

    Ma poco compenso ai nipoti di Bardano sarebbero i diversi infortunj degli Achei. Essi mal vinsero: i Penati rapiti da Enea in fra l’iliache rovine torneranno sul Tarpeo: Troia migliore risorgerà in Roma, e Roma comanderà all’universo. Virgilio, quel grandissimo per cui Omero dubita della prima palma nell’epica poesia, ci dirà l’origine e gli augusti principj della gente romana, e nella divina Eneide di lui avrà il suo compimento l’istorica Mitologia.

    Mancherei allo scopo del mio istituto se, esaurite le favole teologiche ed istoriche, tralasciassi di parlarvi delle divinità adorate da quelle nazioni che barbare furono dai Greci e dai Romani chiamate: onde ne tesserò l’istoria, ne spiegherò gli attributi, ma brevemente; perchè il loro culto, le loro imprese poco illustrate sono dai monumenti degli artefici, dai versi dei poeti. A questo breve trattato sugli Dei dei barbari succederanno molte Lezioni sull’allegoria, delle quali non posso, quanto bisogna, raccomandarvi l’importanza. Basterà dirvi che il celebre Winkelman, tanto benemerito delle arti belle, ha scritto su questo soggetto un’operetta, che per l’utilità quasi gareggia colla famosa istoria dell’arte del disegno. I lumi di tanto scrittore diminuiranno le difficoltà delle nostre ricerche: egli v’indicherà le figure allegoriche, delle quali negli scritti degli antichi si parla, e che tuttora si vedono nei loro monumenti. Difficile è l’arte di esprimere le idee col mezzo delle immagini, in che consiste l’allegoria, la quale vedrete che, per esser vera, dee contenere con chiarezza le qualità distinte della cosa indicata.

    Imparata che avrete dagli antichi la difficil pittura del pensiero, agevolmente vi si presenterà il modo di ritrarre con simboli semplici e chiari gli esseri astratti, come la Virtù, la Costanza, la Ragione, e mille altre divinità della Morale, che nel segreto del loro cuore più che i falsi numi adorate furono dai filosofi dell’antichità, che meno di noi le nominavano, ma più n’erano fedeli ai venerati precetti.

    Vorrei nel prospetto di queste Lezioni aver potuto imitare l’architetto, che colla facciata dell’edifizio ne raccomanda i più segreti divisamenti, e costringe a percorrerlo l’attonito pellegrino che di esso ha piena la vista. Ma se la conoscenza delle mie forze mi vieta così care speranze, io confido che, me dimenticando, rivolgerete la mente alla dignità dell’impresa, e agli scritti di quei grandi dei quali le idee possono farsi vostre; giacché i concetti della mente dirigono la mano di coloro che nati sono alla gloria dell’arte. Michelangelo, leggendo gli alti versi di quel magnanimo suo concittadino, che sdegnando trattare argomento mortale, dagli abissi si alzò sino al cielo, sentiva farsi maggiore, e più terribili nasceano dalle mani animose le immagini della gente perduta.

    E voi pure vi esalterete in voi stessi, udendo i versi immortali di quei sommi intelletti che trionfano di tanti secoli, e dei quali la fama durerà quanto il mondo. Voi eccita la lode, nutre l’emulazione; a voi la patria raccomanda la gloria delle arti, sacra eredità dei nostri maggiori. Comandate ai nemici del nome Italiano l’invidia e l’ammirazione, per cui disperino di emularci, conoscendo che il genio non può mai coll’armi acquistarsi. Ma che:… Non sono io in questo recinto che è consacrato a presentare alla pubblica ammirazione le opere della vostra mano? Non mi stanno sugli occhi le promesse del vostro ingegno, e l’altezza delle comuni speranze?

    LEZIONE SECONDA.

    SULLE DIVERSE COSMOGONIE.

    Non vi ha monumento che attesti l’imbecillità dell’umana mente alle proprie forze abbandonata, quanto la tradizione delle diverse idee tenute dagli antichi sulla origine del mondo e degli Dei. La presente Lezione è destinata a narrare questi errori, fondamento all’istoria ed alla religione delle nazioni idolatre.

    Principio si prenderà dai Caldei, popolo antichissimo, ove nacque l’autore di quell’insensato progetto, che Iddio arrestò e punì colla diversità delle lingue.

    Sincello così n’espone la loro Teogonia. Un mostro mezzo uomo e mezzo pesce comparve verso Babilonia, abbandonando il mare Eritreo. La testa di uomo sovrastava sopra quella di pesce, e piedi umani pure stavano uniti alla coda. Questo mostro era robusto, aveva favella umana, ed erudiva di giorno i mortali nelle scienze, nella religione, nelle arti. Si nascondeva quando il sole. Comparvero altri mostri simili a lui. Questi chiamato Cannes, ov vero Oen, insegnava che già tutte le cose erano possedute dall’acque, dalle tenebre, e che in queste erano chiusi uomini ed animali mostruosi, simili a quelli che erano ritratti nel tempio di Belo da Erodoto descritto. Omorca, che signoreggiava l’universo, narra lo stesso, fu da Belo divisa in due parti: con una di queste formò la terra, coli’ altra il cielo, uccise tutti i mostri ed ordinò l’universo.

    Avendo distrutti gli animali che non tolleravano la luce, s’accorse essere il mondo deserto, impose a un nume di troncargli la testa, e col sangue che dalla^ piaga scorreva formarne gli animali e l’uomo Quindi fece le stelle e i pianeti, dando compimento alla creazione.

