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I Versi d'Oro: La summa della sapienza pitagorea
I Versi d'Oro: La summa della sapienza pitagorea
I Versi d'Oro: La summa della sapienza pitagorea
E-book285 pagine10 ore

I Versi d'Oro: La summa della sapienza pitagorea

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Info su questo ebook

Pitagora non lasciò alcuno scritto. Il breve testo in esametri greci, noto col titolo latino di Aureum carmen, è stato volta a volta attribuito a Pitagora stesso, a Empedocle, a Filolao, a Liside. In realtà, si tratta di una silloge di età tarda, per la quale è possibile postulare una fonte risalente al IV secolo a. C. I precetti forniti dai Versi riguardano l’osservanza degli obblighi religiosi e dei doveri naturali, la vigilanza sulle passioni, la moderazione, la sopportazione dei dolori, la distanza dagli eccessi, l’equilibrata cura del corpo. Nel 1959 Julius Evola pubblicò una nuova versione di questo testo per cercar di dare al lettore una idea complessiva del pitagorismo e dello spirito di esso”.
LinguaItaliano
Data di uscita11 dic 2013
ISBN9788827223185
I Versi d'Oro: La summa della sapienza pitagorea
Autore

Julius Evola

Il barone Julius Evola (pseudonimo di Giulio Cesare Andrea Evola) (Roma, 19 maggio 1898 – Roma, 11 giugno 1974) è stato un filosofo, pittore e poeta italiano. Fu personalità poliedrica nel panorama culturale italiano del Novecento, in ragione dei suoi molteplici interessi: arte, filosofia, storia, politica, esoterismo, religione, costume, studi sulla razza.

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    I Versi d'Oro - Julius Evola

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    I VERSI D’ORO

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    La summa della sapienza pitagorea

    Introduzione e commento di Julius Evola

    con la Vita di Pitagora di Porfirio e il Commentario di Ierocle

    Presentazione e traduzioni di Claudio Mutti

    Seconda edizione corretta e ampliata

    Orizzonti dello spirito / 90

    Collana fondata da Julius Evola

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    Copyright

    I VERSI D’ORO - La summa della sapienza pitagorea

    Introduzione e commento di Julius Evola

    con la Vita di Pitagora di Porfirio e il Commentario di Ierocle

    Presentazione e traduzioni di Claudio Mutti

    Seconda edizione corretta e ampliata

    In copertina:

    Pitagora, particolare de La scuola di Atene, di Raffaello (1510),

    affresco dei Palazzi Vaticani

    ISBN 978-88-272-2318-5

    © Copyright 2013 by Edizioni Mediterranee

    Prima edizioni digitale 2013

    Via Flaminia, 109 - 00196 Roma

    www.edizionimediterranee.net

    Versione digitale realizzata da Volume Edizioni srl - Roma

    Presentazione

    1.  Evola e Pitagora

    Agli occhi dell’ungherese Béla Hamvas (1897-1968) Julius Evola appartiene in qualche modo alla stessa famiglia spirituale dei filosofi presocratici, in quanto «il suo pensiero è come quello di Eraclito o di Empedocle: arcaico»¹. In Scientia sacra, un’opera di Hamvas che è stata accostata a Rivolta contro il mondo moderno di Evola, libro al quale lo stesso Hamvas si richiama d’altronde in maniera esplicita, Eraclito e Pitagora, al pari di Lao-tze, Confucio, Buddha e Zarathustra, sono i giudici dell’umanità decaduta: ogni loro parola possiede il «taglio apocalittico» ² del giudizio cui si trova sottoposta la vita dopo che si è staccata dall’essere. Nel mondo greco, in particolare, Pitagora e gli altri teologi antichi rappresentano quel tipo di uomo «che è ancora possibile scorgere sulla soglia della storia, senza che la percezione del suo essere sia raggiungibile da parte dell’uomo storico»³; sono, insomma, epifanie di un archetipo che Hamvas chiama «l’uomo disceso dall’alto»⁴. Hamvas incluse una sua traduzione dei Chrusâ épe (Aurei versi) pitagorici in Anthologia humana ⁵, un florilegio della «saggezza di cinquemila anni» da lui compilato nell’immediato dopoguerra; una parafrasi parziale degli stessi Aurei versi si trova in un saggio su Pitagora ⁶ che egli scrisse negli anni Cinquanta.

