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Imperialismo Pagano: nelle edizioni italiana e tedesca
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Imperialismo Pagano: nelle edizioni italiana e tedesca
E-book554 pagine8 ore

Imperialismo Pagano: nelle edizioni italiana e tedesca

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Imperialismo pagano venne pubblicato verso la metà del 1928 a ridosso, dunque, dei Patti Lateranensi dell’11 febbraio 1929 fra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano. Il pamplhet di Julius Evola, che riprendeva, fondendoli, alcuni articoli apparsi nel 1926-27, voleva essere proprio una messa in guardia per il fascismo contro questo avvenimento che, a giudizio dell’autore, avrebbe tarpato le ali alle potenzialità imperiali del Regime mussoliniano. Non era una personalissima alzata di scudi, ma la conclusione di un cammino che riassumeva le posizioni di un mondo esoterico e/o pagano quanto mai composito che si riuniva anche sotto le iniziative del Gruppo di Ur e che, con la Conciliazione, vedeva spegnersi ogni aspettativa della possibile affermazione nell’Italia fascista di spiritualità diverse dall’egemonia cristiano-cattolica.
LinguaItaliano
Data di uscita29 set 2015
ISBN9788827223208
Imperialismo Pagano: nelle edizioni italiana e tedesca
Autore

Julius Evola

Il barone Julius Evola (pseudonimo di Giulio Cesare Andrea Evola) (Roma, 19 maggio 1898 – Roma, 11 giugno 1974) è stato un filosofo, pittore e poeta italiano. Fu personalità poliedrica nel panorama culturale italiano del Novecento, in ragione dei suoi molteplici interessi: arte, filosofia, storia, politica, esoterismo, religione, costume, studi sulla razza.

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    Anteprima del libro

    Imperialismo Pagano - Julius Evola

    COPERTINA

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    Imperialismo pagano

    Il fascismo dinnanzi al pericolo euro-cristiano

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    Quarta edizione corretta e con due Appendici

    JULIUS EVOLA

    Saggio introduttivo di Claudio Bonvecchio

    Opere di Julius Evola

    a cura di Gianfranco de Turris

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    Copyright

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    Imperialismo pagano

    I ed.: Casa Editrice Atanòr, Todi-Roma, 1928.

    II ed. anastatica: Ar, Padova, 1978.

    III ed.: Ar, Padova, 1996.

    IV ed. corretta con Heidnischer Imperalismus nelle «Opere di Julius Evola»: Edizioni Mediterranee, Roma, 2004.

    Ed. tedesca riveduta e ampliata: Heidnischer Imperialismus, Armanen-Verlag, Lipsia, 1933.

    Ed. russa: Jazyceskij imperializm, Arktogeja, Mosca, 1994.

    Ed. argentina: Imperialismo pagano, Ediciones Heracles, Buenos Aires, 2001.

    Heidnischer Imperalismus

    I ed. italiana: Centro Studi Tradizionali, Treviso, 1991.

    II ed. italiana riveduta con Imperialismo pagano: Edizioni Mediterranee Roma, 2004.

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    In copertina:

    Julius Evola fotografato da Stanislao Nievo (1968).

    Aquila in volo ad ali spiegate con negli artigli una corona di alloro.

    Bassorilievo in marmo di età traianea (98-117 d.C.).

    Foro di Traiano, da epoca medievale nella Chiesa dei Ss. Apostoli a Roma.

    L’aquila, simbolo imperiale e simbolo per eccellenza di quello romano, rappresenta

    l’acutezza di vista e di ingegno, il desiderio di ascendere e di ascesi, la regalità sacra,

    il medium per raggiungere la sede degli dèi e messaggero di questi ultimi. L’aquila, infatti,

    è l’unico animale che può guardare il sole senza accecarsi, quindi anche riferimento celeste e solare. L’alloro è un simbolo di vittoria e la sua forma di cerchio o corona rappresenta l’eternità e il superamento del tempo cronologico.

    ISBN 978-88-272-2320-8

    Prima edizioni digitale 2015

    © Copyright 2015 by Edizioni Mediterranee

    Via Flaminia, 109 - 00196 Roma

    www.edizionimediterranee.net

    Versione digitale realizzata da Volume Edizioni srl - Roma

    Nota del Curatore

    image-4.png

    La genesi di Imperialismo pagano viene ricostruita con una certa esattezza dal suo stesso autore nell’ autobiografia sprituale Il Cammino del Cinabro (1963): «Imperialismo pagano trasse origine da una mia relazione con Giuseppe Bottai (...) Egli teneva ad essere uno degli intellettuali del movimento e dirigeva la rivista Critica Fascista, la quale si permetteva una abbastanza vasta libertà di opinione. In alcune mie conversazioni con Bottai nacque l’idea di muovere le acque lanciando un programma rivoluzionario che investisse il piano della visione fascista della vita fino ad affrontare il problema della compatibilità fra fascismo e cristianesimo. Bottai trovò eccitante l’idea. Così io scrissi, per la rivista, articoli in tal senso. Ma non appena l’obiettivo ultimo della mossa si rese visibile e fu formulata l’idea di un imperialismo pagano come unico orientamento concepibile per un fascismo coerente e coraggioso, nacque un vero putiferio». Non solo su Critica Fascista di Bottai nel 1926-1927 Evola espose queste idee ma, come ricorda nella Appendice 2 Gian Franco Lami, anche su Vita Nova di Arpinati (altra «rivista ufficiosa») nel 1927.

    «Putiferio» anche paradossale, volendo, se pensiamo che le idee espresse da Evola nel suo primo articolo per il quindicinale bottaiano (Idee su uno Stato come Potenza, in Critica Fascista, 1° settembre 1926) sono praticamente le stesse posizioni espresse un anno prima in un paio di lunghi interventi apparsi su Lo Stato democratico, un altro quindicinale, ma questa volta «antifascista» e diretto dal duca Giovanni Colonna di Cesarò, ex ministro del primo governo Mussolini, antroposofo e amico di Evola per ragioni esoteriche (Stato, Potenza, Libertà del 1° maggio 1925, Note critiche sulla dottrina democratica del 15 agosto 1925, ripubblicato il 15 novembre e 15 dicembre 1925). Nessuno scandalo se certe idee erano pubblicate sulla stampa «aventiniana», terribile scandalo se pubblicate sulla stampa fascista.