    Non so se questa serie di assurdità sia un’alterazione della Genesi di Mosè; che io non sono nè curioso nè ardito per investigarlo. Aggiungerò solamente che questo Belo ordinatore della materie non é probabilmente che il sole, poiché in un monumento riportato dal Begero si vede sedente collo scettro nella destra, colla corona raggiante sul capo, e con due segni dello zodiaco, il sagittario ed i pesci. Nè meno assurde erano le opinioni dei Fenicj, come si rileva da Eusebio, che ci ha conservato un frammento di Sanconiatone, che forse egli trasse da Filone, traduttore delle opere di questo antichissimo sacerdote.

    Il principio dell’universo, secondo esso, era uno spirito di aere oscuro, ed un turbato caos di folte tenebre ingombro. Ciò per molti secoli fu infinito: ma lo spirito s’innamorò dei suoi principj, si mi schiò con essi, e questa misura fu Desiderio chiamata. Di qui cominciò l’universo: ma lo spirito mentovato non conobbe da verun altro la sua produzione. Si unì finalmente col mot, o mud che è lo stesso del fango, e secondo altri una corruzione nata dalla mistura delle acque, onde derivarono le generazioni di tutto l’universo.

    Vi furono oltre a ciò alcuni animali privi di seotimento, dai quali furono prodotti altri dotati d’intelletto, che detti furono contemplatori dei cieli Zophasemen. Ebbero questi la forma di ovo, e generato il fango, cominciarono a risplender col sole e con gli altri pianeti. L’aria si riempì di luce; dal calore furono generati i venti e le nubi onde fu innondata la terra. Le acque separate dal calore del sole si riunirono coU’aria; le nuvole si urtarono fra loro, e vita diedero al folgore, il di cui tuono riscosse gli animali ragionevoli, che cominciarono allora a moversi sopra la terra.

    Ecco le idee dei Fenicj sull’origine del mondo, nelle quali, quantunque la materia sia posta innanzi lo spirito, pure sembra a questo data l’eternità e l’indipendenza, attributo di Dio; onde il sistema fenicio non conduce direttamente all’ateismo, come sembrò ad Eusebio di Cesarea. Forse questa cosmogonia a tanto sospetto soggiacque, perchè fu derivata da quella di Thoth, che fu pure agli Egiziani comune, dei quali Diodoro Siculo ne ha conservato le opinioni intorno alla formazione dell’ universo. Egli così a un dipresso si esprime. Una era la forma della terra e del cielo, le di cui nature erano in sieme confuse. Separatesi, il mondo si ordinò come al presente si scorge. L’aria cominciò a moversi costantemente; il foco, alzandosi al cielo, per sua natura produsse il rapido circolare moto del sole e dell’altre stelle. Il fango, unito alla materia umida, cadde a terra vinto dal proprio peso, e si accumulò tutto in un luogo, dove essendo agitato da continuo moto, le parti acquee si separarono dalle solide, onde si formarono il mare e la terra. Questa in principio era molle; ma riscaldata dai raggi solari cominciò a fermentare.

    Essendo giunta la fermentazione alla perfetta sua maturità, ed essendosi le membrane onde era involta affatto seccate, si aprirono, e balzarono fuori tutte le famiglie degli animali onde è popolata la terra. Quelle che avevano ricevuto maggior grado di calore divennero volatili; quelle che in loro avevano più terra, furono rettili ed animali terrestri; quelle nella di cui generazione preponderò l’acqua, balzarono come pesci nell’elemento che loro conveniva. Col progresso del tempo la terra, inaridita dal sole e dai venti, perde il potere di produrre animali, che quindi moltiplicarono col mezzo della generazione.{5}

    Se questa cosmogonia fosse la sola degli Egiziani, ninno potrebbe scusargli dall’ateismo, poiché di alcuna divinità nell’esposta cosmogonia non si favella, ed è il sole l’artefice e l’eccitatore dell’universo. Parve altrimenti al dottissimo Cudworth, che mostrò le contradizioni di Eusebio di Cesarea. Non è del nostro istituto il comporre sì ardua lite: riporteremo solamente che dagli Egiziani era adorata fra l’altre una certa divinità detta Neph, da cui era opinione di alcuno che fosse formata la macchina del mondo. Questa era simboleggiata nel sembiante di un uomo di color celeste, che avea nelle mani una cintura ed uno scettro, sulla testa un maestoso pennacchio, dalla bocca gli usciva un ove da cui si schiudeva un altro iddio detto Phta, il quale forse è lo stesso che il Vulcano dei Greci. Il senso degli espressi simboli così dichiaravasi.

    Le piume onde va coperta additavano la sua invisibil natura, il supremo dominio delle cose, la spiritualità dei suoi moti. Nell’evo era simboleggiato l’universo. Eppure, sotto la forma di serpente col capo di sparviere, è sentimento di alcuni che fosse da loro Iddio ancora adorato. Se questo apriva gli occhi, l’universo si erapiva di luce; le tenebre occupavano tutte le cose se li chiudeva.

    Percorsa la teogonia e dei Fenicj e degli Egizj, ragion vuole che quella dei Greci si discorra, che da ambedue queste nazioni riceverono parte della loro religione e dei loro costumi.

    Orfeo, che molte cerimonie relio’iose istituì colla divinità dei suoi versi, viene accusato per alcuni di avere a suo capriccio inventati i nomi degli Dei e confusa la loro genealogia. Altri, al contrario, lo difendono da tanto rimprovero, asserendo che di Dìo ebbe idee più giuste di ogni altro pagano. Orazio, infatti, lo chiama interprete degli Dei e correggitore dei guasti costumi dei mortali; e se fede si dasse al compendio che Timoteo fece della cosmogonia orfica, egli potrebbe trionfare di tutte le calunnie dei suoi avversarj. In tanta discordia di opinioni, non posso che riportare le parole del mentovato scrittore.