    Alla fine di quel medesimo decennio Evola pubblicò il volume intitolato I Versi d’Oro pitagorei, che recava il seguente sottotitolo: Nuova presentazione con un saggio introduttivo sul Pitagorismo, a cura di J. Evola⁷. La casa editrice Atanòr, che nel dicembre del 1959 lo inserì nella sua «Collana di studi iniziatici», da una parte aveva già pubblicato quattro libri di Evola (Metafisica del sesso nell’anno precedente, Imperialismo pagano nel 1928, L’Uomo come potenza nel 1926 e i Saggi sull’idealismo magico nel 1925), mentre dall’altra aveva manifestato la propria inclinazione verso le tematiche pitagoriche fin dal 1916, quando aveva arricchito il proprio catalogo con un titolo del fecondo «filosofo umbro» Enrico Caporali⁸: Il pitagorismo confrontato con le altre scuole. Opera insigne del filosofo Enrico Caporali nella quale facendo risolvere il pitagorismo alla luce dello scibile moderno si mira alla restaurazione della nazionale cultura.

    Stando a quel che scrive Evola stesso nel Cammino del cinabro, il suo nuovo «lavoretto» venne eseguito «per desiderio e incarico dell’editore»⁹, più che per l’entusiasmo suscitato in lui da tale argomento. «Pel pitagorismo – dichiara esplicitamente Evola – non ho troppa simpatia. Nei riguardi di esso, di massima, condivido il punto di vista del Bachofen, il quale lo ha considerato come essenzialmente improntato dallo spirito della pre-indoeuropea e pelasgica ‘civiltà della Madre’, associandolo anche a ciò che nell’Italia preromana in genere rappresentò spesso lo stesso elemento etrusco»¹⁰.

    In realtà, l’opinione nutrita da Evola circa Pitagora e il pitagorismo non fu sempre la stessa. In Imperialismo pagano Pitagora, che peraltro è identificato come panteista¹¹ ed è accostato a Bruno e a Campanella¹², viene annoverato tra gli «uomini al disopra dell’umano» assieme a Socrate, Parmenide, Plotino, Seneca, Apollonio di Tiana¹³ e addirittura equiparato a figure divine quali Mithra e Shiva¹⁴, mentre della «concezione monarchica pitagorico-romana, divenuta la tradizione imperialista italica», si dice che collega tra loro «Numa, Pitagora, Cesare, Virgilio, Augusto, Dante e gli altri grandi italiani venuti più tardi»¹⁵.

    È nota l’influenza che sull’Evola di Imperialismo pagano fu esercitata da Arturo Reghini (1878-1946), il quale, come dirà criticamente Evola nel Cammino del cinabro, «aveva cara l’idea di una tradizione occidentale (e perfino ‘italica’, per certi problematici riferimenti al pitagorismo) dell’esoterismo»¹⁶. Al pitagorismo Arturo Reghini (alias Pietro Negri) continua a richiamarsi anche sulle pagine di Ur – Krur dirette da Evola, dove – in un articolo intitolato per l’appunto Sulla tradizione occidentale – afferma che «la Scuola Italica di Pitagora ha una importanza sicura e storica di prim’ordine»¹⁷, come è d’altronde dimostrato dalla «fortuna di Pitagora e del pitagorismo presso i Romani»¹⁸, sicché detta Scuola, contrariamente a quanto pretendono alcuni, non può aver tratto origine dal druidismo di Alesia, città di cui non è storicamente accertato il rango di centro iniziatico. Sulla medesima rivista, in un articolo dedicato ai «Fedeli d’Amore», Reghini-Negri fa notare come alla «classificazione orfico-pitagorica dei cieli»¹⁹ si riferiscano tanto San Paolo quanto i «gradi templari» della Massoneria. Evola, da parte sua, trattando di pratiche ascetiche cristiane, richiama «la parte che la disciplina del silenzio aveva fra i Pitagorici»²⁰.

