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I segreti del Quarto Reich
I segreti del Quarto Reich
I segreti del Quarto Reich
E-book886 pagine12 ore

I segreti del Quarto Reich

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Info su questo ebook

La fuga dei criminali nazisti e la rete internazionale che li ha protetti

La cronaca torna puntualmente a occuparsene quando un nuovo nome si aggiunge alla lista di chi non ha pagato per i propri terribili delitti.
A più di mezzo secolo dalla fine del nazismo, infatti, ancora non si sa con certezza quanti siano stati i criminali di guerra tedeschi – e i loro alleati in Europa e nel mondo – sfuggiti alla giustizia. Questo libro cerca di ricostruire chi siano questi uomini, quali strutture – dai servizi segreti alleati al Vaticano fino ai gruppi dell’estrema destra – li abbiano protetti, come siano riusciti a lasciare indisturbati il loro Paese e quale nuova patria abbia offerto loro asilo. Grazie a uno scrupoloso lavoro di ricerca, I segreti del Quarto Reich segue la storia di queste persone – ex ufficiali delle SS colpevoli di atroci crimini contro l’umanità, medici responsabili di ogni orrore dei campi di sterminio, collaborazionisti ungheresi, baltici, ucraini, belgi, fascisti italiani e giapponesi – dopo il 1945: spesso celati sotto nuove identità, in molti casi hanno giocato un ruolo di primo piano nella rete internazionale dello spionaggio e dell’estremismo nero, proliferato in tutto il globo nell’ultimo mezzo secolo.

Chi sono, dove sono vissuti e cosa hanno fatto i nazisti sfuggiti alla giustizia internazionale?

Tra i temi trattati nel libro:
• L’eredità del “cacciatore di nazisti” e le colpe dell’Occidente
• L’Europa di Hitler. Il collaborazionismo e i complici dello sterminio
• Dimenticare Norimberga. La fine della “denazificazione” dell’Europa e l’inizio dell’impunità
• Il nemico del mio nemico. La Guerra fredda, l’intelligence occidentale e gli ex nazisti
• Caccia al tesoro. Il saccheggio dell’Europa per preparare la fuga
• Una patria di riserva. L’Argentina di Perón e le dittature latinoamericane
• I nazisti della porta accanto. La seconda vita dei criminali di guerra nei Paesi occidentali

«Cresce l’estrema destra nel mondo, quella che spesso si tiene lontana dai riflettori ma fa paura. È il tema di Estrema destra, un viaggio nella nuova internazionale nera di Guido Caldiron.»
Il Fatto quotidiano

«Il nuovo libro di Guido Caldiron è una sorta di vademecum […] della realtà e del panorama del radicalismo fascista in Occidente.»
il manifesto
Guido Caldiron
Giornalista, studia da molti anni le nuove destre e le sottoculture giovanili, temi a cui ha dedicato inchieste e saggi. Ha collaborato con radio e TV italiane e del resto d’Europa e attualmente scrive per «il manifesto» e «Micromega». Tra le sue pubblicazioni, ricordiamo: Banlieue, L’impero invisibile, La destra sociale, Populismo globale, I fantasmi della République, Europa ribelle. Con la Newton Compton ha pubblicato Estrema destra e I segreti del Quarto Reich.
LinguaItaliano
Data di uscita18 gen 2016
ISBN9788854173576
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    Anteprima del libro

    I segreti del Quarto Reich - Guido Caldiron

    Capitolo 1

    L’Europa di Hitler. Il collaborazionismo e i complici dello sterminio

    Il 30 aprile 1945

    Adolf Hitler, Führer e Cancelliere del Reich tedesco, si uccise all’incirca alle 15:30 con un colpo di pistola alla tempia destra. Hitler si era avvelenato insieme a Eva Braun e poi si era sparato. Subito dopo, i due cadaveri erano stati bruciati nel giardino della Cancelleria. Anche Goebbels, sua moglie e i loro sei figli erano morti. […] Sulla sorte di Himmler e di Göring non c’erano particolari.¹

    Ma anche i due uomini che avevano condiviso con il Führer le maggiori responsabilità al vertice dello Stato nazista sceglieranno di lì a poco di darsi la morte: Hermann Göring, già capo della Luftwaffe, lo farà nella cella in cui attendeva l’esecuzione, dopo essere stato condannato dal tribunale di Norimberga per i suoi crimini contro l’umanità; Heinrich Himmler, potente Reichsführer delle SS, in una stanza del quartier generale della Seconda armata britannica, dopo essere stato catturato nella zona di Luneburgo, nel Nord del Paese. Nel frattempo, l’8 maggio 1945 la Germania capitolava: la seconda guerra mondiale finiva in Europa, mentre avrebbe avuto un ulteriore drammatico strascico nel Pacifico, dove il Giappone si sarebbe arreso solo il 14 agosto, dopo il bombardamento atomico subìto dalle città di Hiroshima e Nagasaki rispettivamente il 6 e il 9 agosto². A Berlino, intanto, era finita

    l’era del Terzo Reich, che secondo Hitler sarebbe dovuto durare mille anni. Prendendo il potere [nel 1933], il Führer aveva promesso al popolo tedesco: «Se resterò al potere per dieci anni, la Germania diventerà irriconoscibile». E realmente, dopo gli anni del potere hitleriano, la Germania era irriconoscibile: un cumulo di macerie. Hitler in persona, per paura dei russi, aveva posto fine alla sua vita suicidandosi.³