    « Nel principio Iddio formò l’Etere, ove abitavano gli Dei, e da ogni parte di questo erano il Caos e la Notte che sta sotto l’Etere, volendo con ciò significare che la Notte era prima della creazione, e che la Terra, attesa l’oscurità, era invisibile, ma che la Luce penetrando l’Etere, aveva il mondo intiero coperto del suo splendore. Questa luce era la primogenita degli esseri, e il principio di essa avea dato vita a tutte le cose ed all’uomo istesso. »

    Da Orfeo, secondo alcuni, dedusse Esiodo la sua teogonia, della quale darò il compendio fatto da Banier, poiché tutto il sistema mitologico comprende Dopo questo, diminuirò la noia che forse avrà ca gionata l’istoria di tanti delirj, leggendovi la descri zione della battaglia dei Giganti contro gli Dei che è nel poema del mentovato scrittore. Ho cer cato, traducendolo per vostro vantaggio, d’impri mere nella copia tutta l’anima dell’originale: non so se avrò avuto la fortuna di riescirvi. Udite intanto l’origine e la genealogia degli Dei.

    Nel principio era il Caos, indi la Terra, l’Amore il più bello fra i numi immortali. Il Caos generò l’Èrebo e la Notte, dalla quale unione nacque l’Etere e il Giorno. Formò la Terra appresso il Cielo e le Stelle, soggiorno dei numi. Formò ancora le Montagne unite in matrimonio col Cielo; produsse l’Oceano, e con lui Geo, o Ceco, Iperione, Giapeto, Ftia, Rea, Temide, Mnemosine, Febea, Tetide e Saturno. Produsse ancora i Ciclopi: Brente, Sterope, Arge, fabbricatori del fulmine a Giove e simili agli Dei. Ebbero ancora il Cielo e la Terra altri figli, cioè i superbi Titani, Cotto, Briareo e Gige, i quali aveano cento mani e cinquanta teste. Teneva Cielo rinchiusi i suoi figli, onde la Terra era afflitta. Nel suo dolore fabbricò una falce, che diede a Saturno; ed egli, insidiando il padre mentre inviavasi al letto materno, gli fé’ colla falce quell’ingiuria che in lui fu ripetuta da Giove suo figlio.

    Dal sangue che piovea dalla ferita nacquero i Giganti, le Furie, le Ninfe; e dalle parti recise gittate nell’Oceano nacque la bella Venere, detta Afrodite dal nome della spuma marina, eterna voluttà degli uomini e degli Dei, indivisibil compagna delle Grazie e di Amore, a cui mille altari fumarono in Pafo, in Amatunta, in Citerà. Regnava intanto la discordia fra gli Dei, e Cielo minacciava di punire i Titani suoi figli. La Notte, benché niun dio degnasse il suo letto di tenebre, generò da sé stessa l’inesorabil Destino, la nera Parca, la Morte, il Sonno, i Sogni dall’ali nere, Momo dio della Maldicenza, l’Inquietudine compagna del Dolore e del Rincrescimento, l’Esperidi custodi dei pomi d’oro, le Parche, cioè Cleto, Lachesi ed Atropo, dee terribili, che filano la vita dei mortali e vendicano i delitti. Nacquero dalla Notte ancora Nemesi che premia le virtù, e i vizj punisce, la Frode, l’Amicizia, la Vecchiezza, la Contesa madre della Fatica, dell’Oblio, della Fame, degli Affanni, delle Guerre, delle Stragie delle Sconfitte, e di tutto ciò che i mortali tormenta, come le querele, le dissensioni, i discorsi maligni ed ingannatori, lo scherno delle leggi, la doppiezza e il giuramento. Ponto, cioè il mare, dal suo commercio colla Terra ebbe il giusto Nereo, Taumante, Forci, Ceto ed Euritia. Da Nereo e da Dori, figliuola dell’Oceano, nacquero le Nereidi nel numero di cinquanta. Taumante sposò Elettra figlia deirOceano, e n’ebbe Iride e l’Arpie Aello e Ocipete. Forci da Ceto ebbe Pefredo ed Enio, che ambedue furono subito chiamate gree dalla parola greca γραυσ che significa vecchia, perchè nascendo erano già canute. Ebbe ancora dalla stessa unione le tre Gorgoni: Steno, Furiale e Medusa, dal sangue della quale, allorché Perseo le recise la testa, nacquero il cavallo Pegaso e Crisaoro, il quale avendo sposata Calliroe figlia dell’Oceano, n’ebbe Gerione mostro di tre teste. La stessa Calliroe die la vita ad un altro mostro detto Echidna, cioè vipera, che nella metà era simile ad una bellissima ninfa, e nell’altra ad un orribil serpente.