    Un risalto particolare è attribuito alla figura di Pitagora da un celebre testo ermetico che Evola pubblica sulla rivista del Gruppo di Ur: la Turba Philosophorum, resoconto di un’assemblea dei saggi dell’antichità in cui il Maestro Pitagora appare come «il piede dei Profeti e la testa dei Sapienti e (...) ha avuto da Dio tanti doni in sapienza, che nessuno, dopo Ermete, ne ha avuti quanto lui»²¹. Ma, per quanto attiene al pitagorismo, il testo più significativo che troviamo nelle pagine di Ur – Krur è la monografia sugli Aurei detti del 1928, della quale parleremo più avanti.

    Nel 1934, sei anni dopo Imperialismo pagano e la monografia del Gruppo di Ur sugli Aurei detti, Evola pubblica Rivolta contro il mondo moderno. Recensendo questo libro, René Guénon osserva che l’Autore «disprezza il Pitagorismo in modo molto poco giustificato»²²; qui infatti la figura di Pitagora appare in una luce diversa, e ciò per effetto dell’influenza esercitata sull’Autore dai lavori di Johann Jakob Bachofen (1815-1887), in particolare dai §§ 149-150 del Mutterrecht. Evola vede infatti nel pitagorismo, nonostante i manifesti indizi della sua derivazione iperborea, una reviviscenza del sostrato mediterraneo («pelasgico») in cui si epifanizza la «civiltà della Madre» coi suoi tipici tratti demetrico-lunari. Come in Imperialismo pagano, anche in Rivolta viene indicato un presunto aspetto «panteistico» della dottrina pitagorica, ma adesso il giudizio sul panteismo è diventato meno positivo. «Il pitagorismo – scrive Evola – in Grecia significò, sotto vari aspetti, un ritorno dello spirito pelasgico. Malgrado i suoi simboli astrali e solari (e perfino una traccia iperborea) la dottrina pitagorica è essenzialmente improntata dal tema demetrico e panteistico. In fondo, lo spirito lunare della scienza sacerdotale caldea o maya si riflette nella sua visione del mondo come numero e armonia; l’oscuro motivo pessimistico e fatalistico del tellurismo si conserva nel concetto pitagorico della nascita in terra come punizione e pena e nello stesso insegnamento relativo alla rincarnazione»²³.

    Nonostante fosse un attento lettore di Guénon (al quale tra l’altro spediva man mano nel 1933 le bozze fresche di stampa di Rivolta contro il mondo moderno), Evola non tenne evidentemente conto delle argomentazioni con cui nell’Erreur spirite, apparso nel 1923, era stata contestata la sinonimia dei termini «reincarnazione» e «metempsicosi»²⁴: ancora nell’ultima edizione di Rivolta da lui curata (la terza edizione riveduta del 1969) si continua infatti ad attribuire ad orfici e pitagorici la dottrina della reincarnazione. La quale, dando risalto al «principio telluricamente soggetto alla rinascita»²⁵, rivelerebbe ulteriormente la matrice demetrica del pitagorismo, matrice confermata d’altronde dal ruolo eminente che nella comunità pitagorica era riservato all’elemento femminile.

    A ciò si aggiunga l’asserita relazione di Pitagora col mondo etrusco e si capirà bene, conclude Evola, che misure quali la distruzione dei libri del pitagorico Numa (presentato in una luce positiva in Imperialimo pagano) e il bando dato ai filosofi pitagorici, lungi dall’esaurirsi in provvedimenti contingenti e politici, miravano invece a difendere Roma dall’invadenza dell’«antitetico, antiromano elemento pelasgico-etrusco»²⁶.

    Questo giudizio negativo viene nettamente ribadito anche in seguito, nel 1940, quando Evola, polemizzando con chi vorrebbe identificare la Stella d’Italia col Pentalfa pitagorico, obietta che «difficilmente si potrebbe vedere nel Pitagorismo, tardo epigono della civiltà pelasgica preariana e antiariana già secondo l’opinione degli Antichi, qualcosa di conciliabile con la nostra più alta tradizione»²⁷. Concetti analoghi si ritrovano in un articolo di quello stesso anno su Gli Ebrei e la matematica²⁸, che suscita la vivace reazione dello studioso Vincenzo Capparelli (1878-1958)²⁹, un italo-albanese particolarmente sensibile al mito dell’origine pelasgica della sua gente.

