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Italo Balbo e Nello Quilici: Le leggi razziali
Italo Balbo e Nello Quilici: Le leggi razziali
Italo Balbo e Nello Quilici: Le leggi razziali
E-book106 pagine1 ora

Italo Balbo e Nello Quilici: Le leggi razziali

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In questo libro, dedicato agli anni Trenta del Novecento, al lettore sono presentati uomini ed eventi di grande rilevanza nazionale: il “migliore” Italo Balbo, ostile all’antisemitismo e all’alleanza italo-tedesca di Mussolini; il fallito tentativo di Mussolini di mettere Nello Quilici contro l’amico Balbo, nonostante l’obbligo, imposto al primo, di esaltare le leggi razziali; l’amicizia tra il fascista Quilici e l’antifascista Francesco Viviani, martire della Resistenza; la “grande illusione” del fascismo di sinistra, capeggiato dal tresigallese (Tresigallo, FE) Edmondo Rossoni; il convegno internazionale di studi sindacali e corporativi, promosso da Quilici e tenutosi a Ferrara nel maggio 1932; l’altra “grande illusione” del gentiliano Ugo Spirito, presentatore a Ferrara della teoria della Corporazione proprietaria, accusata di comunismo.
LinguaItaliano
Data di uscita14 mag 2018
ISBN9788828323716
Italo Balbo e Nello Quilici: Le leggi razziali

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    Anteprima del libro

    Italo Balbo e Nello Quilici - Alessandro Roveri

    DIGITALI

    Intro

    In questo libro, dedicato agli anni Trenta del Novecento, al lettore sono presentati uomini ed eventi di grande rilevanza nazionale: il migliore Italo Balbo, ostile all’antisemitismo e all’alleanza italo-tedesca di Mussolini; il fallito tentativo di Mussolini di mettere Nello Quilici contro l’amico Balbo, nonostante l’obbligo, imposto al primo, di esaltare le leggi razziali; l’amicizia tra il fascista Quilici e l’antifascista Francesco Viviani, martire della Resistenza; la grande illusione del fascismo di sinistra, capeggiato dal tresigallese (Tresigallo, FE) Edmondo Rossoni; il convegno internazionale di studi sindacali e corporativi, promosso da Quilici e tenutosi a Ferrara nel maggio 1932; l’altra grande illusione del gentiliano Ugo Spirito, presentatore a Ferrara della teoria della Corporazione proprietaria, accusata di comunismo.

    Premessa

    In questo libro si parla degli ultimi anni di vita di Nello Quilici, uno dei tanti galantuomini che giudicarono l’amor di patria come un ideale coincidente, dopo la grande guerra, con l’adesione al fascismo sotto la guida del carismatico istrione Benito Mussolini e, a Ferrara, di Italo Balbo, organizzatore della violenza contro i nemici della patria, i rossi, i comunisti.

    L’amicizia personale Quilici-Balbo fece il resto, e impedì a Quilici di rendersi conto che il fascismo, benché sotto le spoglie dell’operetta, era barbarie, antirisorgimento, totalitarismo.

    I giovani lettori apprenderanno che cosa significhi la rinuncia alla libertà: nel caso di Quilici, valente e colto giornalista, l’impossibilità di disubbidire agli ordini dall’alto obbliganti a difendere le infami leggi razziali contro gli ebrei; nel caso di Balbo, l’impossibilità di rendere per davvero operante il personale disgusto per tali leggi e per l’alleanza con Hitler.

    Ma nel libro c’è di più: c’è l’innamoramento di Quilici, ubriacato dalla propaganda mussoliniana, per il nazionalsocialismo tedesco: una tragica ammirazione per i futuri massacratori di Auschwitz da parte di un uomo che non avrebbe fatto male a una mosca, e che in Italia fece tutto ciò che poté per aiutare l’antifascista professore Francesco Viviani.

    E ancora: c’è l’illusione di un altro galantuomo, il tresigallese (Tresigallo, FE) Edmondo Rossoni, il quale prende sul serio la mistificazione del corporativismo e si batte, contro uno dei massimi filosofi italiani, in difesa del velleitario sindacato fascista secondo lui minacciato da una certa interpretazione del corporativismo stesso.

    Nei suoi modesti limiti, insomma, questo libro è, oggettivamente, un inno alla Costituzione repubblicana del 1946-47 e alla libertà, ideale da riconquistare ogni giorno e ogni giorno da difendere dai suoi arroganti nemici, contro l’illusione che essi abbiano rinunciato a insidiarlo.

    Settembre 1938: Antonio Baldini scrive a Nello Quilici

    Ai primi di settembre del 1938 Antonio Baldini, redattore-capo della rivista Nuova Antologia nonché insigne affermato scrittore ed elzevirista del Corriere della Sera, scrive all’amico Nello Quilici, direttore del ferrarese Corriere Padano (quotidiano che è la creatura di un fraterno amico del direttore, il ras del fascismo ferrarese Italo Balbo, il quale dal 1° gennaio 1934 è governatore della Libia: un vero promoveatur ut amoveatur del geloso Mussolini).