    Quantunque gli Dei vietassero ad Echidna ogni commercio, chiudendola in un antro della Siria, pure da Tifone ebbe Orco, Cerbero, l’Idra Lernea, la Chimera, che fu uccisa da Bellerofonte, e la Sfinge onde tanto in Tebe si pianse, e il Leone Nemeo, che da Ercole fu ucciso. Ceto generò pure da Forci il Drago custode del giardino delle Esperidi. Tati dall’Oceano ebbe tutti i fiumi, ed innumerabile stuolo di ninfe abitatrici delle fontane. Esiodo le fa ascendere a tremila, e ad altrettanto i fiumi figli dell’Oceano e di Teti. Ftia ed Iperione generarono il Sole la Luna, l’Aurora colle dita di rosa; e Creio dal suo matrimonio con Eurita ottenne Astreo, Perseo e Fallante. Perseo, unito all’Aurora, generò i Venti e Lucifero, quella bellissima fra le stelle, cara a Venere, a cui un moderno poeta paragona con tanta eleganza, imitando Virgilio, la sua amica. Giova ridirne i versi:

    « Qual dagli antri marini

    L’astro più caro a Venere

    Coi rugiadosi crini

    Fra le fuggenti tenebre

    Appare, e il suo viaggio

    Orna col lume dell’etereo raggio,

    Sorgon così tue dive

    Membra dall’egro talamo,

    E in te beltà rivive.

    L’aurea beltade ond’ebbero

    Ristoro unico ai mali

    Le nate a vaneggiar menti mortali.{6} »

    Dal commercio di Fallante con Stige figlia dell’Oceano e di Teti nacquero Zelo, la bella Nice, o Vittoria, la Forza, la Violenza, eterne compagne di Giove, ch’egli chiamò in sua difesa quando far volle sui Titani la memorabil vendetta. Stige giunse la prima sull’Olimpo coi suoi figli; lo che tanto piacque a Giove che doni ed onori le rese in gui derdone; ritenne i figli di lei, e volle che nel di lei nome temessero di spergiurare gli Dei. Febea ebbe da Geo l’amabile Latona ed Asteria, che poi maritata a Perseo, divenne madre dì Ecate, divinità veneranda sopra tutte, cui Giove die l’arbitrio del cielo e della terra e del mare, che sempre era fra gli antichi principio di sacrifizj e preghiere, e presiedeva ai consigli dei re, alle guerre ed alle vittorie.

    Rea si congiunse con Saturno, e n’ebbe prole troppo chiara e potente in suo danno: Vesta, Cerere, Giunone, Plutone, Nettuno e Giove. Avea l’accorto vecchio consultati gli oracoli, che predetto gli avevano che uno dei suoi figli gli avrebbe tolto l’impero del cielo, onde questo padre snaturato tutti gli divorava subito che Rea gli dava alla luce. Ma nulla basta contro il Fato. Rea consigliatasi coi suoi genitori presentò a Saturno una pietra coperta di fasce, invece del figlio che occultò in Creta; onde questa isola va superba per essere stata culla di Giove; e i Cretesi mendaci ardiscono di mostrare ancora il sepolcro del padre degli uomini e degli Dei. Giove, essendo adulto, fu grato alla Terra, liberando i Ciclopi, i quali gli donarono il fulmine, per cui comanda agli Dei, ed atterrisce i mortali. Erasi intanto Giapeto congiunto a Climene figlia dell’Oceano, che diede alla Terra Atlante magnanimo, il perfido Menezio, l’astuto Prometeo, l’incauto Epimeteo, cagione di lacrime eterne al genere umano. Giove fece piombare nell’inferno Menezio ripieno di mille colpe, die la cura ad Atlante di sostenere coi forti omeri il Cielo nel paese dell’Esperidi, e sul Caucaso incatenò Prometeo, le di cui interiora rinascevano alla pena sotto il rostro di un avvoltoio.

    Dopo la guerra contro Saturno e contro i Titani, Giove, avendoli vinti, gli confinò tanto sotto terra quanto il Cielo dalla Terra è distante, e die loro per custodi Cotto, Gige e Briareo, onde erra Banier che sembra creder questi confinati in pena, giacché come avremo luogo di vedere, stettero nella battaglia dei Titani dalla parte di Giove. Si unì la Terra col Tartaro, volendo vendicare i Titani, e generò l’ultimo e il più terribile dei suoi figli. Tifone, dalle di cui spalle nascevano cento teste di serpente. Pericolava il Cielo; Giove stava in forse del suo trono; ma rimediò alla comune paura l’arme per cui trionfò dei fratelli di questo, il fulmine, col quale lo precipitò nel Tartaro profondo.

    Origine dal fulminato gigante ebbero i Venti, tranne Noto, Borea, Zeffiro, figli dei numi. Giove possessore tranquillo dell’Olimpo, sposò Meti, dea fra tutte sapientissima; e questa era per dare alla luce Minerva. Sapendo il padre che il figlio, il quale da lei fosse nato, dominerebbe l’universo, divorò la madre e la prole. Sposò quindi Temi, che generò le Stagioni, Eunomia, Dice, Irene; e le tre Parche, nel che sembra Esiodo contradirsi, poiché innanzi le fa figlie della Notte. Natale Conti concilia questa difficoltà dicendo, che quando le Parche rendevano ragione, figlie chiamavansi di Giove; allorché il caso guidava le forbici fatali erano figlie della Notte. A me sembra che questa coatradizione, e mille altre, abbiano origine dall’essere il poema di Esiodo stato soggetto a molti cangiamenti, come viene asserito da tutti i dotti. Ebbe ancora da Eurinome figlia dell’Oceano le tre Grazie: Talia, Eufrosine ed Aglaia; da Cerere, Proserpina, che fu da Plutone rapita, da Mnemosine le Nove Muse, da Latona Apollo e Diana, da Giunone Ebe, Marte, Lucina e Vulcano.

    Nettuno ebbe da Anfitrite Tritone; Venere generò da Marte lo Spavento, il Timore, eterni compagni di questo dio, ed Armonia la bella.

    Maia figlia di Atlante partorì Mercurio a Giove, che ebbe pure da Semele Bacco, ed Ercole da Alcmena.

