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101 storie su Bologna che non ti hanno mai raccontato
101 storie su Bologna che non ti hanno mai raccontato
101 storie su Bologna che non ti hanno mai raccontato
E-book361 pagine4 ore

101 storie su Bologna che non ti hanno mai raccontato

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Info su questo ebook

Se siete convinti che Bologna abbia molto da raccontare, mettetevi comodi e preparatevi a restare affascinati da queste 101 storie, in cui il capoluogo emiliano vi svelerà i suoi ricordi più intimi. Dall’origine del suo nome etrusco, Felsina, al clangore delle battaglie dei galli e dei romani, proseguirete appassionandovi alle vicende degli eretici dolciniani finiti sul rogo, allo strano caso del redivivo Andrea Casali o alle straordinarie vite delle artiste e delle studiose che qui lavorarono. Leggerete delle riunioni all’insegna del metodo scientifico dell’Accademia degli Inquieti e conoscerete le rivoluzioni del turbolento IX secolo, dai moti carbonari all’insurrezione degli anarchici di Bakunin; fino ad arrivare al recente passato e alla ferita mai rimarginata della strage del 2 agosto 1980, in una città che non si è persa d’animo e ha continuato a essere all’avanguardia della cultura nazionale ed europea. E così, di ricordo in ricordo, attraverso 101 episodi sconosciuti, dimenticati o poco noti, Bologna vi mostrerà la sua anima, la sua identità più autentica.

C’è un’altra città nella città...

Dall’autrice di 101 cose da fare a Bologna almeno una volta nella vita, il libro su Bologna più amato dai bolognesi

Censorino, l’imperatore inesistente

Asini volanti tra Modena e Bologna

Suor Antonia: una monaca di Monza… a Bologna

Quando le torri camminavano

La principessa rivoluzionaria

Il giallo editoriale delle Ultime lettere di Jacopo Ortis

Carducci disturbato da una caccia al tesoro

Il collezionista di mostri che ispirò Freud

La magia del cinema a Bologna: quando il Reno diventò il fiume Congo

Il ritorno di padre Ernesto, fondatore dell’Antoniano e novello Don Camillo

e tante altre storie che non ti hanno mai raccontato

Margherita Bianchini

nata a Reggio Emilia, ha vissuto a lungo a Bologna, città fondamentale nel suo percorso esistenziale. Dopo la laurea in Scienze della comunicazione, ha sempre lavorato nell’editoria, occupandosi con passione dei libri degli altri. Con la Newton Compton ha pubblicato 101 cose da fare a Bologna almeno una volta nella vita, 101 storie su Bologna che non ti hanno mai raccontato e 101 tesori nascosti di Bologna da vedere almeno una volta nella vita.
LinguaItaliano
Data di uscita14 lug 2015
ISBN9788854183032
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    101 storie su Bologna che non ti hanno mai raccontato - Bianchini Margherita

       1.

    LA FONDAZIONE LEGGENDARIA DI FELSINA

    La leggenda delle origini di Bologna è riportata nelle antiche cronache di frate Leandro Alberti e di fra’ Gerolamo Borselli, e non è una vicenda epica o eroica, ma una favola semplice dai toni popolari.

    Fero era venuto da molto lontano, da dove sorge il sole. Aveva attraversato il mare in un lungo e periglioso viaggio con la sua gente ed era infine approdato a Ravenna. Lì i suoi compagni decisero di fermarsi, costruire le proprie case e coltivare la terra. Ma Fero no, sentiva di non essere ancora arrivato nel luogo giusto: un’altra terra doveva accogliere la sua stirpe. E così abbandonò il suo popolo e proseguì verso il tramonto, solo con la moglie Aposa. I due attraversarono una pianura con una fitta vegetazione verde chiaro fatta di pioppi, salici e rampicanti, cospargendosi di unguenti per proteggersi dagli insetti che pullulavano nell’umido clima alluvionale.