    «Per simili spropositate reazioni», continua l’interessato, «vi era un perché: ancora il Concordato non era stato stipulato e si temeva che qualcuno, da dietro le quinte, volesse guastare il gioco». Julius Evola non poteva sapere – né del resto nessuno poteva lontanamente immaginare almeno sino al 1990 quando vennero finalmente, anche se parzialmente, pubblicati i Taccuini mussoliniani di Yvon De Begnac – che le cose non stessero affatto così. Le conversazioni fra De Begnac e Mussolini, al fine di raccogliere materiale per una biografia ufficiale del Duce, si svolsero a intervalli irregolari lungo dieci anni, dal 1934 al 1943, e nel corso di esse sorprendentemente Mussolini parla abbastanza spesso di Evola con un tono e con riferimenti così precisi a lui, alle sue opere, alle sue idee, ai loro incontri e conversazioni da non sembrare improvvisati o inventati e dunque tali da mettere in dubbio l’affermazione evoliana, proprio ne Il Cammino del Cinabro, di non aver mai frequentato e addirittura conosciuto il capo del fascismo sino al 1941. Ebbene, una delle affermazioni più inattese di Mussolini (non datata, come del resto tutte le altre) è questa: «Contrariamente a quanto generalmente si pensa, non fui affatto seccato per la presa di posizione del dottor Julius Evola pochi mesi innanzi la Conciliazione contro una qualsiasi modulazione di pace tra Santa Sede e Italia. L’atteggiamento del dottor Evola, del resto, non riguardò direttamente i rapporti tra Italia e Santa Sede, ma quella che, a suo avviso, sarebbe, nei secoli, l’inconciliabilità tra tradizione romana e tradizione cattolica. Per cui, identificato il fascismo con la sopravvivenza della tradizione romana, altro non resterebbe se non considerargli avversaria qualsiasi visione della storia di ordine universalistico». Una interpretazione del tutto corretta delle idee e intenzioni evoliane: il che vuol dire che Mussolini aveva letto gli articoli e/o il libro del pensatore tradizionalista, mentre il suo autore riteneva il contrario («Di certo, Mussolini non lesse il libro: qualcuno deve avergliene dato semplicemente un cenno fuggevole e tendenzioso»). Evidentemente, nel suo realismo pragmatico, il Duce vedeva questa presa di posizione radicale come un correttivo ad eccessive spinte confessionali di certi ambienti fascisti, così da indurre a rimeditare quali furono esattamente i rapporti fra Evola, il fascismo e il suo capo.

    Prosegue Evola: «Vista la mala parata, Bottai dimostrò già allora la fedeltà che in seguito, al momento della crisi del fascismo, doveva dimostrare verso Mussolini: mi piantò in asso, non mi dette nemmeno modo di rispondere alle accuse più assurde della stampa di parte guelfa, si lavò le mani dichiarando che quegli articoli, pur riflettendo il travaglio fascista (?), impegnavano solo la responsabilità del loro autore. Allora feci da me. In un libro – appunto Imperialismo pagano uscito nel 1928 – riaffermai e sviluppai le tesi di quegli articoli, rispondendo anche a tutti i miei avversari». E ovviamente anche intorno al libro si riaccese la polemica, come si può vedere sempre nell’Appendice bibliografica.

    Quale, in effetti, l’intenzione di quest’opera? «Col tentativo di Imperialismo pagano vi fu un abbastanza chimerico tentativo di agire sulle correnti politico-culturali del tempo»: è sempre Evola che parla nella sua autobiografia. L’opera, infatti, non solo può ma deve essere considerata – come l’autore scrive esplicitamente nella sua edizione tedesca – un vero e proprio «appello»: «Noi lanciamo l’appello, dovendolo lanciare» (Heidnischer Imperialismus, Centro Studi Tradizionali, Treviso, 1991, p. 35; in questa edizione p. 199) scrive all’inizio, e in conclusione del libro: «Il simbolo imperiale ghibellino rappresenta l’appello all’adunata delle forze ancora sane» (p. 184; qui p. 289). Nella edizione italiana del ’28 invece c’è un abbastanza esplicito riferimento a Mussolini: «Noi dunque oggi, a Roma, testimoniamo della tradizione pagana ed invochiamo la restaurazione dei valori mediterranei in un Imperialismo pagano. La persona di chi parla e di chi altro sia congiunto a lui nell’istessa realtà spirituale – isolati, impassibili e intransigentemente aristocratici in questo mondo di mercanti, di ingabbiati e di deviati – scompare dinnanzi a questa realtà stessa, che per mezzo di loro si rivolge a Colui in cui oggi si riassume il movimento fascista. Si riuscirà a sentire che non si tratta di parole, non di utopie, non di astrazioni romantiche, ma che è la più positiva e la più possente realtà che attende di essere dissotterrata per mezzo di esseri capaci di tutto, per mezzo di un’opera rispetto a cui tutto ciò che il fascismo ha fatto finora diviene nulla? Che tuttavia, tutto ciò è possibile? Che mille forze urgono nell’oscurità in attesa di un punto di sbocco?» (Imperialismo pagano, Atanór, Todi-Roma, 1928, p. 16-17; in questa edizione p. 65). Non solo le parole conclusive del brano sopra riportato fanno un preciso riferimento al «lavoro» che su un piano magico-spirituale si stava tentando, ma colpisce la frase «realtà che attende di essere dissotterrata»: come non pensare al fascio etrusco di bronzo con verghe e nastri trovato in una tomba e consegnato a Mussolini il 19 maggio 1923, di cui parlerà in modo enigmatico un articolo sull’ultimo numero di Krur, quello del dicembre 1929?

    Sono frasi da tener ben presenti su un duplice piano. Si ricordi che il libro uscì quando già da un anno era in attività il «Gruppo di Ur» che pubblicava il mensile Ur: la sua finalità, come spiega Evola nell’autobiografia, era non solo di «destare una forza superiore da servire d’ausilio al lavoro individuale di ciascuno», ma anche «l’idea che su quella specie di corpo psichico che si voleva creare potesse innestarsi, per evocazione, una vera influenza dall’alto. In tal caso non sarebbe stata esclusa la possibilità di esercitare, da dietro le quinte, un’azione perfino sulle forze predominanti nell’ambiente generale di allora».