    Vulcano sposò Aglaia la più giovane delle Grazie. Bacco si congiunse all’abbandonata Arianna, ed Ercole fatto dio diventò marito di Ebe. La bella Perseide partorì al Sole Circe ed Eete, il quale sposando Idia per consiglio divino, n’ebbe in figlia Medea.

    Tale è la generazione degli Dei, secondo i Greci, conservataci da Esiodo, il di cui poema non è del tutto privo di bellezze, come Banier sentenzia arditamente. Voi stessi potrete esserne giudici, mentre io adempio alla promessa.

    Giove innanzi la battaglia così parlò:

    Uditemi, del cielo e della terra

    Illustri figli, onde io quel che comanda

    Il core a me nell’animoso petto

    Dica: Gran tempo fra di noi pugnammo,

    Numi Titani, e di Saturno figli,

    Della vittoria e dell’ impero incerti.

    Mostrate invitte mani e forza immensa

    Contro i Titani nella mesta pugna,

    E la dolce amistà vi risovvenga,

    E quai cose sofferte: il mio consiglio

    Vi trasse al raggio della cara luce

    Dal dolore dei lacci e della notte

    Lacrimosa. — Sì disse, e l’incolpato

    Cotto gli fé’ risposta: — venerando,

    Cose ignote non parli, e della mente

    Gli accorgimenti e i providi consigli

    Del tuo cor, che scacciò dagl’ immortali

    L’ immenso danno, sappiam tutti, o figlio

    Di Saturno. È mercè tua se qui siamo

    Alla notte involati e alle catene:

    Noi che maggior della paura il danno

    Soffrimmo, or con prudente e intensa mente

    Fia difeso da noi l’impero tuo

    Contro i Titani nella forte pugna. —

    Sì parlava, e lodar gli accorti detti

    I benefici numi, e guerra il core

    Più che innanzi chiedeva, e guerra a gara

    Moveano tutti, uomi e donne, i figli

    Di Saturno, i Titani, e quei che Giove

    Dell’Erebo all’orror tolse tremendi,

    Che d’ogni arme maggior avean la forza:

    Ben cento mani dall’immense spalle

    Minacciando sorgeano a tutti, e sopra

    II forte omero a ognun cinquanta teste

    Torreggianti erari nate, e nella mesta

    Pugna ai Titani stavan contro armati

    D’ immense rupi la possente destra.

    Anche i Titani dall’opposta parte

    Rincoran le falangi, e insieme entrambi

    Mani ostentano e forza. Orribilmente

    L’immenso mare risuonò: la terra

    Alto strideva: l’agitato cielo

    Geme, e sotto il furor dei piedi eterni

    Crolla l’Olimpo. La tremenda scossa

    Fino al Tartaro giunge: il capelstio,

    L’inaudito tumulto, e dei potenti

    Le percosse: dall’una all’altra parte

    Volan dardi, cagion di pianto alterno.

    D’ambo la voce al ciel stellato arriva

    E della zuffa l’ululato; e Giove

    Non più contiene l’ira sua. D’eterno

    Vigor ridonda l’animoso petto,

    E tutta appar l’ira del dio. Dal cielo

    Spesso all’Olimpo folgorando move,

    E dall’Olimpo al cielo. Il fulmin vola

    Col baleno, col tuono, e lo circonda

    La sacra fiamma, dell’eterno braccio

    Terribil gloria. Già risuona acceso

    Il fertil suolo che gli stride intorno

    : D’ inestins^uibil fuoco arde la selva:

    Arde la terra; già del mare i flutti

    E l’immenso oceano: e già la vampa

    Circonda i fiorii della terra: arriva

    Già la fiamma al divino eter: la luce

    Del fulmin sacro, che tonando scende,

    Dei possenti gli eterni occhi confonde.

    Meraviglioso ardor l’Èrebo investe,

    Ode, e vede la pugna, e con la terra

    Par che di nuovo si confonda il cielo,

    E il caos antico l’universo teme. —

    Tanta dei numi era la guerra: I venti

    Mescon fremiti, polve, e grida, e pianto,

    E tutto il fulmin vince arme di Giove.

    Già la battaglia inchina. Era il valore

    Innanzi eguale, e la vittoria incerta:

    Ma fra le prime schiere ivano Gige

    E Cotto e Briareo, che avean di guerra

    Insaziabil sete, e dalle forti

    Mani trecento pietre ad un sol tratto

    Scagliavan spesso, e ai pallidi Titani

    Facean di mille dardi ombra tremenda:

    Ma il mesto suol già gli ricopre, e lega

    Catena eterna le superbe mani;

    E Giove solo col poter del ciglio

    Li circondò di triplicati nodi.

    LEZIONE TERZA.

    DEI TEMPLI E DEI SACRIFIZJ.