    Evola torna ad occuparsi di Pitagora allorché pubblica sul Roma del 25 novembre 1958 uno scritto divulgativo intitolato La misteriosa leggenda della morte di Pitagora³⁰. «È difficile, anzi impossibile, – vi si legge – separare, nelle testimonianze rimasteci circa la dottrina, quel che è di Pitagora e quel che è di suoi, più o meno autentici e qualificati discepoli. In realtà, ciò che andò sotto il nome di pitagorismo è una corrente che risente di influenze varie. In essa, molti lavorarono di fantasia, amplificarono o attribuirono al maestro idee proprie, ovvero di altre scuole»³¹.

    Questa sintetica diagnosi si trova sviluppata nel Cammino del cinabro, laddove, inquadrando l’edizione dei Versi d’Oro pitagorei del 1959 nel più ampio contesto della propria opera, Evola indica «una certa complessità e un certo ibridismo» come tipici delle dottrine pitagoriche. «L’ibridismo a cui ho accennato – scrive – riguarda, fra l’altro, la presenza effettiva, nel pitagorismo e nel mito di Pitagora, anche di motivi che rimandano alla linea apollinea e perfino iperborea, che quindi in sé stessi si staccano da quelli dei ‘Misteri della Donna’ di cui il pitagorismo risente in modo caratteristico in altri suoi aspetti»³².

    È evidente, alle origini di uno schema del genere, l’influenza di Bachofen, un autore di cui Evola aveva accostato l’opera già alla fine degli anni Venti³³, per poi pubblicare nel 1949, in un volume intitolato Le Madri e la virilità olimpica³⁴, una serie di estratti provenienti dal Mutterrecht e dalla Sage von Tanaquil. E al § 35 della Tanaquil corrisponde il capitolo delle Madri dedicato a Pitagora, dove Evola, introducendo il brano bachofeniano, dichiara di condividere la tesi generale dello studioso svizzero, secondo cui il pitagorismo apparterrebbe al ciclo preellenico della civiltà della Madre e ne rappresenterebbe il riemergere in seno al mondo greco. Tuttavia, scrive Evola, «fra le correnti mediterranee estranee alla pura spiritualità virile olimpica il pitagorismo è certamente quello che presenta i tratti della maggiore nobiltà: è una tipica espressione della spiritualità ‘lunare’ nel suo aspetto matematico-contemplativo, espressione molto affine a quella che la stessa spiritualità ebbe come sapienza sacerdotale dell’antica Caldea»³⁵. D’altronde il pitagorismo, nonostante il contrasto che lo oppone agli aspetti propriamente «uranici» del mondo antico, può essere considerato «più la promanazione velata e crepuscolare di una antichissima tradizione ariana (atlantico-occidentale) irradiatasi nel Mediterraneo, che non la ‘sublimazione’ del tellurismo inferiore di popolazioni aborigene»³⁶.

    A questo punto Evola introduce un cenno polemico nei confronti di «certi ambienti [in cui] si è talvolta divagato circa una presunta ‘sapienza italica’ la quale avrebbe intimi rapporti col pitagorismo»³⁷. L’allusione riguarda in primo luogo realtà con le quali Evola aveva avuto un contatto diretto, ossia i circoli facenti capo a personalità quali Arturo Reghini e Aniceto Del Massa (1898-1976). Reghini infatti aveva rivendicato l’eredità di «una scuola ed un Ordine che Aristotile chiamava scuola italica»³⁸, mentre Del Massa, autore di un saggio sul pitagorismo³⁹, «era stato anch’egli (...) attirato dal ‘credo’ reghiniano circa l’esistenza di una vetusta e ininterrotta ‘sapienza italica’, riconducibile, in ultima analisi, alla Scuola di Pitagora»⁴⁰. Ma una continuità della tradizione pitagorica era stata affermata anche da René Guénon, sebbene questi si fosse prudentemente limitato a collocarne il punto d’arrivo alla fine dell’età medioevale: «Da Pitagora a Virgilio e da Virgilio a Dante, – si legge infatti in un libro di Guénon tradotto dallo stesso Reghini – la ‘catena della tradizione’ non fu senza dubbio rotta sulla terra d’Italia»⁴¹.