    Molti criminali di guerra tedeschi o appartenenti ai movimenti collaborazionisti e fascisti del resto del continente, però, non solo non avrebbero seguito la sorte del capo del nazismo, ma non sarebbero stati nemmeno chiamati a rispondere delle proprie responsabilità, riuscendo in seguito, talvolta anche per tutta la vita, a sottrarsi alla giustizia. Come se non bastasse, la stessa nozione di quanto era accaduto in Europa tra la metà degli anni Trenta e il 1945 avrebbe assunto tratti sempre più sfumati. Se le colpe del Terzo Reich non hanno potuto essere celate nemmeno negli anni in cui comincerà a imporsi il nuovo assetto internazionale frutto della Guerra fredda – che vedrà scomporsi in fronti contrapposti l’alleanza che aveva sconfitto i fascismi –, spesso non si ricorda che alla guerra e allo stesso sterminio degli ebrei d’Europa avevano preso parte, oltre ai tedeschi e agli austriaci ugualmente cittadini del Reich, anche centinaia di migliaia (se non milioni) di fascisti e antisemiti di ogni parte del continente, a partire proprio dall’Italia. E le atrocità commesse allora avevano potuto talvolta godere anche di forme di consenso presso la popolazione locale. Anche da questi elementi rapidamente dimenticati avrebbe tratto forza la rete di coperture e complicità che, come si vedrà in questo volume, consentirà a molti criminali di guerra di sottrarsi alle proprie responsabilità e costruirsi una seconda vita nel dopoguerra.

    Guerra razziale, guerra ai civili

    Nella primavera del 1945 il regime nazista e i suoi alleati erano caduti, ma il mondo non sarebbe più stato lo stesso. Come noterà lo storico Tony Judt, «la guerra, iniziata con l’invasione nazista della Polonia nel settembre del 1939 e terminata con la resa incondizionata della Germania nel maggio del 1945, era stata totale: aveva coinvolto allo stesso modo soldati e civili»⁴. In nessun altro conflitto combattuto fino a quel momento nel Vecchio continente, intere nazioni si erano trasformate in altrettanti campi di battaglia.

    Nei Paesi occupati dalla Germania nazista, dalla Francia all’Ucraina, dalla Norvegia alla Grecia, la guerra è stata anzitutto un’esperienza che ha riguardato la popolazione. Gli scontri militari si sono concentrati nelle fasi iniziali e finali: per tutto il resto, è stata guerra di occupazione, repressione, sfruttamento e sterminio, in cui soldati, reparti d’assalto e poliziotti hanno avuto nelle proprie mani la quotidianità e la stessa vita di decine di milioni di persone, ridotte alla condizione di detenuti. In alcuni Paesi, l’occupazione è durata per quasi tutto il conflitto; ovunque ha portato paura e provocato miseria.

    Se il conflitto aveva portato ovunque fame, distruzione e sofferenze, tra le sue più terribile conseguenze c’era stata, naturalmente, l’enorme perdita di vite umane; anche in questo caso, senza alcun paragone possibile con quanto era avvenuto in precedenza.

    Si calcola che tra il 1939 e il 1945 siano morti per la guerra circa 36,5 milioni di europei [cifra equivalente alla popolazione totale della Francia allo scoppio del conflitto, n.d.a.]. Il conto totale è spaventoso [la cifra non comprende i giapponesi, gli americani o comunque i non europei, n.d.a.] e fa apparire insignificante quello della Grande guerra del 1914-18, per quanto già impressionante. Infatti, in nessun altro conflitto sono state uccise così tante persone in così poco tempo, ma ciò che più colpisce è il numero dei morti civili: 19 milioni, vale a dire più della metà del totale. In URSS, Ungheria, Polonia, Jugoslavia, Grecia, Francia, Olanda, Belgio e Norvegia esso supera di gran lunga quello dei soldati. Soltanto in Inghilterra e Germania le perdite militari furono significativamente maggiori.

    Ma per nazisti e fascisti di tutta Europa, come anche per i loro alleati dell’Estremo Oriente, la guerra aveva avuto anche un preciso profilo razziale, seppure in base a specificità locali. L’obiettivo di sterminare intere comunità nel Vecchio continente – a cominciare dagli ebrei, sulla cui identificazione con il capro espiatorio al quale addossare il malessere sociale e politico e la decadenza della Germania i nazisti avevano costruito le proprie sinistre fortune fin dagli anni Trenta – non solo non era stato secondario, ma aveva in larga parte dominato l’orizzonte stesso del conflitto. L’antisemitismo, che contava peraltro una lunga tradizione sia laica sia cristiana nelle società europee dell’Est come dell’Ovest, avrebbe condotto alla Soluzione finale progettata e in gran parte realizzata dal Terzo Reich, grazie anche al sostegno dei suoi alleati in ciascun Paese. Oggi il numero dei morti è calcolato in circa sei milioni di ebrei europei, due terzi dei quali uccisi nelle fabbriche dello sterminio di Auschwitz, Treblinka, Sobibór e negli altri campi della morte nazisti. Luoghi in cui vennero sterminati anche centinaia di migliaia di rom e sinti e molti omosessuali, oppositori politici (soprattutto comunisti), prigionieri di guerra e testimoni di Geova⁷.

    Se tanti di coloro che ebbero un ruolo nell’Olocausto si sarebbero in seguito difesi affermando di aver solo eseguito gli ordini o svolto semplicemente l’incarico che era stato affidato dai superiori⁸, i criminali di guerra nasconderanno più spesso le loro colpe dietro la loro immagine di semplici soldati. Infatti, come nota lo studioso britannico Christopher Hale, in talune ricostruzioni storiche e nell’autodifesa pronunciata dagli ex nazisti che, messi di fronte alle loro responsabilità, sostenevano unicamente di aver compiuto il loro dovere di militari, si è cercato spesso di separare gli eventi bellici della seconda guerra mondiale dall’Olocausto. Eppure, «combattere nelle armate del Terzo Reich, nell’esercito vero e proprio, nella Wehrmacht o nei battaglioni di polizia delle SS e nelle Waffen-SS, significava impegnarsi contrattualmente a partecipare a una guerra che non era affatto come tutte le altre»⁹.