    Quindi, si può pensare che da un lato ci fosse un’operazione «psichica» sul fascismo nell’ambito del «Gruppo di Ur»; dall’altra un’operazione ideale, culturale e filosofica, che potesse avere anche un aspetto politico concreto concomitante, attraverso il saggio evoliano. Lo conferma lo stesso Evola nella Diffida riportata nella Appendice I, là dove afferma che da un lato «lo spirito dell’Imperialismo pagano si deduce dall’Idealismo magico» e dall’altro che esso «è soltanto la diretta applicazione politica di quella dottrina».

    Che le cose stiano così possono indicarlo anche due frasi, la prima di Imperialismo pagano, là dove Evola sembra lanciare una specie di ammonimento: «Noi sappiamo bene ciò che facciamo. I simboli sono più forti degli uomini. E gli spiriti, una volta che li si siano evocati, bisogna osare di comprenderli e di dominarli – altrimenti essi conducono irreparabilmente a rovina l’imprudente evocatore. Ciò, per chi, oggi, in questo luogo e in questo momento preciso della storia, rievoca la romanità e, in essa, la tradizione mediterranea» (p. 95; qui p. 128); l’altra tratta da una nota nelle «conclusioni» della prima edizione di Rivolta contro il mondo moderno: «Una presentazione delle nostre tesi come programma di combattimento per l’azione pratica da svolgersi sulla base di un blocco tradizionale italo-germanico, è contenuta nel nostro Heidnischer Imperialismus (Leipzig, 1933). Questo libro deve servire come base per misurare ciò che di valido e ciò che, invece, di condizionato da un particolare momento e di impreciso, vi è nella analoga presentazione italiana costituita dal nostro Imperialismo pagano (Todi-Roma, 1928)» (Hoepli, Milano, 1934, p. 471, nota 3). Che quindi veniva già ritenuto sei anni dopo la pubblicazione come superato perché «condizionato» e «impreciso»; e considerando che la nota deve essere stata aggiunta in bozza, dato che Rivolta venne terminata tra la fine del 1931 e l’inizio del 1932.

    Le polemiche interne e oltre le righe con Arturo Reghini (peraltro sempre citato positivamente in Imperialismo pagano, sia con il suo nome sia con lo pseudonimo di «Pietro Negri», così come viene citato positivamente trent’anni dopo nel Cammino del Cinabro), per cui si rimanda all’Appendice I curata da Angelo Iacovella e ai relativi documenti, che portarono alla scissione del «Gruppo di Ur»; sia le polemiche esterne sulla stampa fascista e cattolica innescate dal libro, uscito sicuramente dopo l’aprile 1928, a meno di un anno di distanza dall’11 febbraio 1929, fecero fallire completamente l’operazione, se pur aveva una minima possibilità di ottenere un qualche effetto.

    Era dunque, indipendentemente da quel che si può pensare sui modi, sui metodi e sui tempi, questa una operazione teoricamente e praticamente impossibile? era del tutto astratta e velleitaria? Ad essere realistici ed a rimanere sul piano ideale e politico, si deve dire che non lo era completamente. In quel periodo, in realtà, tutto avrebbe potuto essere possibile perché la situazione si presentava talmente precaria e convulsa, le forze in movimento talmente complesse, che si sarebbe potuto imboccare una via come un’altra. Tanto è vero che Evola fa riferimento a «l’altra alternativa possibile, se pur non ancora esistente» (p. 25; qui p. 73), ad «una rivoluzione nell’ altro senso, con cui mettere in piedi l’ altra forma possibile di Stato» (p. 25; qui p. 72). Gli eventi erano fluidi e non di una rigidità immodificabile.

    In apparenza il libro ha il tono dell’invettiva e del pamphlet, tanto è vero che la premessa editoriale lo definisce esplicitamente «questa opera di battaglia» (p. V; qui p. 57), immagine che riecheggia anche nella traduzione tedesca: Evola se ne rendeva conto benissimo, e lo sottolinea già nella citata nota a Rivolta contro il mondo moderno, mentre trent’anni dopo ne Il Cammino del Cinabro confessava: «Nel libro, in quanto seguiva – debbo riconoscerlo – lo slancio di un pensiero radicalistico facente uso di uno stile violento, si univa ad una giovanile mancanza di misura e di senso politico e ad una utopica incoscienza dello stato di fatto». Cioè, il parlare e lo scrivere senza avere una «sponda» politica: riferendosi all’esperienza della rivista La Torre, il filosofo scrive sempre nella sua autobiografia: «Il breve episodio mostrò però l’ingenuità idealistica del nostro tentativo, uno scarso senso pratico e tattico, non diverso che nel caso del lancio di Imperialismo pagano. Per agire o, almeno, per avere mano libera, bisognava assicurarsi una qualche base d’appoggio all’interno della cittadella».

    Però, al di là dei proclami e degli ultimatum, dell’irruenza polemica e delle punte aspre, non tutto è così. Potrà apparire un paradosso, ma Evola, nella sua proposta di un «fascismo ghibellino», si mostra anche realistico. Ad esempio, scrive a proposito della Conciliazione ormai imminente: «Mentre dal punto di vista pragmatico, di convenienza pratica, siamo disposti ad accettare quanto possa essere accettato nei rapporti fra fascismo e Chiesa, dato e non concesso che ci si dimostri che l’accordo sia la più utile delle combinazioni; in sede ideale, e nei quadri interni del fascismo, il quale dovrà mantenersi come una realtà distinta e considerare la Chiesa da un punto di vista puramente politico...» (p. 138; qui p. 160); e quindi non nega che il cristianesimo-cattolicesimo possa essere la religione delle «masse» italiane ed europee (p. 155; qui p. 173); e poi: «L’attuale stato di cose è tale che pensare ad una restaurazione politica dell’impero pagano, specie partendo dall’Italia, sulla base dei mezzi richiesti dalla guerra moderna, è pressoché follia» (p. 84; qui p. 120); e ancora: «Il lettore che fosse stato attratto a scorrere queste pagine dal colorito politico del titolo, si troverà dunque molto deluso, trovandovi tutt’altro che ciò che oggi si intende per politica» (p. 94; qui p. 128).