    Dopo qualche giorno di cammino, gli sposi giunsero a un torrente dalle acque cristalline, proprio dove le colline digradavano nella pianura e il terreno era più fertile e solido. Fero decise di fermarsi lì, e negli anni Aposa generò molti figli. Questi costruirono capanne su una sponda e sull’altra del torrente e, per facilitare l’attraversamento del corso d’acqua, anche un ponte di arenaria.

    Ma a distanza di molti anni, quando già una nuova generazione popolava il villaggio, una disgrazia funestò la piccola comunità: Aposa si era addentrata nel bosco per bagnarsi nel limpido torrente, quando improvvisamente l’acqua si fece scura e limacciosa, cominciò a scorrere impetuosa, tracimò dagli argini e trascinò via con sé la povera donna che chiamò invano il marito, i figli e i nipoti. Tutti accorsero, ma troppo tardi per salvarla. Per giorni la piansero invocando il suo nome nel luogo dove le diedero sepoltura, vicino al torrente, che da allora fu ribattezzato Aposa.

    Ancora molti anni dopo, il villaggio era cresciuto e Fero iniziò la costruzione delle mura per difenderlo. Il fondatore della città aveva ormai ottant’anni e, mentre lavorava alle fortificazioni nella calura estiva, fu colto da una gran sete. Intravedendo in lontananza la figlia Felsina con una brocca d’acqua, la chiamò chiedendole di portagliene un po’. La ragazza si avvicinò al padre, ma prima di porgergli da bere, gli chiese di soddisfare una sua richiesta: dare il suo nome al villaggio fortificato. Il padre acconsentì e lo annunciò a voce spiegata a tutti i presenti, che subito presero a gridare: «Felsina! Felsina!».

    Secoli dopo, anche Plinio il Vecchio utilizzò questo nome per riferirsi al nucleo originario di Bononia, la Bologna di epoca latina.

       2.

    IL TESORO DI MONTEACUTO

    Nel giugno del 1882 una processione di quaranta donne salmodianti, guidate da un prete, saliva per antichi sentieri a un’altura nei pressi del paese di Monteacuto Ragazza. Le donne avevano un’espressione impaurita e contrita, come di chi debba chiedere perdono. Ma quale colpa dovevano espiare? Da chi temevano di essere punite? La processione si fermò vicino a un punto in cui la terra era stata smossa di recente. Non appena il prete benedì il suolo, le donne parvero più sollevate.

    Cos’era accaduto? Forse antichi e vendicativi spiriti che albergavano nelle profondità della terra erano stati alla fine placati dall’acqua santa e dalle preghiere. E le donne avevano ripreso così il possesso e il controllo del loro territorio, profanato di recente.

    Qualche tempo prima un cacciatore, passato di lì mentre inseguiva piccole prede tra alberi e cespugli, era inciampato in un oggetto metallico. Preso dalla curiosità e dalla speranza di trovare qualcosa di utile – magari un vecchio attrezzo – l’uomo aveva lasciato perdere la selvaggina e si era chinato a osservare l’oggetto, per metà ancora interrato. Dopo averlo disseppellito, inarcò le sopracciglia per lo stupore, mentre contemporaneamente si accarezzava la barba, intravedendo un possibile, quanto insperato, guadagno: tra le mani stringeva una statuetta molto pesante dalle fattezze femminili. Con il coltellaccio che usava per scuoiare le sue prede, raschiò un po’ la superficie del manufatto: sembrava proprio oro!

    L’uomo corse subito a casa a prendere una zappa e, tornato sul luogo del fortunato ritrovamento, si mise a scavare freneticamente, cercando però di non essere troppo irruente per non rovinare gli eventuali altri tesori nascosti nel terreno. E, così facendo, trovò altre due statuette.