    Del resto, era stato proprio un militare tedesco, il generale Erich Hoepner – colui che aveva guidato le divisioni corazzate durante l’invasione dell’Unione Sovietica nel 1941 e che finirà giustiziato perché aveva preso parte nell’estate del 1944 al complotto ordito da un gruppo di ufficiali delle forze armate per uccidere Hitler e trattare una pace separata con gli Alleati – a sintetizzare in questi termini l’etica militare del Terzo Reich, condivisa anche da gran parte dei suoi alleati:

    [La guerra] è la lotta millenaria del popolo germanico […] al fine di scongiurare il dilagare del bolscevismo giudaico. E, di conseguenza, va combattuta con una determinazione senza precedenti […] spietatamente e totalmente per annientare il nemico […] senza risparmiare i sostenitori dell’attuale sistema bolscevico.¹⁰

    In una simile prospettiva, lo sterminio degli ebrei e l’eliminazione di parte delle popolazioni civili assoggettate all’occupazione tedesca erano strettamente legati agli obiettivi strategici della guerra. Infatti, ricorda ancora Hale, «il nemico non veniva definito come un insieme di uomini ostili in armi, ma come i sostenitori di un sistema. […] Secondo la perversa ideologia del Reich, tutti gli ebrei appoggiavano in qualche modo il sistema bolscevico per il solo fatto di essere ebrei»¹¹.

    Perciò questa

    etica legittimava necessariamente energiche misure collettive che significavano in pratica l’eliminazione di massa dei non combattenti la cui permanenza in vita minacciava il benessere del Reich. In base all’etica dell’annientamento, lo sterminio di civili disarmati, uomini, donne e bambini, non si considerava più un danno collaterale, ma una parte integrante della strategia militare.¹²

    In altre parole, la guerra e lo sterminio degli ebrei erano, per i nazisti e i loro alleati, due facce della medesima, mostruosa medaglia. Perciò, quanto accadde allora ebbe tra i propri responsabili un numero maggiore di individui rispetto a quanto l’opinione pubblica europea sia stata spesso in seguito disposta ad ammettere. Se i vertici politici e militari tedeschi, e tra loro gli appartenenti a gruppi scelti come le SS, ebbero ovviamente un ruolo di primo piano nel mettere a ferro e fuoco il continente e nel perseguire il loro sanguinario obiettivo di pulizia etnica, gli zelanti collaborazionisti di ogni parte d’Europa avrebbero contribuito a rendere possibile tutto ciò.

    Il continente della collaborazione

    Al culmine della guerra, la Germania controllava direttamente o indirettamente più di una dozzina di Paesi in tutta Europa, ed esercitava grandissima influenza in un’altra mezza dozzina. Nonostante la loro potenza militare, i nazisti non avrebbero potuto raggiungere questo risultato senza l’aiuto di decine di migliaia, forse centinaia di migliaia di collaboratori all’interno di quei Paesi.¹³

    Nella sintesi proposta dallo studioso inglese Keith Lowe è indicato in modo molto chiaro che la Germania nazista e i suoi principali alleati poterono perseguire i propri scopi – il dominio di gran parte del Vecchio continente e ciò che ne seguì all’interno di ciascun Paese, vale a dire l’emanazione di specifiche leggi razziali e quindi la deportazione delle locali comunità ebraiche verso i campi di concentramento o la loro parziale eliminazione già sul posto – solo grazie al sostegno offerto loro da un gran numero di fascisti, nazionalisti e opportunisti locali. Se al cosiddetto Patto tripartito, sottoscritto nel 1940 dai governi del Terzo Reich, dell’Italia fascista e del Giappone imperiale, avrebbero aderito in seguito i regimi di Ungheria, Romania, Slovacchia, Bulgaria, il Regno di Jugoslavia e lo Stato indipendente di Croazia¹⁴, il fenomeno che andrà sotto il nome di collaborazionismo avrà confini ancora più ampi, fino a coinvolgere praticamente ogni società dell’epoca, in Europa e fuori di essa: dalla Scandinavia al Nordafrica, dalla Francia al Caucaso¹⁵.

    «I Paesi europei occupati dalle forze dell’Asse hanno praticamente tutti conosciuto forme di collaborazionismo, tra loro spesso anche molto diverse in base ai soggetti coinvolti e alle specificità nazionali», spiega lo storico francese Christian Ingrao, sottolineando che a scegliere di collaborare con gli occupanti furono chi condivideva l’ideologia della Germania nazista e dell’Italia fascista già prima della guerra, chi si ritrovava nelle parole d’ordine dell’antisemitismo e dell’anticomunismo, nonché i movimenti nazionalisti di estrema destra che speravano di poter trarre da una vittoria del Terzo Reich beneficio per le proprie rivendicazioni territoriali o indipendentistiche; oltre, naturalmente, a quanti erano interessati a sfruttare a fini personali il fatto di mettersi al servizio dei nuovi padroni del loro Paese¹⁶. In ogni caso, nota il ricercatore israeliano Eli Tzur, «tutti i vari aspetti del collaborazionismo erano basati sulla convergenza degli interessi nazisti e delle speranze dei collaborazionisti, che si illudevano di poter usare la sconfitta dei loro Paesi per sviluppare i loro programmi ideologici»¹⁷.

    Ma anche all’interno di un fenomeno che conobbe profonde differenze è possibile scorgere alcune coordinate comuni. Tra queste, Ingrao identifica per esempio l’esistenza all’epoca di un diffuso antisemitismo che caratterizzerà sia la collaborazione intellettuale di alcuni noti scrittori francesi, come Pierre Drieu La Rochelle o Robert Brasillach, sia il sostegno offerto ai nazisti dai nazionalisti e da una parte della popolazione delle regioni baltiche o dell’Ucraina¹⁸.