    In mezzo ai campi, nel maestoso silenzio delle selve gli antichi sentivano la divinità, e sopra a zolle ed informi pietre offrivano sacri fizj al padre degli uomini, di cui, al dire di Cicerone, degno tempio è solamente l’universo. Perciò i Persiani vietarono i simulacri, e deridevano i Greci che sembravano volere nei templi circoscrivere Iddio. Banier reputa che il tabernacolo di Mosè costruito nel deserto fosse il primo: ma questa opinione dà troppo tardo principio all’idolatria, che grandeggiava innanzi lui nell’Egitto. Vi è anzi ragione di credere che da questo paese piuttosto derivasse il costume di edificare i templi fra le altre nazioni. Ma siccome la vanità di ogni popolo cerca di arrogarsi le invenzioni di tutte le cose, la Grecia ne fa autore Deucalione, e l’Italia Fauno o Giano. Che che ne sia, è certo che i luoghi sacri agli Dei, che in prima erano rozze fabbriche, divennero col tempo miracoli dell’arte, come il tempio antichissimo di Belo, quello di Giove Olimpico e quello di Diana in Efeso, dal di cui incendio cercò Erostrato di acquistar fama. Sarà mia cura descriverli quando parleremo degli Dei ai quali erano sacri. Gli Auguri rivolti all’oriente disegnavano col lituo, o bastone ritorto, una parte di cielo, e questa dicevasi tempio: però Lucrezio dice i templi del cielo; quindi fu comune questa denominazione a tutti i luoghi destinati al culto di qualche nume.

    Si dividevano in più parti i templi: la prima dicevasi vestibolo, dove era la piscina, dalla quale i sacerdoti attingevano l’acqua necessaria per le lustrazioni di coloro ch’entravano nel tempio. Succedeva a questo la navata, quindi il penetrale, ove la divinità stava, e sacrificavano talora i sacerdoti. Terminava il tempio la parte posteriore detta οπιψοδομοσ. I templi degli Egiziani differivano dagli altri contenendo tre vestiboli, come da Erodoto si rileva.

    È da notarsi, specialmente per gli artisti, che gli antichi nel genere ancora degli edifìzj significavano la natura dei numi ai quali erano dedicati, poiché per Giove, per Marte e per Ercole adopravano l’ordine dorico; l’ionico per Bacco, Apollo e Diana; il corintio per Vesta: e qualche volta gli univano, come nel tempio di Minerva presso i Tegeati, dove queste diverse norme dell’ architettura furono da Scopa Pario con solenne artificio distribuite. Ma di questa varietà erano causa i moltiplici attributi del nume, o la pluralità degli Dei che nel tempio erano adorati. E con ogni altra iorma della fabbrica alludevano alle qualità degli frnmortali che credevano abitarvi, poiché lunghi e scoperti erano i templi di Giove, di Cielo, della Luna, rotondi quelli di Venere, del Sole, di Cerere e di Bacco, e riquadrato era quello di Giano. Nè ciò bastava: conveniva pure che il luogo ancora additasse la natura e 1’ ufficio degli Dei. Infatti, quelli ai quali era affidata la tutela delle città, collocando la loro sede nel più elevato sito, sembravano signoreggiarle. In mezzo alla frequenza dei cittadini sorgevano le macchine sacre alle divinità, venerande custodi e maestre delle arti e della pace. Tutti i templi erano volti all’oriente, poiché ninno omaggio riputavano agli eterni più caro della luce, primogenita degli esseri ed anima dell’ universo. Ancora i primitivi Cristiani tennero questo costume, come Clemente Alessandrino ne insegna, ma per motivo vero e sublime.

    Lunga opra sarebbe l’annoverare quante pitture, quanti simulacri che fama sono ancora degli artefici antichi, ornassero queste fabbriche, e come le dipinte pareti, gli scudi votivi, le insegne conquistate rammentassero agli uomini terrori, speranze, vittorie e tutti gli altri eventi della fortuna, le cui permutazioni non hanno tregua. Difendeva la presenza degli Dei ancora l’oro, che non avea violata l’ingenua semplicità dei loro templi; ed eran pure assicurati dalla riverenza di que’ rozzi mortali non corrotti dai vizj e dalle sciagure. Divenuti i numi d’oro e d’argento, invogliarono alla rapina; e ne diedero i primi l’esempio i Galli guidati dal sacrilego Brenno, che derubarono il tempio di Delfo, e deridendo la religione dei sepolcri cercarono con memoranda avidità l’oro fra le ceneri degli estinti, mostrando che dalla barbarie dei vincitori nemmeno il sonno della morte è sicuro.

    Converrà adesso parlare dei sacrifizj, che divideremo, secondo il genere dei numi ai quali erano offerti, in celesti, marini ed infernali. Succederà a questi la descrizione di quelli coi quali gli antichi sancivano il giuramento, placavano le ombre degli estinti, le di cui tombe bevvero qualche volta umano sangue. Achille offerse al troppo vendicato amico quello dei prigionieri Troiani; Pirro sulla tomba di lui uccise Polissena guidato dal paterno furore. Ma gli Dei aveano già dato l’esempio della colpa: che r ara di Diana era stata tinta in Aulide col sangue d’Ifigenia, e un padre immolava all’ambizione del regno la sua primogenita figlia.

    Euripide, Seneca ci narreranno nella seguente Lezione, questi sacrifizj, eterna vergogna degli uomini e degli Dei, che furono

    « Famoso pianto della scena Argiva. »