    Una volta a casa, però, si rese conto che non avrebbe saputo a chi venderle: non conosceva nessuno di importante in città. Decise quindi di rivolgersi al parroco, il quale vendette i due manufatti al municipio di Bologna, che li acquistò per conto del museo civico. Tuttavia il parroco non volle dire da dove provenissero i preziosi reperti: non si sa se per proteggere il luogo sacro o, più probabilmente, per poter avere libero accesso ad altri tesori che potevano ancora essere lì sepolti. Ma dopo brevi indagini condotte dall’ispettore degli scavi del vicino paese di Vergato, gli archeologi scoprirono presto il punto esatto del ritrovamento e iniziarono i sondaggi, trovando pietre disconnesse di origine calcarea e, sotto queste, antichi muretti a secco e un pozzetto del diametro di un metro, protetto da blocchi di tufo, dentro al quale giacevano due splendide statuette votive che rappresentavano un uomo e una donna offerenti: l’uomo con una mano protesa in avanti e nell’altra una patera, un ampio recipiente usato in antichità per le libagioni durante le cerimonie religiose; la donna nell’atto di porgere un narciso e un melograno, frutto che nell’iconografia classica era associato all’oltretomba. Le statuette erano di fattura raffinata e mostravano l’influenza di modelli greci. Gli archeologi le impacchettarono e le spedirono al museo civico, dove sono visibili ancora oggi: l’uomo è a torso nudo ed è molto muscoloso, tanto da sembrare un atleta, la donna indossa vesti riccamente decorate con disegni geometrici.

    Alla fine degli scavi furono rinvenute in totale quattordici statuette votive, di diversa qualità: da quelle appena descritte, più elaborate, ad altre che sono dei semplici abbozzi.

    A Monteacuto la scoperta dell’antico tesoro etrusco scatenò emozione e curiosità, ma anche ancestrali timori: un’area sacra era stata profanata e dei forestieri avevano depredato il territorio delle sue ricchezze. Ecco perché, per placare gli spiriti maligni che si agitavano nel pozzetto e superare il trauma dell’invasione da parte di studiosi provenienti dalla città, fu allestito il rituale della processione. In questo modo, l’equilibrio fra il passato e il presente, la terra e i suoi abitanti, fu magicamente ripristinato.

    Il ritrovamento delle statue votive etrusche a Monteacuto

       3.

    LA PRESA DI FELSINA

    Nel corso dei secoli il villaggio leggendario dei discendenti di Fero si trasformò in una città etrusca, di cui si sa ben poco, perché era edificata esattamente dove oggi sorge il centro di Bologna: su quel piccolo appezzamento non si è mai smesso di costruire e vivere negli ultimi tremila anni e le tracce del passato remoto si sono confuse e cancellate. Ma, stando allo sviluppo delle altre città etrusche limitrofe, si può supporre che alle capanne circolari iniziali si siano sostituite case quadrangolari, dotate di fondamenta in ciottoli e muri a secco, con tetti di tegole e coppi. Le case erano disposte a piccoli gruppi e circondate da campi coltivati e aie per l’allevamento degli animali. In posizione sopraelevata si trovava l’acropoli, con il sepolcreto e gli edifici sacri.

    La società felsinea si era stratificata grazie ai crescenti commerci non solo con le popolazioni confinanti – veneti, umbri, liguri, piceni – ma anche con il mondo ellenico e l’area transalpina. E, all’inizio del IV secolo a.C., Felsina era la principale delle città etrusche circumpadane, sede di una civiltà raffinata e prospera, influenzata culturalmente dalla Grecia, come testimoniano gli ornamenti in oro lavorati a sbalzo, il vasellame, i candelabri in bronzo.

    Ma la crescita della bella Felsina si interruppe a causa dell’arrivo dei galli dal nord. Il 396 a.C. è l’anno, secondo Plinio il Vecchio e Cornelio Nepote, in cui i galli distrussero Melpum (Melzo), nell’attuale Lombardia, mentre i romani, dopo un secolo di lotte, presero Veio. La civiltà etrusca si trovò quindi a dover fronteggiare le orde barbariche provenienti da nord e la macchina da guerra romana che spingeva da sud.