    Riassumendo la vicenda del collaborazionismo, lo storico Enzo Collotti suggerisce che «la gestione dei vasti territori occupati dalle potenze dell’Asse durante la seconda guerra mondiale fu generalmente accompagnata dalla presenza di forme diverse di collaborazione da parte di autorità amministrative o di movimenti politici filofascisti o filonazisti all’interno dei singoli contesti nazionali e sociali»¹⁹. Ma se in alcuni casi si trattò di una collaborazione di Stato, dettata «dalla convenienza e dall’opportunità», in altri si trattò di «un’adesione spontanea da parte di quanti condividevano, per motivi essenzialmente ideologici, politici e culturali, il disegno nazista del nuovo ordine europeo in tutte le sue implicazioni»²⁰. Questo accadde quando, in particolare nelle regioni dell’Europa occidentale, «emerse con la massima evidenza la radice politico-culturale del collaborazionismo, eredità di una più antica matrice filofascista, antidemocratica, antisemita»²¹. Non a caso, fu dal fenomeno complessivo della collaborazione che, coinvolgendo centinaia di migliaia di persone in ogni Paese e rappresentando perciò a livello continentale una vicenda che interessò complessivamente milioni di persone, sarebbero scaturite le figure di molti dei criminali di guerra di cui torneremo a parlare nel corso del libro²².

    Il collaborazionismo, che la propaganda del Terzo Reich sfruttò per descrivere l’immagine di «una coalizione dei popoli dell’Europa attorno alle sue bandiere», ebbe infatti anche un ruolo ben preciso durante la seconda guerra mondiale. Da un lato, le milizie fasciste dei Paesi occupati e le forze di polizia degli Stati alleati con Hitler contribuirono all’opera di repressione della popolazione locale e alla caccia agli ebrei e ai membri della Resistenza, macchiandosi spesso di crimini efferati. Dall’altro,

    il reclutamento di volontari per il corpo delle Waffen-SS in tutte le componenti nazionali delle aree controllate dai tedeschi, col quale fu allestito un esercito di circa 1 milione di uomini, ebbe anche un esito pratico oltre che propagandistico, destinato a prolungarsi oltre la fine della guerra nei movimenti neofascisti e neonazisti, che dell’epica di quel volontariato si gloriarono soprattutto negli anni della Guerra fredda.²³

    In questo senso, il collaborazionismo avrebbe contribuito in modo determinante dapprima all’Olocausto e alle sofferenze delle popolazioni civili di cui si resero responsabili i nazisti e, in seguito, fin dall’immediato dopoguerra, a creare un clima favorevole, in taluni ambienti sociali o in alcune regioni, alla fuga dei criminali di guerra.

    L’aspetto forse più terribile che tutto ciò avrebbe assunto durante il conflitto riguarderà il ruolo svolto dai combattenti non tedeschi che si arruolarono nelle fila delle armate naziste: quelli che Christopher Hale ha definito «i carnefici stranieri di Hitler».

    Secondo il ricercatore britannico,

    quando gli eserciti tedeschi invasero i Paesi baltici, la Bielorussia e l’Ucraina, seguiti dalle letali Einsatzgruppen dell’SD [i gruppi della morte del Sicherheitsdienst, il servizio di sicurezza delle SS, n.d.a.], i lituani, i lettoni e gli ucraini sfruttarono l’opportunità per uccidere i loro vicini di casa ebrei in un’orgia di omicidi di massa apparentemente spontanei. L’Europa orientale fu travolta da un’ondata di violenza che fece oltre cinque milioni di vittime tra gli ebrei, mentre in Francia, in Belgio, in Scandinavia e in Olanda, le milizie collaborazioniste tradivano, arrestavano e deportavano i concittadini ebrei nei campi di sterminio nazisti.²⁴

    Il consenso che il progetto della Soluzione finale trovò presso una parte della popolazione delle regioni dell’Europa orientale, come anche in settori importanti delle società dei Paesi dell’Occidente europeo, era dunque figlio di un antisemitismo che spesso non aveva nulla da invidiare a quello nazista: su questa base, a centinaia di migliaia si sarebbero arruolati nelle fila delle divisioni delle Waffen-SS o tra i ranghi dei movimenti e dei partiti collaborazionisti, o avrebbero garantito consenso e seguito popolare agli Stati-fantoccio sostenuti dalle armate del Reich e animati da fascisti e nazionalisti locali.

    Quando gli eserciti di Hitler invasero l’Unione Sovietica, Reinhard Heydrich, capo dell’SD, iniziò a utilizzare ausiliari di polizia indigeni affinché facessero pulizia nei loro Paesi. Con questa espressione, intendeva l’eliminazione sistematica degli ebrei e dei funzionari del Partito comunista. Gli uomini dell’SD e i loro collaboratori locali sventrarono le antiche comunità ebraiche dell’Est europeo con una ferocia inaudita.²⁵

    In seguito, già

    alla fine del 1941, la polizia tedesca e i battaglioni Schuma [gli Schutzmannschaften, ausiliari di polizia non tedeschi, n.d.a.], avevano sterminato almeno un milione di ebrei nell’Europa orientale e nelle regioni occupate dell’Unione Sovietica. L’anno successivo, altri 700 mila ebrei persero la vita sotto il fuoco dei nazisti o nei cosiddetti campi di sterminio Reinhard. Milioni di persone vennero eliminate nelle foreste e nei prati dell’Est europeo, oltre che ad Auschwitz, e i loro assassini non erano solo uomini delle SS e soldati tedeschi, ma anche lettoni, ucraini e altri slavi al servizio del Reich. Quando i campi di sterminio di Treblinka, Sobibór e Auschwitz-Birkenau [che era anche un campo di lavoro] divennero i luoghi deputati al genocidio, i battaglioni Schuma locali si ritrovarono senza lavoro.²⁶

    Il capo delle SS Heinrich Himmler cominciò allora ad autorizzare la formazione di legioni e divisioni delle Waffen-SS formate da cittadini dell’Europa dell’Est; altre, analoghe, erano già state formate dai collaborazionisti dell’Ovest: «trasformatisi da poliziotti in soldati, quegli uomini non cessarono di ammazzare gli ebrei»²⁷.