    Insomma, il trentenne Evola, pur nella foga e nella incoscienza giovanile, si rendeva ben conto di quel che stava facendo: una battaglia contro situazioni assai più grandi di lui. Eppure, nonostante tutto, in nome di quelle massime di vita che lo accompagneranno sino alla fine, fece quanto pensava si dovesse fare in quel «momento preciso della storia»: approfittare di una occasione (il fascismo al potere da quattro-sei anni) e lanciare la sua proposta radicale, quasi una sfida, una «prova» da chiedere al regime: e infatti scrive proprio a conclusione del libro-scandalo: «Nel fascismo stesso ci è sembrato di scorgere alcune possibilità appunto su questa linea. Tale la ragione, per cui, oltre l’opera da noi svolta in sede di filosofia e di scienza esoterica, si è creduto opportuno che fosse lanciata a titolo di prova, una dottrina dell’Imperialismo pagano» (p. 158; qui p. 176). La frase è proprio: a titolo di prova. Rivolgendosi al «mondo pratico del fascismo», il giovane filosofo, dice: «Parliamo ad ogni fascista che sia degno di questo nome, e che veramente vibri alla volontà di rigenerazione, di dignità romana, di potenza, proclamata dal Duce» (p. 159; qui p. 177).

    Tutto caduto nel vuoto, ma non certo solo per i modi e i metodi adottati, quanto soprattutto per il clima culturale e umano insufficienti che alla fine prevalsero. Una «sfida», una «prova», un «gioco» falliti: «Noi, ad ogni modo, abbiamo posto i termini del giuoco, e ci ritiriamo» (p. 160; qui p. 176). Evola lo ammette e cercherà di proseguire la sua difficile via intrufolandosi nella «cittadella» in altri modi: la conoscenza di Preziosi e Farinacci gli permisero di scrivere dal 1933 su testate all’epoca non certo minori come La Vita italiana e Il Regime fascista, poi anche sui quotidiani Corriere Padano di Ferrara e Roma di Napoli. Soprattutto, dopo l’esperienza de La Torre, affrontò molti temi presenti in Imperialismo pagano con un taglio più esatto e consapevole in Rivolta contro il mondo moderno: aspetti che non erano soltanto di imprecisione lessicale (Evola stesso ricorda i termini «latino» e «mediterraneo»), ma anche di approfondimento sostanziale di quella «visione del mondo» che è il retroterra delle proposte di Imperialismo e che lì erano solo accennate sommariamente o date per scontate, già superate dalla impostazione di Heidnischer Imperialismus. Tutte la Parte Prima di Rivolta dedicata al «mondo della Tradizione» è una legittimazione del punto di vista di Imperialismo, ma con maggiore serietà scientifica e compostezza dottrinale. Di conseguenza, sembra ovvio – sarebbe quasi inutile ricordarlo – che Imperialismo pagano è un’opera che viene scavalcata da Rivolta contro il mondo moderno, ed è quindi quest’ultima che deve essere presa come punto di riferimento e base del pensiero evoliano, e non certo quel primo testo giovanile.

    Era lo stesso filosofo a pensarla così, sia esplicitamente che implicitamente ripubblicando edizioni rivedute di Rivolta nel 1951 e nel 1969, che considerava la sua «opera principale», e invece non ripubblicando Imperialismo pagano che considerava superato e assorbito dall’altra. Non «ripudiò» mai il libro, come del resto non «ripudiò» mai le sue opere dadaiste e quelle sui temi razziali, ma le considerava fasi e stadi successivi del suo pensiero. In particolare, non riteneva Imperialismo più attuale e/o adatto ai nuovi tempi, e proibì che – lui vivente – altri lo ripubblicassero ignorando le sue proibizioni. È un fatto che in genere non si sa o si preferisce ignorare, ma più volte il filosofo entrò esplicitamente (come si è detto) in merito a questo problema: una prima volta fu con un articolo sul numero di giugno-luglio 1959 del mensile L’Italiano: «Nel 1927 [sic] uscì un mio libro, Imperialismo pagano, che oggi in nessun modo permetterei che si ristampasse»; una seconda volta fu cinque anni dopo in una intervista sul numero di gennaio-febbraio 1964 di Ordine Nuovo: «Io ben mi guarderei dal rimandare, oggi, a quanto scrissi nel libro giovanile Imperialismo pagano, in una congiuntura tutta particolare. Non incoraggerei nessun volgare anticattolicesimo o paganesimo dilettantesco». Infine, visto che vi erano state edizioni abusive, cioè senza chiedere alcun permesso al suo autore, di alcuni testi come Orientamenti e proprio Imperialismo pagano (l’ultima ciclostilata a Messina nel 1968), Evola si decise a far conoscere una diffida ufficiale che apparve sulle pagine della nuova serie di Ordine Nuovo, nel dicembre 1971, tre anni prima della morte.

    Il filosofo, dunque, non ripudiava il libro, non ne prendeva nemmeno le distanze, come si suol dire, soltanto che lo contestualizzava «in una congiuntura tutta particolare»: quella del fascismo degli anni Venti quando era teoricamente possibile l’operazione avviata da lui (ma anche da altri) senza alcun successo. Negli anni Sessanta e negli anni Settanta era superato e ad altre sue opere occorreva far riferimento. Ovviamente, ciò resta valido anche negli anni Duemila. Questo perché l’opera viene considerata in alcuni ambienti ancora oggi come una specie di «bibbia» insuperata e insuperabile del pensiero evoliano, appunto per il suo radicalismo intransigente. Il che è un far torto proprio al «Maestro» cui si fa riferimento, considerando come annacquata tutta la sua opera successiva al 1928.