    Gli abitanti di Felsina cominciarono a temere di vedere il proprio mondo finire e la minaccia delle genti nordiche certo turbava i loro sonni. I galli praticavano una guerra tribale, con assalti furiosi e disordinati tra grida e ululati; combattevano nudi con grandi spade affilate e flessibili, e si proteggevano con ampi scudi. Erano alti, biondi, muscolosi, con la carnagione chiara; avevano baffi e barbe rossastri e i capelli lunghi rizzati a punta sulla testa con una sostanza grassa per apparire ancora più alti.

    Le tribù nordiche conquistarono lentamente la pianura padana, distruggendo, ovunque arrivassero, la civiltà urbana e arroccandosi in castella. Per alcuni decenni il territorio fu così diviso tra le due etnie in lotta. Fu un lento decadere per Felsina, che vide interrotti i propri rapporti commerciali e farsi sempre più vicini i possedimenti barbari.

    Di questo periodo rimangono delle raffigurazioni sulle lapidi di guerrieri etruschi, che ancora oggi si possono ammirare al museo archeologico di Bologna. Una di queste, ad esempio, descrive una scena di lotta. Un combattente felsineo indossa una tunichetta a placche, probabilmente di cuoio, tenute insieme da borchie metalliche. Ha le gambe nude, i capelli ordinati, i lineamenti fini. Brandisce un pugnale e sta per conficcarlo nel fianco di un gallo che tiene per la barba. Il barbaro tenta di divincolarsi e nello sforzo tende i muscoli del torace, lasciati scoperti dal mantello, il suo unico indumento. Ha tratti rozzi e marcati, la barba lunga, i capelli ispidi. Le sue grandi mani sono disarmate e certamente a breve soccomberà sotto i fendenti del nemico.

    Ma se in questa stele l’etrusco è rappresentato vincitore, la storia andò diversamente: i felsinei furono prima assimilati dai galli e poi conquistati dai romani, che nel 189 a.C. trasferirono nell’antica Felsina – divenuta Bononia – tremila coloni.

       4.

    ISIDE E MARIA: DUE MIRACOLI DI LUCE

    Io sono la genitrice dell’universo,

    la sovrana di tutti gli elementi,

    l’origine prima dei secoli,

    la totalità dei poteri divini,

    la regina degli spiriti,

    la prima dei celesti;

    l’immagine unica di tutte le divinità maschili e femminili:

    sono io che governo

    col cenno del cap

    le vette luminose della volta celeste,

    i salutiferi venti del mare,

    i desolati silenzi degli inferi.

    APULEIO, Metamorfosi, V

    Il 2 febbraio di diciotto secoli fa il sole sorgeva su Bononia. Era il giorno della Festa della Luce, durante la quale le donne attraversavano la città portando fiaccole e candele per purificarla. Quel giorno, alle prime luci dell’alba, chi avesse rivolto lo sguardo a est, in direzione di Ariminum (Rimini), avrebbe assistito a uno spettacolo soprannaturale: il lungo nastro di pietra della via Emilia si stendeva all’infinito nella pianura fino all’orizzonte e il disco solare si innalzava in un alone di luce rosata proprio sul punto di fuga della strada. Chi invece si fosse spinto fuori dalle mura dell’urbe in direzione di Mutina (Modena), verso ovest, si sarebbe trovato in prossimità del tempio di Iside, edificato a pochi passi dalla strada, e avrebbe incontrato un’altra manifestazione divina della luce. Il serapeo di Iside era un tempio a pianta dodecagonale: dodici colonne collegate da architravi intorno a una fonte, dalla quale i devoti attingevano l’acqua sacra per celebrare cerimonie domestiche di purificazione. Le colonne erano state erette a coppie in direzione parallela alla via Emilia. In quel giorno le colonne più esterne proiettavano la loro ombra precisamente su quelle più interne in un raro fenomeno ottico. Chi guardava il tempio, con le spalle al sole, non vedeva ombre: illuminato intensamente dalle luci dell’alba, il serapeo sorgeva dal terreno come un’apparizione immateriale.