    L’arruolamento nelle divisioni di combattimento delle SS destinate al fronte – al pari del ruolo svolto da collaborazionisti e forze della polizia ausiliaria nella repressione interna – non avrebbe avuto termine che con la fine della guerra. Nell’estate del 1944, quando ormai la sconfitta del Reich era annunciata, «oltre il 50% dei soldati delle Waffen-SS erano nati fuori dai confini tedeschi; tutte le divisioni delle SS avevano in forza degli stranieri e ben 19 erano composte in netta prevalenza da non tedeschi». I fascisti francesi, belgi, olandesi, italiani, scandinavi, inglesi avrebbero combattuto in queste unità fianco a fianco con ucraini, ungheresi, baltici e russi. Inoltre, alla fine del conflitto, «le SS assorbirono più di un milione di uomini appartenenti alle Ostruppen (truppe dell’Est) sovietiche, molti dei quali musulmani. Indiani, arabi, albanesi, croati, ossezi, tagiki, uzbeki, bosniaci, azeri e persino mongoli entrarono a far parte delle legioni straniere» delle SS²⁸. Perciò, se «nel formidabile esercito nazista combatterono tedeschi accecati dal nazionalismo di Hitler, al suo interno furono accolti anche i più feroci antisemiti di tutto il continente, sotto le insegne di un’ideologia razzista che sognava l’instaurazione di un Reich millenario»²⁹. Furono così in molti ad arruolarsi e ad avere «un ruolo chiave nel genocidio degli ebrei e nella lotta contro i partigiani, grazie alla loro conoscenza dei territori occupati. E la loro rete di complicità, prima come massacratori e poi come fuggiaschi, getta la sua ombra fino ai nostri giorni, nell’internazionale nera attiva dalla fine della guerra a oggi»³⁰.

    Quanti colpevoli? Il consenso della popolazione

    Nella prospettiva di un’analisi delle forme che assunsero fin dall’immediato dopoguerra la fuga dei criminali di guerra e le reti che in tal senso operarono, interrogarsi sulla partecipazione di collaborazionisti e fascisti del resto d’Europa a un piano di sterminio che fu in ogni caso elaborato, diretto e messo in atto dal Terzo Reich, serve a sottolineare come troppo spesso ci si sia accontentati di identificare nei soli quadri dirigenti della Germania nazista i responsabili di tali atrocità. In realtà, se quei personaggi rappresentarono il vertice della macchina della morte della Shoah e furono i principali responsabili delle sofferenze inflitte alla popolazione civile di mezza Europa, a molti altri non tedeschi, in base alle loro responsabilità, può essere tranquillamente attribuita la definizione di génocidaire. Questa constatazione si è imposta ogniqualvolta si è scoperto dell’esistenza in vita di un collaborazionista a vario titolo coinvolto nello sterminio (in particolare, quelli originari dell’Europa centro-orientale), che dopo il 1945 si era sottratto alla giustizia, cercando di condurlo di fronte alla legge.

    A partire dagli anni Novanta, la storiografia europea e quella statunitense hanno iniziato però a indagare anche un altro aspetto delle responsabilità diffuse alla base di quei crimini, vale a dire il consenso, se non la diretta partecipazione, all’Olocausto dei tedeschi comuni, semplici cittadini o appartenenti alle forze dell’ordine come all’esercito. I maggiori contributi in questa direzione sono venuti dalle opere di due storici americani, il già citato Daniel Jonah Goldhagen, autore de I volonterosi carnefici di Hitler, e Christopher R. Browning, alle cui ricerche si deve Uomini comuni. Nel primo caso, utilizzando materiali d’archivio in parte inediti, lo storico giunge alla conclusione che buona parte dei tedeschi condivise, in base a un diffuso sentimento antisemita presente nel Paese già prima dell’ascesa al potere di Hitler, il percorso che avrebbe portato alla Soluzione finale. Secondo Goldhagen, «in Germania presero il potere gli antisemiti più criminali e malvagi della storia dell’umanità e decisero di porre al centro della politica dello Stato le loro follie omicide». Ma poterono farlo «in una società in cui la loro immagine degli ebrei era ampiamente condivisa». Perciò,

    l’Olocausto ha potuto avere luogo […] solo perché questi due fattori si sono verificati. […] Senza i nazisti e senza Hitler, l’Olocausto non sarebbe stato possibile. Tuttavia, altrettanto fondamentale si è dimostrata la grande disponibilità della maggior parte dei tedeschi comuni a tollerare prima e sostenere poi, spesso persino collaborando attivamente, la furiosa persecuzione degli ebrei negli anni Trenta, e a partecipare infine anche al loro sterminio. […] Senza tale disponibilità, il regime non avrebbe potuto uccidere sei milioni di ebrei.³¹

    Quanto a Browning, gli uomini comuni di cui narra le vicende sono gli appartenenti al Battaglione 101 della Riserva di polizia tedesca, che si resero responsabili di una serie di massacri contro gli ebrei e la popolazione civile in Polonia. Nel luglio del 1942, in un solo giorno uccisero 1500 ebrei nel villaggio di Józefów, ma non si trattò che del debutto della loro azione omicida. «In poco più di un anno, il Battaglione 101 uccise oltre 38 mila persone e collaborò alla deportazione a Treblinka e allo sterminio di oltre 45 mila ebrei». Eppure, questi assassini non erano né membri delle SS né, almeno in apparenza, fanatici nazisti, ma tedeschi ordinari, «operai, impiegati, commercianti, artigiani arruolati da poco; uomini comuni, reclutati per estrema necessit໳². Rimasti lungamente impuniti, i crimini di cui si erano macchiati riemersero solo negli anni Sessanta: il procedimento penale nei confronti di un centinaio di appartenenti al Battaglione sarebbe durato dieci anni, dal 1962 al 1972. Proprio in base agli interrogatori svolti in occasione di quel processo, che costituiscono la base della sua ricerca, lo storico statunitense arriva a concludere che i riservisti si trasformarono rapidamente in assassini per conformarsi a ciò che potremmo definire il pensiero dominante nella Germania antisemita dell’epoca: «Grazie al razzismo diffuso e alla conseguente degradazione delle vittime ebree, la maggioranza dei poliziotti furono facilitati a conformarsi alle norme della loro comunità (il battaglione) e della loro società (la Germania nazista)»³³. In questo caso,