    Eppure, qui si ripresenta Imperialismo pagano nonostante l’opinione del suo autore, e nonostante quanto appena detto. Non è una contraddizione? e quale sarebbe invece la differenza di questa operazione editoriale? La risposta è in un mio libro di alcuni anni fa (Elogio e difesa di Julius Evola, Edizioni Mediterranee, Roma, 1997) dove si poneva proprio questo problema, e cioè se i «libri proibiti» del pensatore tradizionalista (Imperialismo pagano, e i quattro testi sulla razza) dovessero rimanere in eterno tali, condannati al ghetto, anzi all’inferno culturale e limitati a edizioni «pirata» o per «militanti», e rispondevo: «Certo, presentati con un adeguato apparato critico e filologico, con tutti i crismi della scientificità storiografica, in linea teorica potrebbero essere ristampati perché in tal modo non diventerebbero strumenti né di una battaglia politica e culturale, né di una polemica aprioristicamente distruttiva, negativa, e quindi potrebbero venire consegnati ad una valutazione più oggettiva, dato che si tratta anche di opere che hanno una loro dignità – come hanno certificato Renzo De Felice e Sergio Romano, tra gli altri – e non di volgarissimi pamphlets. In teoria: perché è veramente da chiedersi se i tempi, la situazione ed i potenziali fruitori siano pronti per un’operazione del genere, per leggere certi libri, esaminare certe tesi, ponendosi super partes».

    Pur se la situazione culturale non è grandemente cambiata rispetto al 1997, pur se è in corso una evidente manovra per far rimanere Julius Evola un vero e proprio «tabù» e pur se i fondamentalisti cattolici non sono da meno di quelli islamici, ci si è accinti a ristampare Imperialismo pagano in un modo conforme a tutte le altre opere evoliane apparse in questa collana ormai dal 1993. L’intento, come per le quattordici che lo hanno preceduto, è stato quello da un lato di storicizzare il testo, cioè inserirlo nella temperie ideale in cui apparve originariamente, e quindi con particolari e precisi scopi; dall’altro di contestualizzarlo all’interno del corpus evoliano: questo perché Julius Evola è un pensatore complesso e multiforme che si è interessato di argomenti solo in apparenza conflittuali fra loro. Aggiungendo tutti gli apparati critici, di note e documenti necessari, e con la presentazione di un esperto in materia che ne provasse la validità, serietà ed originalità, indipendentemente dai rilievi critici eventualmente mossi: nel caso presente l’amplissimo saggio del professor Claudio Bonvecchio non solo affronta il libro nelle sue due versioni, ma parte da esse per riesaminare sin dalle origini il «caso Evola» nell’ambito della cultura italiana con osservazioni acute che spiegano il motivo di tanta ostilità preconcetta e perché, viceversa, si tratta di un autore importante che non si può ostracizzare per l’eternità, e che invece si deve studiare. Un saggio utilissimo per chi si avvicinasse per la prima volta a questo autore. Il contesto storico-culturale è affrontato, a parte questa Nota, dalla storia della querelle Evola-Reghini e da due importanti testi di quest’ultimo che ne illustrano le ragioni, senza conoscere i quali non si potrebbe dare un giudizio completo su una vicenda dai complicati risvolti (cioè non solo personali). Infine, c’è una guida bibliografica alle recensioni riguardanti prima gli articoli incriminati, poi il libro.

    Ci è sembrato importante abbinare alla edizione del 1928 anche l’edizione tedesca del 1933, apparsa in lingua italiana nel 1991 e qui ripresa con il consenso del traduttore: conosciuta da una ristrettissima cerchia di lettori, oggi la si può confrontare direttamente e per la prima volta con quella originale, notarne le differenze e le modifiche, capirne i motivi e le intenzioni. Un lavoro complesso e non facile, ma questo vuol dire per noi (il curatore e la casa editrice) approntare una vera «edizione critica» delle opere di Julius Evola consegnandola così sia ai semplici lettori sia agli studiosi non preconcetti.

    Ovviamente, ci si rende anche ben conto del rischio che si corre, perché nessuno meglio di noi conosce da un lato il giornalismo italiano approssimativo e orecchiante, soprattutto quando è in mala fede, che si appiglia ad una parola, un titolo, una frase, li de-contestalizza, li usa per scrivere quel che meglio in quel momento fa comodo con articoli ad effetto; dall’altro, i pasdaran religiosi ancorché laici, per i quali non son possibili critiche dato che essi si pongono sempre e solo sul piano moralistico o della «fede». Purché basata su argomentazioni serie, ogni critica deve essere esaminata senza anatemi e contumelie: e le critiche di Evola del 1928 al cristianesimo delle origini non sono soltanto sul piano spirituale ed esoterico, ma anche sul piano logico-filosofico e devono essere inserite nell’ambito della polemica politica, filosofica e ideale di quegli anni. «Non si tratta di polemiche più o meno anticlericali», spiega Evola, «ma di un esame serio, oggettivo, senza intrusioni di sentimenti e di credenze» (p. 118-119; qui p. 146), al di là, si può aggiungere, di una certa aggressività di forma. In seguito, la posizione del filosofo – pur rimanendo coerente con la sua critica di fondo – si è meglio articolata attraverso i suoi libri che hanno affrontato l’argomento sia sul piano generale che individuale: Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo (1932), Rivolta contro il mondo moderno (1934), Gli uomini e le rovine (1953), Cavalcare la tigre (1961) e le loro successive edizioni rivedute.

    Peraltro, ce n’è anche per il fascismo: «La vera ragione della possibile infiltrazione cattolica nel fascismo, è l’effettivo, se pur celato, suo indifferentismo rispetto agli interessi spirituali, onde esso non ha esitato a cedere i suoi diritti in proposito pur di ottenere elementi che potessero cementare la compagine materiale del nuovo regime, passando sopra alle più stridenti contraddizioni» (p. 119; qui p. 147), sicché «tutto ciò è potuto accadere per la mancanza, nel fascismo, di una spiritualità e di una cultura sua propria, nuova e viva, al pari delle forze guerriere che lo hanno affermato, la quale si imponesse simultaneamente al suo imporsi sul piano politico» (p. 119; qui p. 147). Tesi, così come la denuncia della «dualità» fra re e Capo del governo (p. 27; qui p. 74), che sono ormai proprie alle analisi più recenti sul movimento mussoliniano.