    Dieci secoli dopo, Iside era una divinità dimenticata e bandita. Degli dèi che i romani avevano pregato e adorato, cui avevano innalzato templi e che avevano raffigurato in migliaia di immagini e statue, era rimasta una labile traccia solo nei nomi dei giorni della settimana. A un unico Dio si votavano ora gli uomini ed esclusivamente a lui erano dedicati i moderni luoghi di culto. Bologna era rinata dalle rovine di Bononia e si era sviluppata intorno all’antica strada romana.

    Sette delle dodici colonne di marmo cipollino dell’antico tempio di Iside reggevano la copertura della chiesa del Santo Sepolcro che era stata costruita in forma ottagonale inglobando il preesistente dodecagono. Quelle che rappresentavano le acque del Nilo per i seguaci di Iside erano diventate un fonte battesimale: l’acqua che dona una seconda vita all’uomo rinato in Cristo.

    Il 2 febbraio era il giorno della Candelora e si celebrava la festa della presentazione al tempio di Gesù e della purificazione di Maria. Un raggio di sole filtrava da una feritoia di pietra ricavata nella parete orientale della chiesa e tagliava l’oscurità dell’interno. Dopo aver disegnato una lama di luce sulla volta, andava a infrangersi sulla parete opposta, dov’era collocata una statua della Vergine. Nel buio della piccola chiesa solo la Madonna risplendeva. E agli occhi del devoto di allora, la luminosità della Vergine proprio nel giorno della sua purificazione, appariva come un miracolo e un segno divino.

       5.

    UNO STORICO VERTICE SULL’ISOLA DEL RENO

    A nord di Borgo Panigale, lungo il Reno, c’è via del Triumvirato. Da lì sulla destra si può prendere via delle Cave ed entrare in una macchia boschiva che si sviluppa sulle sponde del fiume. In quel punto, il Reno si divide in due rami formando una piccola isola, un luogo che è stato teatro di un importante fatto storico avvenuto un anno dopo l’assassinio di Cesare che ebbe per protagonisti proprio i triumviri ricordati nella toponomastica cittadina. La conformazione del terreno e il tracciato dei corsi d’acqua sono mutati nei secoli e non è sicuro che l’isola sia esattamente quella dove si svolsero i fatti, ma con l’immaginazione si può considerare quel luogo, oggi immerso in un panorama industriale, come il teatro di un evento epico.

    Nel 43 a.C. Bononia era un municipio romano di circa 20.000 abitanti, che si sviluppava tra via Carbonesi e l’Aposa, lungo la via Emilia. L’orientamento delle strade ortogonali deviava leggermente dall’asse nord-sud tipico del castrum romano per sfruttare la pendenza naturale del terreno, che permetteva così alle acque di defluire. Le case erano costruzioni in legno di un piano, con pavimenti in terra battuta e tetti di coppi, ma la città aveva già un suo centro monumentale, con il tribunale in corrispondenza dell’odierna Sala Borsa e il foro che si apriva su via Ugo Bassi. Bononia aveva anche un teatro situato lungo via Carbonesi, uno dei primi costruiti nella penisola.

    Nella primavera di quell’anno, le terre tra Mutina e Bononia erano state scenario dello scontro tra due eserciti fratelli: quello di Ottaviano e quello di Antonio. La leggenda vuole che a Forum Gallorum (Castelfranco) una statua di Minerva avesse trasudato latte e sangue come infausta premonizione di una rovinosa guerra fratricida.

    In autunno i due eserciti nemici si trovavano sulle opposte sponde del Reno, proprio dove il fiume, biforcandosi, formava un’isola. Cinque legioni sulla riva destra e altrettante sulla sinistra, per un totale di 60.000 uomini armati. I soldati non erano lì per guerreggiare, ma per assistere all’incontro tra i loro condottieri in cerca di un accordo.