    gli effetti di anni di propaganda antisemita (e, prima dell’avvento della dittatura, di decenni di nazionalismo), si sommarono con la polarizzazione indotta dalla guerra; il mito della superiorità della razza tedesca e dell’inferiorità di quella ebraica, centrale nell’ideologia nazista, poté facilmente fondersi con l’immagine della Germania assediata da nemici belligeranti.³⁴

    Per quei poliziotti, appena arrivati nelle zone di operazione dalle loro città che vivevano al ritmo della propaganda del regime, fu la guerra stessa a rendere possibile lo sterminio degli ebrei: «Escludere il nemico dalla comunità degli obblighi umani e assimilare gli ebrei all’immagine del nemico divenne tutt’uno»³⁵.

    Ma se queste ricerche indicavano che i misfatti del Terzo Reich avevano trovato consenso o volonterosi esecutori anche tra i cittadini comuni della Germania (favorendo indirettamente il processo di rimozione delle colpe del nazismo che avrebbe contribuito in seguito all’impunità di molti criminali di guerra), anche dal Paese che del Terzo Reich era stato il principale alleato fuori dall’Europa erano arrivati segnali simili. In particolare da quella che gli storici Rosa Caroli e Francesco Gatti hanno definito la guerra totale del popolo giapponese:

    I sudditi giapponesi, sia militari sia civili, parteciparono [infatti] attivamente alla guerra, ritenendosi tutti difensori del tennosei e del kokutai [in sintesi, i principi secondo i quali l’imperatore e l’intera nazione avrebbero incarnato il volere degli dèi, n.d.a.]. La propaganda che puntò sullo sciovinismo, sul comunitarismo e sull’unicità della razza giapponese ebbe facile presa, tanto che non si levarono voci di dissenso se si escludono i comunisti fuggiti in Cina nel 1928. Nel Paese mancò qualsiasi forma di resistenza e le voci di sommesso dissenso di pochi pubblicisti e cineasti furono tacitate con l’invio al fronte dei criminali del pensiero.³⁶

    Per giunta: «i soldati giapponesi, oltre agli orrori della guerra, affrontarono spesso sacrifici inumani per carenza di rifornimenti, giungendo in alcuni casi al cannibalismo dei commilitoni o, più spesso, dei prigionieri di guerra. Queste atrocità e quelle commesse contro le popolazioni civili sono quasi totalmente dimenticate, anche per l’azione di occultamento» che sarebbe seguita a partire dagli anni della Guerra fredda. E, anche «nell’ultimo anno del conflitto, quando la sconfitta del Giappone era ormai certa […] centinaia di giovani continuarono a dare la vita nei corpi speciali dei kamikaze, i piloti suicidi che si lanciarono con il loro aereo contro obiettivi nemici»³⁷.

    Ancora in anni recenti si tornerà a parlare di quelli che la storiografia anglosassone ha ribattezzato i soldati fantasma: militari giapponesi che, a distanza di diversi decenni – un po’ perché tagliati fuori da ogni comunicazione, visto che erano rimasti isolati in zone impervie, piccole isole o aree particolarmente fitte della giungla in varie parti dell’Estremo Oriente, un po’ perché talmente imbevuti dell’ideologia del militarismo fascista e del mito dell’invincibilità imperiale da non aver accettato la resa del Paese nell’estate del 1945 –, avevano, a loro modo, continuato a combattere. Secondo le stime di un ricercatore giapponese, sarebbero 437 i connazionali dispersi nel Pacifico dopo la seconda guerra mondiale³⁸. Uno dei più noti tra questi soldati perduti, Hiroo Onoda, scomparso lo scorso anno, visse fino al 1974 sull’isola filippina di Lubang: era stato addestrato alla guerriglia nella scuola militare di Nakano e aveva ricevuto l’ordine di non arrendersi, a costo della sua stessa vita. Quando fu individuato per riportarlo in Giappone, aveva ancora il fucile in mano. Al suo spirito combattente hanno reso omaggio a più riprese esponenti dell’estrema destra sia giapponese sia europea; il libro in cui ha raccolto le sue memorie è stato pubblicato nel nostro Paese dalle Edizioni di Ar di Franco Freda³⁹, uno dei più noti neofascisti italiani, più volte indagato nell’ambito delle inchieste relative agli attentati del periodo della cosiddetta strategia della tensione⁴⁰; nel catalogo delle Edizioni di Ar compaiono anche testi di Hitler, Goebbels e Léon Degrelle, capo dei collaborazionisti del Belgio e icona del neonazismo dopo il 1945.