    2. La prisca philosophia

    Arturo Reghini non fu certamente né il primo né l’unico ad occuparsi di quella che un suo epigono definì come una «filosofia italica, rintracciabile nelle origini della lingua latina e preesistente su suolo italico all’apparire dello stesso Pitagorismo»⁴².

    Infatti, dopo che Aristotele ebbe qualificato come «italici» i «cosiddetti pitagorici»⁴³, il motivo dell’italicità del pitagorismo divenne consueto a Roma, dove l’attività di Publio Nigidio Figulo attesta «una vasta tradizione di tipo genericamente pitagorico esistente (...) da tempi antichi»⁴⁴ e dove Cicerone definì Pitagora e i suoi seguaci «quasi nostri conterranei, tanto che un tempo avevano ricevuto il nome di filosofi italici»⁴⁵; tra i Greci d’età ellenistica, Diogene Laerzio aveva chiamato «italica» la filosofia di Pitagora, «perché il magistero filosofico di Pitagora si svolse per la maggior parte in Italia»⁴⁶.

    Il recupero delle fonti latine e la diffusione delle Vite di Diogene Laerzio fornirono agli umanisti il materiale necessario per riprendere l’argomento: Francesco Petrarca, Nicolò Cusano, Teodoro Gaza, Francesco Filelfo, Marsilio Ficino, Giovanni Pico della Mirandola svilupparono il tema della scuola italica di Pitagora quale anello della prisca philosophia, finché, con Johannes Reuchlin (1455-1522), «toccò paradossalmente a un umanista mitteleuropeo il compito di dare al mito un rilievo nuovo e di diffonderlo al di là delle Alpi»⁴⁷, restaurando «la filosofia italica, trasmessa un tempo da Pitagora, che ne creò il nome»⁴⁸.

    Al di là delle Alpi, il testimone fu raccolto da Cornelio Agrippa di Nettesheim (1486-1535), autore di un testo di magia, De occulta philosophia, che, assegnando un ruolo fondamentale alla numerologia, si richiamava all’autorità di Pitagora, il quale «dice che tutto è composto dal numero e ch’esso distribuisce le virtù a tutte le cose»⁴⁹. Un’edizione italiana di questo testo ha visto la luce, nel 1972, per iniziativa di Julius Evola, che nella sua Presentazione dà risalto all’«ampio studio introduttivo curato da un competente, quale Arturo Reghini»⁵⁰. Dieci anni dopo la morte di Agrippa, i pitagorici venivano citati più volte nel De revolutionibus orbium caelestium di Copernico (1473-1543), tanto che quest’ultimo fu accusato di riesumare «la logora opinione pitagorica, già da tempo meritamente estinta (...) contraria alla ragione umana ed ostile alle sacre scritture»⁵¹.

    Per restare in Italia, «è appena il caso di far rilevare l’enorme funzione, anzi il mito centrale della saggezza pitagorica nella filosofia di Bruno»⁵², dove Pitagora e i suoi seguaci vengono continuamente contrapposti all’aristotelismo, e nell’opera di Tommaso Campanella (1568-1639), autore non solo di un poema De philosophia pythagoreorum, ma anche e soprattutto di quella Città del Sole in cui «l’eco delle Vite pitagoriche è evidente (...): la comunità delle donne e dei beni, certi tabù alimentari, le candide vesti, l’attenta scansione delle pratiche giornaliere»⁵³.