    Dalla schiera sulla riva sinistra si fecero avanti il pontefice massimo Marco Emilio Lepido e il console Marco Antonio, due uomini maturi scortati da una milizia di trecento legionari. Sulla riva destra avanzava invece un giovane console dagli occhi chiari, appena ventenne. Era il figlio adottivo di Giulio Cesare, Ottaviano, accompagnato da altrettanti uomini. I seicento guerrieri si arrestarono al limitare delle due sponde, mentre i tre condottieri percorsero i ponti che portavano all’isola, su cui salì però unicamente Marco Emilio Lepido per perlustrarla e verificare che non vi fossero soldati nascosti tra i cespugli. Il piccolo lembo di terra era deserto – solo le rane e gli uccelli acquatici frusciavano nella vegetazione – quindi Lepido agitò il mantello per dare il via libera agli altri due. Ottaviano e Marco Antonio si incontrarono in una radura e si perquisirono a vicenda per assicurarsi che nessuno avesse un pugnale occultato tra le vesti, poi avviarono finalmente i colloqui. I condottieri discussero per due, forse tre giorni. Dovevano decidere come vendicare la morte di Cesare e come governare e spartirsi le province.

    Fu così che, tra le acque del Reno, si costituì il secondo Triumvirato e venne delineato il nuovo assetto imperiale: la Gallia Narbonense e la Spagna furono date a Lepido; la Gallia Transalpina – detta anche comata, perché i suoi abitanti non erano ancora civilizzati e portavano quindi i capelli lunghi (dal latino coma, chioma) – e la Gallia Cisalpina – detta togata perché abitata invece da popolazioni romanizzate – ad Antonio; la Sardegna, la Sicilia e l’Africa a Ottaviano. Si stabilì anche che Lepido si recasse a Roma per governare l’Urbe e la penisola, mentre Ottaviano e Antonio, a capo di venti legioni, avrebbero inseguito Bruto e Cassio nelle province orientali per ucciderli o costringerli alla fuga. In quei giorni di intensi colloqui i triumviri stilarono anche le famigerate liste di proscrizione che portarono allo sterminio di tante famiglie romane e all’uccisione dello stesso Cicerone, perché nelle Filippiche aveva attaccato Antonio. Nemmeno alcuni parenti dei triumviri furono risparmiati.

    Ai soldati che erano stati loro fedeli furono concesse in premio diciotto città italiane da colonizzare, tra cui proprio Bononia, attribuita ai guerrieri di Marco Antonio.

    Alla fine del loro incontro, i triumviri si strinsero la mano in segno di pace. A quel segnale, i 60.000 uomini radunati sulle spode del fiume esultarono: le loro grida e il clangore delle loro armi risuonarono nell’aria ferma della vasta pianura.

       6.

    CENSORINO, L’IMPERATORE INESISTENTE

    Era un uomo di grande prestigio sia nella vita militare sia nel senato, due volte console, due volte prefetto del pretorio, tre volte prefetto urbano, proconsole quattro volte, tre volte legato consolare, due volte legato del pretorio, quattro volte edile, tre volte questore, ambasciatore presso Sarmati e Persiani.

    Dopo tutti questi incarichi si ritirò nella campagna a trascorrere la vecchiaia, zoppo a causa di una ferita al piede riportata durante la guerra contro i Persiani sotto il regno di Valeriano, ma fu creato imperatore e soprannominato scherzosamente Claudio, per la sua andatura claudicante. Ma poiché gestì l’esercito con ferrea disciplina, quelle stesse truppe che lo avevano proclamato imperatore lo uccisero. Nei pressi di Bononia si trova il suo sepolcro, sul quale è inciso a grandi lettere tutto il suo cursus honorum che termina con la frase «Felix omnia, infelicissimus imperator», felice in tutto, infelicissimo come imperatore. Esiste ancora la sua famiglia, nota come Censorini, fuggita in parte verso la Tracia e in parte verso la Bitinia avendo in odio tutto ciò che è romano. E ancora esiste una villa splendida accanto al palazzo dei Flavi che si dice sia appartenuta a Tito.