    Capitolo 2

    Dimenticare Norimberga. La fine della denazificazione dell’Europa e l’inizio dell’impunità

    20 novembre 1945. La guerra in Europa si è conclusa solo da pochi mesi quando a Norimberga si apre il processo ai vertici politici, militari e finanziari del Terzo Reich, che si sarebbe concluso nell’ottobre dell’anno successivo e che – secondo gli intendimenti degli Alleati occidentali e dell’URSS – avrebbe dovuto segnare anche la definitiva condanna storica del nazismo. Gli ispiratori, se non gli esecutori materiali, di ogni atto di barbarie compiuto in nome dell’ideologia di morte di cui Adolf Hitler era l’emblema avrebbero trovato posto sul banco degli imputati attraverso una ripartizione dei reati: crimini contro l’umanità, crimini di guerra e cospirazione per commettere crimini contro la pace¹. Il luogo scelto per tale evento «aveva un preciso significato simbolico per un processo ai gerarchi nazisti, dato che aveva ospitato il raduno annuale del partito e nel 1935 vi erano state promulgate le famigerate Leggi contro gli ebrei»². Per misurare il modo in cui si è cercato, o meno, fino ai nostri giorni di assicurare alla giustizia i criminali di guerra nazisti, non si può perciò che partire da quanto accadde alla fine del 1945 nella città bavarese, nonché interrogarsi su quanto a lungo sarebbe durato lo spirito che era stato alla base di quello storico processo.

    Criminali alla sbarra

    L’avvento di Hitler, la guerra senza quartiere scatenata dai nazisti e dai loro alleati anche contro le popolazioni civili dei Paesi invasi e occupati, il progetto di sterminio degli ebrei d’Europa e di altre comunità avevano rappresentato una tragica novità per l’Occidente e una sfida per l’avvenire cui era necessario rispondere con estrema determinazione. Una considerazione illustrata a più riprese da Telford Taylor, il giurista statunitense che prestò servizio come ufficiale dei servizi di informazione dell’esercito americano durante la seconda guerra mondiale e che fece parte del collegio dell’accusa a Norimberga. Scriverà nelle sue memorie: «In contrasto con quanto avvenuto alla conclusione della prima guerra mondiale, la fine della seconda vide un’esplosione di processi per crimini di guerra, sia in Europa sia in Estremo Oriente»³. C’era infatti la consapevolezza che

    il male connaturato al nazismo aveva radici ben più profonde e ramificate che nella Germania imperiale [che l’aveva preceduto, n.d.a.]: U-Boot, Zeppelin, gas tossici erano stati impiegati brutalmente e senza scrupoli, ma erano pur sempre armi da guerra usate al fine di ottenere la vittoria militare. L’ideologia del Terzo Reich comportava invece non solo l’espansione della Germania con la forza delle armi, ma anche la violenta eliminazione dell’opposizione politica e la riduzione di ebrei e slavi allo stato di esseri subumani, destinati nella migliore delle ipotesi alla schiavitù.

    Perciò, a Norimberga, si scelsero di processare sia «le atrocità perpetrate entro i confini nazionali del Reich contro gruppi religiosi e razziali, sia quanto conseguì, nel resto del Vecchio continente, dallo scatenamento della guerra di aggressione» da parte del regime hitleriano: l’intera vicenda storica del nazionalsocialismo, dalle sue radici ideologiche fino all’ultimo giorno del secondo conflitto mondiale, sarebbe stata oggetto di un attento esame per determinare le responsabilità individuali e quelle collettive assunte dai vertici dello Stato nazista, dai suoi apparati repressivi e militari. Tra questi ultimi, in particolare, sarebbero state giudicate organizzazioni criminali quali la Geheime Staatspolizei, la polizia politica, meglio nota come Gestapo, e le Schutzstaffel (SS), letteralmente squadre di protezione, nate come corpo paramilitare del Partito nazista e trasformatesi nel principale strumento nel progetto di sterminio del Terzo Reich⁵. Si trattava quindi di uno straordinario lavoro di ricostruzione di quanto era accaduto in Europa tra la metà degli anni Trenta e il 1945, che si sarebbe ricomposto nelle aule giudiziarie di Norimberga attraverso una serie di giudizi successivi in più di 2500 documenti, 300 mila dichiarazioni giurate, 240 deposizioni. Il tutto registrato su oltre 24 chilometri di nastro magnetico⁶.

    Nel primo e più importante processo – di fronte ai giudici del Tribunale militare internazionale che erano stati designati da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e URSS – comparvero diciannove tra i maggiori dignitari della Germania nazista. Tra loro – deceduti Hitler, Goebbels e Himmler, che avevano preferito il suicidio alla cattura – c’era Hermann Göring, una delle figure più importanti del regime, già capo della Luftwaffe. Condannato a morte, riuscirà anch’egli a togliersi la vita con una capsula di cianuro la notte prima dell’esecuzione. Gli altri gerarchi del regime cui verrà comminata la pena capitale in base alle gravi responsabilità che avevano assunto sia prima sia durante la guerra saranno impiccati il 16 ottobre 1946: Ernst Kaltenbrunner, capo del Reichssicherheitshauptamt (RSHA, l’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich), che coordinava le forze della repressione e dunque coinvolto in prima persona nella deportazione e nello sterminio degli ebrei; Joachim von Ribbentrop, Wilhelm Keitel e Wilhelm Frick, rispettivamente ministri degli Esteri, della Difesa e dell’Interno del Reich; Fritz Sauckel, responsabile del programma di sfruttamento del lavoro dei prigionieri di guerra; Alfred Rosenberg, l’ideologo del Partito nazista, responsabile dei territori occupati nell’URSS; Arthur Seyss-Inquart, Reichskommissar dell’Olanda occupata; Julius Streicher, direttore del settimanale antisemita «Der Stürmer», che aveva incitato costantemente al genocidio; Hans Frank, governatore della Polonia occupata; e il generale Alfred Jodl, capo di stato maggiore delle forze armate tedesche e consigliere strategico di Hitler⁷.