    Nella lettera su carta intestata della Nuova Antologia Baldini accenna a un articolo di Quilici, un «saggio ben documentato sulle leggi razziali» da pubblicare sulla Nuova Antologia, saggio da lui richiesto in una «precedente conversazione in propo sito» ed evidentemente promesso dal ferrarese.

    Baldini è preoccupato, perché l’atteso articolo del direttore del Padano non gli è ancora pervenuto. Il redattore-capo della Nuova Antologia chiede quindi conferma dell’assolvimento dell’impegno da parte di Quilici. Invoca persino un cenno telegrafico, con tanto di data, «di assicurazione, del quale -precisa- ho assoluto bisogno per mia pace». Baldini non lo dice per celia, non sta usando un’iperbole. Non è, questo, come vedremo, tempo da motti scherzosi o da iperboli. Sorge subito un interrogativo: da chi è turbata la pace di Baldini?

    Il riferimento più immediato è ovvio: quella pace è turbata dalle insistenze del suo superiore diretto, il direttore della Nuova Antologia: Luigi Federzoni, il potente e fidatissimo gerarca che Mussolini ha nominato ministro dell’Interno subito dopo il delitto Matteotti come trait d’union tra lui e re Vittorio Emanuele III in quel delicatissimo e per lui difficilissimo momento. Nel settembre 1938 il Federzoni che sollecita l’articolo di Quilici è nientemeno che presidente dell’Accademia d’Italia, fondata nel 1926. È lui che incalza il povero Baldini.

    Il quale ha una bella gatta da pelare. «L’Accademia d’Italia -è stato scritto- è un organismo di sostegno al regime e alla sua politica, e fu partecipe dell’opera di fascistizzazione compiuta negli anni Trenta nei confronti delle istituzioni culturali esistenti. Lo stesso Federzoni, nei suoi discorsi ufficiali, non mancò di sottolineare come l’Accademia fosse stata creata come istituto vivo e operante, ossia prettamente fascista, in antitesi col vieto concetto convenzionale di pomposa inutilità che si vuol di solito collegare a ogni tradizione accademica».

    C’è poco da scherzare. Mussolini, il dittatore onnipotente, fondatore trionfale nel 1936 dell’Impero etiopico sulla pelle degli Abissini soffocati con i gas asfissianti, sta, nel 1938, ogni giorno di più, anche mediante i comuni aiuti militari alla sovversione di Franco in Spagna, avvicinandosi alla Germania nazista, e dall’inizio dell’anno ha deciso di introdurre anche in Italia l’antisemitismo di Stato, scelta politica «determinata essenzialmente -ha scritto uno dei maggiori conoscitori della materia- dalla convinzione che per rendere granitica l’alleanza italo-tedesca fosse necessario eliminare ogni stridente contrasto nella politica dei due regimi».

    Il contrasto che occorreva eliminare riguardava, appunto, la totale assenza in Italia di provvedimenti del tipo di quello varato in Germania il 15 settembre 1935 con il titolo di Legge per la protezione del sangue tedesco e dell’onore tedesco ( Gesetz zum Schutze des deutschen Blutes und der deutschen Ehre): «il divieto di matrimonio tra ebrei e cittadini del Reich di sangue tedesco o affine, con conseguente nullità dei matrimoni conclusi, anche se all’estero, contro tale divieto; la proibizione dei rapporti sessuali extramatrimoniali tra ebrei e cittadini del Reich di sangue tedesco o affine; la proibizione per gli ebrei di tenere al loro servizio donne tedesche di età inferiore ai 45 anni, che […] mirava a proteggere le donne tedesche da rischi sessuali corruttori della razza».

    Per questo, a partire dal febbraio 1938, tutta la stampa italiana aveva ricevuto una precisa direttiva: dare vita a una violenta campagna antisemita. Mussolini, il 16 febbraio 1938 ha fatto conoscere il suo pensiero: mentre il «problema ebraico universale», ha scritto, va risolto costringendo gli ebrei in un loro Stato lontano, da creare «in qualche parte del mondo, non in Palestina» (già in agosto penserà per questo alla Somalia italiana), il problema dell’ebraismo italiano va intanto risolto adottando provvedimenti intesi a ridurre drasticamente «la parte degli ebrei nella vita d’insieme della Nazione».

    La stampa, come si sa, da oltre un decennio, anche per opera di Federzoni, è tutta asservita al regime fascista. «Il 1938 vide la stampa italiana -ha scritto De Felice- impegnata in uno sconcio crescendo razzista e antisemita. Decisa la persecuzione, si trattava innanzi tutto di renderla necessaria agli occhi degli italiani, e questo toccava soprattutto alla stampa. I battistrada furono al solito Il Tevere e il Quadrivio e, a un livello un po’ più qualificato, Il regime fascista […]. Sulla strada aperta da questi tre giornali si incamminarono prima i giornali locali e giovanili, spesso in crisi economica e più esposti alle pressioni del ministero della Cultura popolare e delle varie federazioni locali fasciste e fatti da individui che speravano di conquistarsi così titoli di merito e di carriera, o di far dimenticare precedenti colpe: ricorderemo tra essi […] Il Polesine fascista di Rovigo, La Scure di Piacenza, Eccoci di Cremona, Il solco fascista di Reggio Emilia, Il popolo di Romagna di Forlì […]; poi, nel giro di poche settimane, via via

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