    Favelleremo intanto di quelli che si offrivano ai celesti. — Erano soliti celebrarsi in primo luogo quando le gote dell’aurora, per servirmi dell’espressione di Dante, pallide divenivano, ed il sole appariva sull’oriente. Serti composti colle frondi degli alberi cari agli Dei ai quali sacrificavasi, coronavano le vittime, gli altari, i sacerdoti, i vasi stessi che accogliere dovevano il sangue delle vittime. Con queste corone alcuni cingevano la sommità del capo, altri le tempia, altri il collo. S’indoravano le corna delle vittime, e si cingevano di bende: nè a questo uso sceglievasi il rifiuto, ma la gloria del gregge. Puro esserne doveva il colore, perfette le membra, nè bove che mostrasse dall’ ingrato aratro consumato il collo, cader poteva innanzi all’ara degli Dei. Chiunque toccasse l’altare macchiato di delitto, grato non era il sacrifizio, e sicura la collera dei numi. Infatti, al dir di Giovenale, qual’ostia non merita di vivere più del colpevole? La viva acqua dei fiumi purgar doveva le mani asperse di stragi recenti ancora a coloro che escivano dalle battaglie. Tanto credevasi piacere pure mâni e core innocente alla divinità nelle tenebre ancora di una falsa religione: Nè minor cura adopravasi nell’isceglier legittimi legni, cioè ordinati dalle leggi, che prescrivevano il modo di sacrificare. Doveva ardere il mirto a Venere, il frassino a Marte, ad Ercole il pioppo, e così a tutti gli altri Dei quegli alberi, dei quali cara era loro la tutela. Quindi ai sacrifizj assistevano certi ministri detti lignitori, perché l’omettere la più piccola diligenza credevasi esser principio d’infortunj. In alcune città, per sacrificare a certi numi, solo ammettevansi alcune famiglie, come per Ercole, fra i Romani, i Pinarj e i Potizj,{7} e per Cerere, in Atene, gli Eumolpidi. Osservavano se le ostie condotte agli altari ripugnavano, giacché allora erano credute poco accette; e ciò pareva loro di esplorare, spargendole con una mistura di sale e farina di orzo, detta mola, e strisciando loro l’obliquo coltello dalla fronte sino alla coda.

    Osservate queste cose, il sacerdote ammantato di bianca o purpurea veste dettava le preci, e spargeva il vino fra le corna della vittima destinata. Costumavasi ciò alcuna volta pure dagli astanti, giacché Virgilio ne rappresenta Didone bellissima, che tenendo dalla destra la patera, diffonde il liquore di Bacco sulla candidissima ostia, pregando voti inesauditi. Dopo il vino e le preghiere conspargevasi coir accennata mola il tergo della vittima già coll’acqua lievemente spruzzato: si arrecavano in mezzo al mistico mormorio dei sacerdoti i sacri coltelli e le scuri e l’urna ripiena dell’ acqua pei ministri; quindi gettavasi il resto della mola, coi peli strappati alla fronte dell’ animale consacrato, nel foco che sopra l’ara splendeva, il che diceasi primo libamento; quello per cui propiziavasi tenea l’altare colla destra, e finalmente la vittima percossa cadeva nel proprio sangue, il di cui spruzzo sovente sulla bianca veste del sacerdote rosseggiava.

    Purgate ed aperte le vittime, nelle di cui viscere palpitanti cercavano l’ ira degli Dei e gli eventi occultati nel futuro, l’ incenso accresceva la fiamma dell’altare, a questo succedeva il vino, e poscia le scelte parti della vittima consperse dell’ indicata mola erano offerte agli Dei. Le reliquie si serbavano ai solenni conviti.

    Alle divinità dell’aria, oltre il fumo delle vittime, caro era ancora l’odore di eletti incensi; onde Me dea bruciò soavi farmachi ai venti perchè non negassero alla famosa nave la terra sperata. Nei sacrifìzj degli Dei marini raccoglievasi il sangue, e le nere vittime non percoteva la scure, ma scannava il coltello. Omero, nel lido del mare risonante, mostra nell’Odissea nerissimo toro svenato all’adirato Nettuno, a cui, se le sue onde spianava, offrivano ancora il cinghiale e l’agnello; l’unito sangue solevano in queste propiziazioni scagliare nel mare, e gli animali promessi sempre fra l’onde immolavano quando dalla tempesta erano stati suggeriti i voti, e la paura dei mortali avea patteggiato coi numi. Prima le interiora, quindi il vino riceveva l’oceano paventato; e Virgilio ne rappresenta il suo eroe, che ornato le chiome di ulivo, getta dalla prora nei flutti parte della vittima e il liquore, dono di Bacco, di cui tre volte al padre dell’onde fa libazioni il condottiero degli Argonauti, perchè reputavasi che dei numeri impari si compiacesser gii Dei: opinione avvalorata dai sottilissimi vaneggiamenti dei filosofi pittagorici. Miele e latte consacravasi alle Ninfe custodi dell’acque.

    Nell’orrore della notte, col capo inchinato verso la terra, al contrario dell’ ostie offerte ai celesti, scannavansi da sacerdoti in veste nera gli atri animali, che mansuefar doveano l’eterna mestizia e del re di Stige e dei numi consorti nell’impero e nella pena. Cupe fosse ricevevano il tiepido sangue, e l’olio invece del vino versavasi sulle viscere che fumavano all’imperatore dell’ombre. Di tutte le propiziazioni agii Dei infernali madre era la paura, e perciò il sacrifizio che loro facevasi da quei che scampati erano al furore di una malattia chiamavasi lustrazione, o ringraziamento, perchè aveano risparmiato di uccidere.

    All’Eumenidi in silenzio sacrificavano gli Esichidi, così detti dal nome di Esico eroe, al quale un ariete era prima immolato.

    Una nera pecora gravida sgozzavano a Brimo, dea severa e terribile, che nel più profondo della notte, quando

    « Del sonno il peregrin cede al desio,

    E delle porte il vigile custode;

    E tregua al duolo ancor nel mesto sonno

    Trova di estinti figli afflitta madre, »

    passeggia chiusa nella sua nera veste dentro i sepolcri, e fa risuonare le aride ossa de’ morti.

    Il sacrifizio, col quale gli antichi davano autorità maggiore al giuramento, vi dirà Omero, tradotto dall’ immortai Cesarotti, che osserva la derivazione di questo rito dall’Egitto, ove le bestie a ciò destinate si chiamavano ostie di maledizione, se ne tagliava la testa, e carica d’ imprecazioni si gettava nel Nilo.