    Ma rileggere adesso Imperialismo pagano consente anche di capire meglio una frase scritta trentacinque anni dopo da Evola nel Cammino del Cinabro e non per tutti chiarissima: riferendosi a Cavalcare la tigre egli afferma che «con questo libro, si chiude un ciclo, nel senso che in un certo modo io sono tornato alle posizioni di partenza». Ma con queste parole non ci si deve riferire soltanto al «punto-zero proprio del dadaismo», ma anche a questo Imperialismo pagano. In che senso? Nel senso che entrambe le opere sono una rassegna di quelli che l’autore riteneva i «mali» e gli «errori» del proprio tempo (gli anni Venti e gli anni Cinquanta) con relative critiche, prese di posizione e rimedi: filosofia, scienza positiva, tecnica, religione, strutture sociali, progressismo. Ma mentre nel 1928 esse sono «le radici del male europeo», nel 1961 diventano le radici del male che assale l’umanità intera. E mentre nel 1928 il rimedio sembra essere l’abbandono del cristianesimo da parte del fascismo per abbracciare la tradizione romana, nel 1961 il rimedio è quello di una via strettamente interiore e dell’apolitia quando, spiega, «gli avvenimenti ultimi hanno fatto chiaramente apparire l’assoluta inanità di ogni iniziativa del genere, di ogni sforzo ricostruttivo, insieme al generale, irreversibile carattere di dissoluzione proprio a questa fine di un ciclo».

    In più, si può aggiungere che in Imperialismo pagano si trovano in nuce non soltanto, come si è già ricordato, le idee di Rivolta contro il mondo moderno, ma anche le idee espresse venticinque e trentacinque anni dopo ne Gli uomini e le rovine (ad esempio, la critica a Mazzini e al Risorgimento) e nelle diverse edizioni de Il fascismo 1964-1970, dove sono state sistematizzate le critiche al fascismo e al nazionalsocialismo espresse appunto dal 1928 al 1943.

    Dunque, la lettura di Imperialismo pagano nelle sue due versioni è oggi non una provocazione come potrebbero intendere certi cattolici integralisti, né l’opera del filosofo tradizionalista da privilegiarsi a fini polemici contingenti come potrebbero intendere quelli che lui stesso definì «evolomani», ma una tappa indispensabile per conoscere l’evoluzione del suo pensiero ed un momento particolare della storia interna del fascismo che – si dica quel che si vuole – è anche la storia d’Italia. Non lo è nemmeno sotto un altro aspetto, in cui casualmente s’imbatte questa nuova edizione del libro: la querelle sulle «radici» culturali e spirituali dell’Europa; tema questo sentito negli anni Venti quando si parlava di Paneuropa, e sentito all’inizio degli anni Duemila parlando di costituzione della Unione Europa. Lo si consideri, dunque, come un contributo di idee che viene dal passato, non da respingere a priori, ma su cui discutere seriamente.

    Il curatore, l’editore e l’autore del saggio introduttivo si augurano che non si voglia strumentalizzare polemicamente questo libro, né in un senso né nel senso opposto: nel XXI secolo non dovrebbero esistere né autori-tabù, né opere-tabù, ma soltanto autori e opere su cui dibattere – anche animatamente – ma da non consegnare all’ostracismo e alla damnatio memoriae, a meno di non comportarsi come quei regimi che si condannano verbalmente e per iscritto un giorno sì e l’altro pure, per poi comportarsi nello stesso modo.

    Questa edizione di Imperialismo pagano rispetto all’originale, ma anche alle altre che l’hanno preceduta, vede la correzione di molti refusi alcuni assai vistosi, l’uniformazione dei corsivi, degli accenti, delle maiuscole, in certi rari casi della punteggiatura. Secondo quanto effettuato sin dall’epoca dell’edizione critica de Lo yoga della potenza si è sostituita la desueta trascrizione Çiva con Shiva. Si sono ovviamente lasciate le tipicità lessicali evoliane e/o dello stile dell’epoca («sui», «garenzia», «dinnanzi», «rettorica», «femina», «imagini», «istesso», «giuoco», «ischeggie», «Aristotile», «iddii» ecc.). Sia in Imperialismo pagano che in Heidnischer Imperialismus – oltre quelle senza alcuna indicazione che sono di Evola – sono state aggiunte tutte le note, anche quelle forse marginali, che si sono ritenute necessarie per spiegare riferimenti assolutamente dimenticati dopo 75 anni ad avvenimenti politici e storici, personalità culturali italiane e straniere, organizzazioni varie, libri che Evola fa direttamente o indirettamente senza altra specificazione. Ci è sembrato indispensabile non solo per contestualizzare i suoi testi, ma per orientare il lettore di oggi in un clima lontanissimo dai suoi orizzonti: se non si dice chi erano Tizio o Caio o che senso ha il riferimento ad un determinato fatto, come è possibile capire il motivo di certe polemiche o le intenzioni di Evola? Almeno questo è il pensiero del curatore.

    G.d.T.

    Roma, agosto-settembre 2003

    Per la realizzazione dell’edizione critica di questo volume è stato decisivo l’aiuto di diversi amici ed esperti in vari settori: Alain de Benoist, Michele Beraldo e Claudio Mutti; Claudio Gallo della Biblioteca Civica di Verona; i professori Gian Franco Lami, Aldo Alessandro Mola e Giuseppe Parlato. La copertina, inoltre, non si sarebbe mai concretizzata senza Massimo Bonasorte e la professoressa Anna Maria Liberati, direttrice del Museo della Civiltà Romana di Roma. Li ringrazio tutti sentitamente, non solo per il tempo che mi hanno dedicato, ma anche perché diversamente non avrei potuto organizzare questo libro così come l’avevo in mente da anni e solo ora sono riuscito a realizzare.

    Evola e l’Impero interiore: una fine e un inizio

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    di Claudio Bonvecchio

    1. Attualità di Evola

    Agli inizi del secondo dopoguerra, un autore tedesco, Wolfgang Borchert, scrive: «Noi siamo la generazione senza legami e senza profondità. La nostra profondità è l’abisso. Noi siamo la generazione senza felicità, senza casa e senza commiato... Così siamo la generazione senza Dio, poiché noi siamo la generazione senza legami, senza passato, senza riconoscimento»¹. A questa generazione senza speranza, e a quelle che si sono susseguite, Evola – il «cattivo maestro» per eccellenza, almeno secondo molta sbrigativa e superficiale saggistica² – ha voluto e saputo parlare. Malgrado il linciaggio morale cui è stato sottoposto³, ha voluto e saputo rivolgersi a tutti coloro che hanno vissuto – personalmente e coralmente – l’esperienza dell’Untergang des Abendlandes, cercando di opporre al nulla, al vuoto e alla disperazione (che è il triste correlato della decadenza), un significato, un’anima e una pienezza.