    Questa è la storia un po’ bizzarra di Censorino, l’ultimo dei trenta tiranni descritti nell’Historia Augusta, una raccolta di biografie di imperatori e dittatori vissuti nel II e nel III secolo d.C.

    Secondo la breve biografia, Censorino sarebbe stato ucciso a Bologna, dove fu edificato il suo sepolcro, come sostiene anche il Ghirardacci nella sua Historia di Bologna. Nel volume c’è persino un disegno della tomba del tiranno. E Ovidio Montalbani, erudito della metà del Seicento autore di una mappa della città, lo rappresenta a forma piramidale, collocandolo appena fuori le mura.

    Ma della vita di Censorino, al di fuori della Historia Augusta, non si trova traccia: nessun riscontro della sua esistenza, nonostante tutte le importanti cariche ricoperte, così come non ci sono resti del sepolcro e della grande iscrizione su di esso incisa. Ecco perché sorge il dubbio legittimo che la sua figura sia frutto dell’immaginazione, come altre descritte nell’Historia Augusta. È questo, infatti, un testo assai particolare: firmato da sei autori, ma forse scritto da un’unica mano, vi sono mescolati fatti reali e altri inventati, non senza una certa vena ironica. Sulla sua interpretazione negli ultimi due secoli si sono accapigliati fior di studiosi; e alcuni di essi hanno elaborato una teoria suggestiva: l’Historia Augusta sarebbe stata scritta all’inizio del V secolo d.C., quando già era fiorente una letteratura cristiana che tendeva a riscrivere la storia citando falsi documenti e falsi autori. Il testo sarebbe quindi una satira di quel tipo di storiografia.

    O, più probabilmente, l’opera invece potrebbe essere l’espressione del malcontento della classe senatoria, privata, in epoca imperiale, di molta della sua importanza. Gli imperatori e i tiranni descritti nell’Historia Augusta sarebbero quindi dei ritratti satirici dei potenti dell’epoca.

    Il mausoleo immaginario dell’imperatore inesistente

       7.

    IL COLLOQUIO DI SARO E STILICONE NELL’ACCAMPAMENTO DI BONONIA

    Nel 408 d.C. Arcadio, imperatore d’Oriente, morì lasciando il trono al figlio Teodosio II, di soli sette anni. Ne divenne tutore legale lo zio Onorio, giovane imperatore d’Occidente, che aveva avuto a sua volta come reggente il comandante vandalo Stilicone. Il barbaro aveva ricevuto questo incarico dal defunto padre di Onorio, Teodosio I. Stilicone volle incontrare il ragazzo proprio a Bononia per convincerlo ad accettare due sue importanti richieste: ottenere piena libertà di negoziare con Costantinopoli come suo rappresentante e affidare ad Alarico, il re visigoto con cui era in trattative da anni, l’incarico di combattere in Gallia il generale ribelle Costantino.

    Al termine del vertice di Bononia, tutti i piani di Stilicone stavano per realizzarsi: Onorio approvò entrambe le richieste. Ma quattro mesi dopo, mentre era a Ravenna, Stilicone venne a sapere che a Ticinum (Pavia), durante la visita di Onorio, i romani erano insorti e avevano ucciso in un’orribile carneficina tutti gli alti magistrati e gli ufficiali a lui favorevoli. I romani, infatti, non accettavano che Stilicone, barbaro ariano, potesse avere un potere così grande. Da tempo nel Senato si stava affermando la fazione contraria alla negoziazione con i barbari e quindi all’azione politica dello stesso Stilicone.

    Il generale vandalo decise così di reprimere nel sangue l’insurrezione: insieme ai federati, truppe barbare al soldo dell’Impero, minacciò di sterminare l’esercito romano, se Onorio fosse stato ucciso. Quindi partì alla volta di Ticinum con i suoi miliziani e si

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