    Ma dalla tenda imperiai già pronti

    Escono i scelti duci, e innanzi agli occhi

    Dell’ammirato popolo festante

    Spiegano tutta dei regali doni

    La magnifica pompa, e l’auree masse,

    E gli splendidi bronzi, ed i superbi

    Dodici corridori, e le di Lesbo

    Sette donzelle, a cui splendeva in mezzo

    D’amabile rossor distìnta il volto,

    Quasi rosa tra fior, Briseide bella.

    Il cignal sacro da più funi avvolto

    Tenea Taltibio; Agamennón s’accosta,

    E ‘1 coltel tratto, dell’irsuta fera

    Le dure sete pria divelte offerse

    Primizie a Giove, e a lui le mani alzando

    Riverente pregò: taciti, intenti

    Stanno i Greci a quel prego. — Odimi, augusto

    Regnator delle cose, e voi m’udite,

    Sole, Terra, o venerande Erinni

    Punitrici degli empj; a tutti io giuro

    Che ‘l pudor di Briseide e la beltade

    Mi furon sacri, che l’amore e i dritti

    D’Achille rispettai, che intatta e pura

    Io gliela rendo (ella al Signore un guardo

    Volse loquace, indi il chinò): s’io mento.

    Quante mai pene hanno i spergiuri al mondo

    Piombin sul capo mio. — Disse, e le fauci

    Del cignal trapassò: l’araldo il teschio

    Spiccò, roteilo, e lo scagliò nel mare

    Carco di tutti sopra sé raccolti

    I tristi augurj e minacciati danni.

    Aggiungerò a questi bei versi alcune notizie sui sacrifìzj che ai morti si facevano, come mi sono prefisso nella mia Lezione. Quindi Omero ci occuperà di nuovo, leggendovi nella traduzione del sq pra lodato autore la terribile espiazione offerta a Patroclo da Achille per dolore forsennato.

    Usanza fu degli antichi pianger gli estinti parenti per tre giorni, avanti di rendere alla gelida spoglia i debiti onori. Allora si recidevano le chiome, e quasi ultimo dono, le ponevano, non senza pianto, nei sepolcri. E chi ardirà di riprendere questi tributi, i quali solo seguivano i miseri al caro lume della vita rapiti, e contender loro quell’onore

    « Che solo in terra avanzo è della morte? »

    Nulla di più santo presso gli antichi che le tombe: onde Tibullo, ne’ di cui versi odi ancora i sospiri dell’amore, diceva all’amica infedele: « Io porterò al sepolcro della tua sorella corone bagnate dalle mie lacrime: sederò supplichevole sulla terra che la ricoprirà, e col cenere muto mi lamenterò delle mie sciagure. »

    Se ricchi e famosi erano gli estinti, costruivasi loro insigne pira, e vi ardevano le cose che nella vita loro erano state le più care, le armi, i destrieri e (oh barbarie:) gli uomini stessi, che fatti schiavi avevano le vicende instabili della guerra.

    I più stretti congiunti (ministero pietoso e tristo ad un tempo) rivolgendo le faci indietro, accendevano il rogo. Che più: Fra le consorti, nell’Oriente, quando il cadavere del marito incendevasi, vi era gara di morte.

    Cessata la fiamma, incenerito il rogo ed il corpo, erano le reliquie e le ossa cercate fra le faville; il che appare chiaramente in Virgilio nel funerale di Miseno, quantunque Teofrasto ne dica che una pietra circolare chiudeva la salma destinata al rogo. Steril giovenca all’ignudo spirto immolavasi: bende cerulee, frondi di funebre cipresso circondavano gli altari ed i vestiboli delle case. Invocavansi le omhre a bere il sangue accolto nelle fosse, a cui si univa qualche volta latte, vino e farina. Saliti sopra il tumulo, chiamavano tre volte l’anima del trapassato, ne spruzzavano di chiarissime acque i compagni con un ramo di ulivo, e così tutti piangendo gli dicevano l’ultimo addio.

    Funerali di Patroclo.

    ………………………………… Ma grande

    Ed ammirando in suo cordoolio Achille

    Ultimo vien presso alla bara: il capo

    Del diletto guerrier sostenta e stringe

    Con ambe mani, e ad or ad or sov’esso

    Il suo dechina, e il freddo volto esangue

    Scalda co’ baci del suo pianto aspersi.

    Giunto al luogo prefìsso, egli in disparte

    Si trasse alquanto, e verso il mar fremente

    Volgendo il guardo: — delle patrie sponde.

    Gridò, Sperchio fìume onorato, indarno

    Il buon Pelèo d’un sacrifizio santo

    Già ti fe’ voto, e ti promise ancora

    Che la mia chioma a te sacrata un giorno

    Dispersa avria sull’onde tue, se salvo

    E vincitor di Troia alle sue braccia

    Ritornato m’avessi. Invan, che a tanto

    Non giunge il tuo poter; vuol altro il Fato;

    Debbo in Troia morir: tu soffri adunque

    Che del mio capo la recisa spoglia

    Sia sacro dono all’amistade, e pegno

    Di dolorosa tenerezza. — Ei tosto

    Le lunghe anella del suo crine, aurato

    Degli omeri flagello, e della fronte

    Maestosa alterezza, in su la bara

    Tronca col ferro, e del defunto amico

    N’empie le mani, e le si accosta al petto.

    Nuovi lai, nuovi pianti:

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