    A fronte di una società sempre più secolarizzata e consumista – che prolunga nell’oggi quel senso di svuotamento che già a far tempo dai primi anni del Novecento ha colpito gli uomini e gli intellettuali più acuti⁴– Evola offre soltanto una diagnosi fredda, acuta, penetrante e pertinente. Offre pure una terapia non meno acuta e penetrante: del tutto simile a quel richiamo titanico e a quello sguardo stereoscopico cui Ernst Jünger affida la costruzione di una nuova ontologia: di un nuovo modello di uomo⁵. Evola nella sua azione – ad un tempo euristica, ermeneutica e propositiva – intende superare l’astrattezza intellettualistica e la visione scientifico-assiomatica cui imputa buona parte delle cause della decadenza che caratterizza la modernità. La risposta alla decadenza che è – parafrasando il titolo di un suo celebre saggio – una «rivolta contro il mondo moderno»⁶, sta tutta nell’uomo e nella possibilità, in suo possesso, di scoprire quella dimensione divina – il farsi dèi, a cui sovente fa riferimento Evola⁷ – che coincide con una sorta di gnostica scintilla interiore⁸. Grazie ad essa e all’adesione alla dottrina tradizionale, l’uomo può riscoprire quel senso di armonia e di cosmica simpatia che lo costituisce come totale: che riunisce in lui l’habitus del guerriero e del sacerdote. Habitus che lo fa simile a quel «Re del Mondo» o Cakravartin – uomo compiuto, totale e realizzato – di cui scrive René Guénon⁹. Il rifiuto evoliano di una storia di povertà e di decadenza coincide, insomma, con la ribellione dell’uomo e con la sua re-intregrazione in ciò che, da sempre, egli deve essere, secondo l’antico dettame delfico di «diventare ciò che si è». In tale direzione, quella di Evola è una sfida in nome di tutto ciò che viene occultato, dimenticato e rimosso: in questo senso il suo pensiero è drammaticamente attuale, almeno per coloro che intendono sottrarsi alla pavida e rinunciataria accettazione della realtà così come si presenta.

    2. L’Impero e la globalizzazione

    La realtà attuale – la realtà in cui, non da oggi, viviamo – è una realtà sempre più «globalizzata», per utilizzare questa oramai abusata ed imprecisa espressione semantica. È una realtà, cioè, dove progressivamente si vanno azzerando tutte le differenti specificità culturali, etniche, religiose, architettoniche, linguistiche, musicali, paesaggistiche, gastronomiche, costumali: in una parola, umane. È una realtà che, a grandi passi, sta procedendo ad una sempre maggior standardizzazione rispetto a quanto, in passato, era il carattere precipuo e distintivo di un popolo, di una cultura, di un paese, di un etnos. Il che potrebbe, forse, mostrare dei lati positivi, se siffatto processo globalizzante non venisse agito – dietro le mentite spoglie di un superamento della limitatezza particolaristica – a tutto vantaggio della tecnologia, del consumismo e dell’economia. Fattori questi che – ben lungi dall’essere i motori di una universale crescita umana, intellettuale e morale – agiscono come gli elementi di un nuovo ed oscuro dominio. Un dominio mimetico e multiforme che impone le sue leggi, costruisce i suoi apparati di potere, alleva i suoi gruppi dirigenti che diventano, in seguito, quelli dell’intera società. Qualificandosi come agenti principali del progresso e della democrazia, scienziati, politici, banchieri, intellettuali ed imprenditori tendono a costruire (senza essere sempre coscienti di quel che fanno) una realtà allucinata ed allucinante, in cui gli uomini e i popoli non valgono per ciò che sono, ma per ciò che consumano e consumano per illudersi di essere ciò che non sono. È – come la definisce Evola – «la perversione più completa di ogni ordine razionale delle cose»¹⁰.

    In un delirio, più volte denunciato dai film e dalla letteratura¹¹, gli schiavi inconsapevoli della globalizzazione – ossia l’umanità – producono e consumano in una spirale senza sosta: una spirale in cui viene negato tutto quanto si sottrae a questo appiattente destino. È il «Regno della materia, dell’oro, delle macchine, del numero, in essa non vi è più respiro, né libertà, né luce»¹². Parimenti il sapere scientifico – la «cupa religione» del tecnicismo, come lo definisce, acutamente e profeticamente, Carl Schmitt¹³ – da semplice strumento si è mutato in fondamento ideologico: in una pseudo-metafisica, sotto la cui tutela si deve collocare ogni sapere e ogni comportamento, senza possibilità di scampo. Chi tenta una qualsivoglia opposizione, o indaga su una qualsivoglia via di fuga, viene immediatamente escluso dallo stuolo dei coribanti del progresso e della ragione ed inscritto in quello – considerato pericolosamente regressivo – dei conservatori, bollati come nemici dell’umanità, della cultura e, di conseguenza, della democrazia. A questa sedicente religione filosofica della scienza, fa da «basso continuo» l’economia che estende il suo potere straordinario su tutto il pianeta, asservendo alla logica del numero, del mercato e del denaro – mimetizzati in mille varianti – ogni risorsa umana: vuoi materiale vuoi spirituale. È una signoria spietata che – protetta dall’anonimato informatico-finanziario – non si perita di sradicare culture, convinzioni, tradizioni, competenze e specificità, in nome e per conto di un profitto, tanto onnipresente quanto invisibile. Ma, soprattutto, sradica l’uomo dal suo habitat che è la natura vivente – quella che lo rende in piena sintonia con il cosmo, cioè partecipe di un mondo che è il suo mondo – gettandolo nel gorgo superficiale del «si dice» (il man sagt heideggeriano)¹⁴, dove ogni cosa è pianificata e matematicizzata. L’uomo – scrive Evola, sul finire degli anni Venti con acuta e critica sensibilità sociale¹⁵, in Imperialismo pagano – «non conosce più la natura. Questa non è più, per l’Occidentale, un corpo vivente fatto di simboli, di Dèi e di gesti rituali – una armonia, un cosmos in cui l’uomo si muove libero come un regno in un regno: essa è invece decaduta in una esteriorità opaca e fatale, di cui le scienze profane cercano di ignorare il mistero con piccole leggi e piccole ipotesi»¹⁶.