    Trattare in maniera organica i temi della filosofia pitagorica e ricostruire per via filologica la sapienza degli antichi abitatori dell’Italia fu l’obiettivo che si prefisse Giambattista Vico (1668-1744), allorché nel 1710 pubblicò il volumetto De antiquissima italorum sapientia ex linguae latinae originibus eruenda. Il motivo dell’antichissima saggezza italica viene poi ripreso nella Scienza nuova prima, dove «si dimostra che ’l sapere d’Italia è assai più antico del sapere di essa Grecia, perché mentre qui Pittagora insegna le più riposte verità metafisiche, matematiche e fisiche intorno al sistema mondano (ci piace ora co’ volgari cronologi porlo a’ tempi di Numa) in essa Grecia ancora avevano a provenire i sette sapienti, che incominciarono da cento anni dopo»⁵⁴.

    In seguito «il mito pitagorico ebbe (...) una vita umbratile, confinata per lo più negli atti delle accademie, nelle controversie degli antiquari e nelle sottili disquisizioni degli storici della filosofia. Nell’Italia di antico regime le illazioni sull’origine tirrenica del caposcuola, le sue res gestae in Magna Grecia, l’attività civilizzatrice dei legislatori suoi seguaci, le iniziazioni alla sapienza nascosta della ‘setta italica’ si riferivano a un’immagine letteraria e prepolitica della nazione»⁵⁵. Nel Platone in Italia di Vincenzo Cuoco (1770-1823) sul tema dell’antiquissima sapientia s’innesta quello patriottico: riconoscendo la superiorità degli ordinamenti politici pitagorici vigenti nella Magna Grecia, Platone esalta il genio dell’Italia ed il suo primato. Nel Primato morale e civile degli italiani di Vincenzo Gioberti (1801-1852), la rivendicazione della saggezza italica diventa rivendicazione della primogenitura dell’Italia, poiché è l’Italia «pelasgica» la culla di quei dogmi pitagorici da cui nacque la sapienza di Socrate, di Platone, dello stoicismo e, infine, del cattolicesimo.

    «Nella resurrezione del Pitagorismo italico, ed alla sua missione di rinascimento filosofico, scientifico ed artistico»⁵⁶ ripone poi le proprie speranze il mago Giuliano Kremmerz alias Ciro Formisano da Portici (1861-1930), secondo il quale «tutta la filosofia ermetica, magica e cabalistica si riduce alla numerica di Pitagora»⁵⁷. È però un altro mago – «l’unico mago rispettabile ch’io abbia mai incontrato»⁵⁸ disse di lui Giovanni Papini – a rinverdire nel Novecento italiano le glorie del pitagorismo, inserendo nella «tradizione italica di origine ‘pitagorica’ non solo Dante ma anche Machiavelli, Giordano Bruno, Cagliostro, Napoleone (rivendicato come italiano), il ‘veggente’ Giuseppe Mazzini e Giuseppe Garibaldi»⁵⁹.

    Si tratta di Arturo Reghini, il quale nel 1910 «riceve l’iniziazione pitagorica»⁶⁰ dallo jerofante Amedeo Rocco Armentano (1886-1966), assieme al quale fonda a Roma nel 1923 una Associazione Pitagorica, «manifestazione esteriore – assicura lo stesso Reghini – [della] scuola italica»⁶¹; a suo dire infatti «esiste ancor oggi, come è esistita in passato, traendo le sue radici da quelle profondità interiori che il ferro ed il fuoco non tangono, la stessa catena iniziatica pagana e pitagorica, inutilmente e secolarmente perseguitata»⁶². Ricostituita a Crotone in data «22 dicembre 1983 dell’era volgare, solstizio jemale, anno 2736 della fondazione di Roma»⁶³, l’Associazione Pitagorica cesserà di esistere nel 1988.

    3. Evola e gli Aurea carmina

    «Come è noto, – scrive Evola nel Cammino del cinabro – i Versi d’Oro sono una compilazione abbastanza tarda (del II o perfino del III o IV secolo d.C.) che, malgrado la fama di cui godettero in certi ambienti antichi, si riducono ad alcuni precetti morali di un livello assai poco trascendente e con uno scarso contenuto sapienziale. Nel libretto da me curato ho riprodotto il testo dei Versi, tenendo anche conto delle migliori traduzioni che di essi sono state fatte (una era stata già presentata in Introduzione alla Magia), e in un commento e in uno studio introduttivo ho utilizzato le principali testimonianze esistenti sul pitagorismo nonché il commento di Ierocle ai Versi per cercar di dare al lettore una idea complessiva del pitagorismo e dello spirito di esso»⁶⁴.