    Tutto ciò ha accreditato e accredita la convinzione che la modernità abbia lentamente preparato ed instaurato un vero e proprio «ordine» globale¹⁷ che – con i più differenti strumenti coercitivi e persuasivi (dal linguaggio, all’istruzione, alle leggi, alla propaganda, all’esercizio della violenza) e con appropriate strutture gerarchiche – si impone all’intero pianeta. Tale ordine – in maniera riduttiva e ideologica – è stato considerato come una riedizione modernizzata dell’antica visione imperiale: è stato sbrigativamente giudicato, stravolgendone completamente il significato semantico, come un «Impero»¹⁸.

    3. L’Imperialità

    Le parole «Impero», «Imperialità» e derivati vengono, oggi, pronunciate o scritte in una accezione indubbiamente negativa. Evocano, per i molti, un dejà vu linguisticamente erudito o antiquario, a meno di non servirsene per connotare – sempre negativamente – l’espressione politica di una potenza demoniaca o malvagia. Una potenza che propugna l’arbitrio e la crudeltà più efferata. Film come la saga di Guerre Stellari o Dune sono chiarificatori in proposito, come lo è la saggistica, concordi nell’associare ai termini Impero, Imperialità e Imperatore ogni possibile effetto nefasto e diffamatorio. L’Impero è sempre un «Impero del male». La verità è ben diversa come molti rilevano¹⁹ e come – in tempi non sospetti – Evola ha, positivamente, evidenziato²⁰, sottolineando come l’Imperialità (l’idea imperiale) rappresenti, ad un tempo, il centro e il compimento del cammino umano. In tale idea, egli vede l’affermazione di un uomo superiore (non già di un superuomo) in cui centrali e trascendenti sono i valori spirituali, sia religiosi che civili. Sono valori tutti improntati ad una icona di totalità in cui – secondo l’insegnamento tradizionale ²¹ – l’uomo ed il cosmo sono stretti in un legame di reciproca «simpatia», nel nome dell’unità primordiale: quel fuoco inconsuntile di cui una divina scintilla brilla nell’animo dell’uomo degno di questo nome. Come scrive Evola: «La forza della Tradizione passa dal visibile all’invisibile, diventa un’eredità che si tramanda in una segreta catena da pochi a pochi»²².

    Ne consegue – e questo è un punto centrale della concezione evoliana dell’Imperium – la sacralità stessa del principio gerarchico, il cui perno è la figura simbolica e tradizionale dell’Imperatore, il cui compito fondamentale – sull’esempio dell’«agire-senza-agire»²³ del Wang (l’imperatore cinese), del Cakravartin indiano o del Sacro Romano Imperatore, solo per citarne alcuni – non coincide con un dominio personale attuato con la violenza, la sopraffazione o la tirannia, ma è la personificazione dell’equilibrio del mondo e dell’uomo in esso. È evidente che l’idea evoliana di Impero si pone in netta controtendenza con la visione appiattente ed erronea dell’egualitarismo, nemico di ogni gerarchia e, perciò, di ogni senso di responsabilità così come di ogni libertà. «Ripetiamolo di nuovo» – sono parole di Evola – «libertà vera vi è solamente nella gerarchia, nella differenza, nella irriducibilità delle qualità individuali; vi è soltanto là dove il problema sociale è risolto in modo da favorire in un piccolo gruppo il più completo sviluppo delle possibilità umane, sia pure a prezzo della più grande ineguaglianza fra gli altri»²⁴. L’Imperialità e l’Imperatore – il vertice assoluto di una assoluta gerarchia supra partes – affermano, garantiscono e perseguono, proprio nello sviluppo delle sue possibilità, la centralità dell’uomo, risvegliando in lui l’idea primordiale formatrice e vittoriosa sul caos e sull’animalità²⁵.

    Tale centralità, essenzialmente trascendente, è ciò che fa della politica imperiale una «Sacra Pedagogia» a fronte dell’agire politico della moderna statualità liberal-democratica, che non è che il brutale e violento «prendere partito» in difesa di un gruppo di pressione per scopi eminentemente pragmatici. Scopi che sono sempre – anche se artatamente presentati come universali e necessari – d’interesse e di potere. Il compito dell’Impero e dell’Imperatore è perciò quello di preparare e reggere individui che devono diventare Re di se stessi. «Un vero Re non desidera mai dei fantocci e degli automi per suoi sudditi, ma invece degli individui, dei guerrieri, degli esseri viventi e possenti; ed anzi suo orgoglio sarebbe di sentirsi Re di re»²⁶. In questa direzione Evola è perfettamente coerente – sul piano della riflessione teorica – con quanto propugnano, nell’ambito politico-costituzionale, i critici della democrazia rappresentativa liberal-borghese²⁷. Non soltanto, ma rilancia coraggiosamente, con la concezione imperiale, l’idea di un regime politico che si ponga – sempre a differenza del modello democratico-parlamentare, astratto e burocratico – come organico, sostanziale, decisionale (in senso schmittiano) e non formale: un regime, insomma, che sia legittimamente e non solo legalmente fondato ²⁸. Ciò si staglia con palese evidenza quando rileva come nel capo (e tanto più nell’Imperatore) si deve riunificare – in perfetta sintonia con l’idea stesso dell’Impero – la figura del sovrano e del sacerdote, che del mondo originario sono il sigillo e la cui divisione è coincisa – per Evola come per Guénon – con l’inizio della decadenza²⁹. Il ritorno alla Tradizione è, dunque, tutt’uno con il ritorno alla legittimità, in quanto – ed Evola coglie nel segno – la legittimità è esclusivamente tradizionale ed entrambe hanno come scopo la reintegrazione dell’uomo come totalità (l’Individuo assoluto). Tale reintegrazione non può, infatti, prescindere da questa riunificazione del pensiero come spiritualità

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