    L’esitazione di Evola nello stabilire la datazione degli Aurea carmina riflette le incertezze dei filologi, che ondeggiano tra il II secolo d.C.⁶⁵ e il IV secolo d.C.⁶⁶. In ogni caso, pare accertato il fatto che gli Aurea carmina costituiscano «una silloge di precetti morali d’età tarda, in cui sono riconoscibili le mutuazioni da opere di filosofi e poeti antichi»⁶⁷. Sulla base di analogie concettuali e formali, alcuni hanno creduto di poterne indicare la fonte in un manuale precettistico noto nel IV secolo a.C., mentre l’autore sarebbe individuabile in «un frettoloso raccoglitore di massime morali desunte dalla tradizionale dottrina etica dei Pitagorici»⁶⁸.

    Il testo greco degli Aurea carmina consiste di 71 esametri, che nella versione evoliana sono stati raggruppati in modo da costituire 34 paragrafi. Ad esempio, il v. 1 e il primo emistichio del v. 2 sono stati resi con il primo paragrafo: «Venera anzitutto gli Dèi immortali secondo la legge, e serba il giuramento»; il secondo emistichio del v. 2 ed il v. 3 vengono resi col secondo paragrafo: «Onora poi i radiosi Eroi divinificati e ai daimoni sotterranei offri, secondo il rito». Nel commento di Evola, i due paragrafi si trovano uniti in un unico precetto complessivo. Così il v. 4 del testo corrisponde al paragrafo 3 della versione e i vv. 5-8 corrispondono al paragrafo 4; nel commento, i paragrafi 3 e 4 vengono considerati insieme. E così via.

    Per quanto concerne le traduzioni che Evola poté avere a disposizione, se prescindiamo dalle numerose versioni latine (la più antica delle quali è quella eseguita nel 1440 dall’umanista Rinuccio Aretino), traduzioni italiane degli Aurea carmina non erano mancate nei secoli XVIII e XIX e si erano fatte frequenti nella prima metà del Novecento. Infatti, già nel 1913 l’editore Carabba di Lanciano aveva pubblicato un volume di 125 pagine intitolato I Versi Aurei. I Simboli, le Lettere. Seguite da frammenti ed estratti di Porfirio, dell’Anonimo Foziano, di Iamblico e di Ierocle relativi a Pitagora; la versione dal greco era opera di Giovanni Pesenti, cui erano dovuti pure la Prefazione e un Saggio di bibliografia.

    Seguì, nel 1928, la versione degli Aurei detti a cura del Gruppo di Ur, giustificata con «la imperfezione delle esistenti, compresavi quella ‘couronnée par l’Académie Française’ di M. Meunier: Pythagore: les Vers d’Or (6a ed., Paris, 1925)»⁶⁹. La nuova traduzione, condotta sull’edizione secentesca del Simplicius e su quella critica del Mullach, era opera di Tikaipôs (pseudonimo del kremmerziano Ercole Quadrelli), il quale si era avvalso, «qua e là», della collaborazione di Henìocos Aristos (pseudonimo di Arturo Reghini). La scelta di rendere il testo in forma poetica, mediante l’uso dell’esametro italiano, conferisce al lavoro di Tikaipôs un certo grado di dignità letteraria, ma talvolta comporta qualche piccola licenza. Un solo esempio: nell’ultimo verso oukéti thnetós, «non più mortale», è reso con un «non più vulnerabil» che nella versione evoliana diventa «invulnerabile». Non si deve però pensare che Evola abbia seguito pedissequamente la versione del Gruppo di Ur. Per rendersi conto di ciò, sarebbe sufficiente confrontare le due versioni del primo precetto dei Versi: mentre al v. 1 Tikaipôs ha seguito la lezione hos nómoi diákeintai e,

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