    Altre figure chiave del regime hitleriano – l’ammiraglio Karl Dönitz, già alla testa della marina e nominato da Hitler suo successore alla guida del Paese, ruolo che esercitò per qualche settimana dopo il suicidio del Führer, trattando la resa della Germania; Baldur von Schirach, capo della Hitlerjugend, la potente organizzazione che aveva inquadrato la gioventù tedesca e inculcato nelle giovani generazioni la dottrina razzista; Albert Speer, l’architetto di Hitler, ministro degli Armamenti del Reich – ebbero pene tra i dieci e i vent’anni di carcere. Alcuni imputati non furono invece processati per gravi motivi di salute. Fu questo il caso di Gustav Krupp von Bohlen und Halbach, che evitò così ogni sanzione: era uno tra i maggiori industriali tedeschi, re della siderurgia e produttore anche di armi, la cui famiglia e le cui imprese avevano sostenuto il riarmo della Germania e l’impresa bellica nazista. Suo figlio Alfried sarà però condannato in un processo successivo per l’utilizzo del lavoro forzato dei prigionieri dei lager e per aver tratto profitto dal saccheggio di materie prime perpetrato nei Paesi occupati dai tedeschi; all’inizio degli anni Cinquanta avrebbe comunque ripreso la sua attività di industriale.

    Infine, furono condannati all’ergastolo l’ex ministro dell’Economia e presidente della Reichsbank, a partire dal 1939, Walther Funk, l’ammiraglio Erich Raeder e Rudolf Hess, già segretario della NSDAP, il Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori. Hitler lo aveva designato in un primo tempo per succedergli alla testa del Reich. Vennero invece assolti Franz von Papen, che era stato vicecancelliere del Führer tra il 1933 e il 1934 e aveva soprattutto lavorato al Concordato con la Santa Sede, «contribuendo così ad assicurare al nazismo il consenso di molti conservatori»⁸ (sarà poi condannato nel 1948 ai lavori forzati da una corte tedesca ma subito rimesso in libertà); Hjalmar Schacht, che aveva guidato il dicastero dell’Economia e la Banca di Stato fino al 1939; e Hans Fritzsche, che aveva diretto l’ufficio della propaganda radiofonica.

    Rudolf Hess era l’unico imputato già detenuto prima della fine della guerra: nel 1941 era volato in Scozia, forse per proporre una pace separata agli inglesi in funzione antirussa, e lì era stato arrestato⁹. Sarebbe morto, suicida, nel carcere berlinese di Spandau nel 1987 e, da quel momento, il cimitero della cittadina bavarese di Wunsiedel, dove fu sepolto, è diventato meta di una sorta di pellegrinaggio da parte di neonazisti ed estremisti di destra di tutta Europa: essi celebrano nella sua figura colui che definiscono il prigioniero della democrazia, rimasto fedele per tutta la vita a Hitler e al nazionalsocialismo.

    Un’altra figura, quella di Martin Bormann – che aveva preso il posto di Hess alla guida del Partito nazista dopo la cattura di quest’ultimo in Gran Bretagna, e che avrebbe progressivamente assunto una posizione seconda solo a quella del Führer nell’architettura del potere nazista –, sarebbe stata a lungo circondata da un alone di mistero. Condannato a morte in contumacia a Norimberga, di Bormann si sarebbe parlato a lungo come dell’uomo che tesseva le fila di un ipotetico Quarto Reich ricostituito in America latina dai nazisti scappati all’estero. In particolare, nel 1974 il giornalista di origine ungherese Ladislas Farago pubblicò negli Stati Uniti un volume intitolato Aftermath, in cui spiegava di aver addirittura incontrato il gerarca di Hitler l’anno precedente in Bolivia. Ciò contribuì a rilanciare per i decenni successivi il mito del nazista più ricercato del mondo a cui diedero credito a lungo anche alcuni importanti investigatori come Simon Wiesenthal¹⁰. In realtà – per quanto nel dopoguerra fosse stato segnalato di volta in volta in Medio Oriente e nei Paesi del Sudamerica, dove si diceva fosse arrivato a bordo di un sottomarino¹¹, e gli fossero stati attribuiti almeno una mezza dozzina di diversi decessi, nei luoghi e con le modalità più bizzare – Martin Bormann era morto a Berlino, non lontano dal bunker di Hitler, già nell’aprile del 1945, mentre tentava di lasciare la città ormai in mano alle truppe dell’Armata rossa: il suo corpo era finito sotto un cumulo di detriti nel caos che regnava nella capitale del Reich distrutta dai bombardamenti. Nel dicembre del 1972 una squadra di operai che lavorava nella zona della stazione di Lehrter scoprì due scheletri perfettamente conservati nel sottosuolo: uno dei due apparteneva a Bormann. La leggenda della sua fuga era però ancora lontana dall’essere completamente dissipata. Solo nel 1998, quando un test del DNA confermerà che quei resti appartenevano davvero al numero 2 dello Stato nazista, anche gli ultimi scettici si arrenderanno all’evidenza che in realtà Bormann non era fortunatamente mai andato da nessuna parte. In compenso, come ricorda il giornalista inglese Guy Walters, la sinistra notorietà del personaggio ne avrebbe fatto il protagonista di una mezza dozzina di romanzi di spionaggio perlomeno nel corso di tutti gli anni Settanta¹².

    Davanti ai giudici di Norimberga non sarebbe comparso neppure il Gruppenführer (generale) delle SS Heinrich Müller, uno degli uomini più potenti del Terzo Reich che, a partire dal 1939, aveva diretto la Gestapo, ritagliandosi un ruolo di primo piano nella progettazione e nella realizzazione della Soluzione finale; tra l’altro, nel 1942 aveva partecipato alla Conferenza di Wannsee accanto a Reinhard Heydrich e a Adolf Eichmann, di cui era il diretto superiore. Come per Bormann, anche per Müller circolarono a lungo molte dicerie su una sua possibile fuga nei giorni convulsi della caduta di Berlino. Si disse perfino che «faceva la guida turistica in Brasile, che si era rifugiato a Panama o che era diventato un agente segreto russo, o ceco, infine che era entrato nella polizia albanese»¹³. Per quanto paradossale, l’ipotesi che avesse saltato la barricata, consegnandosi ai sovietici per diventare in seguito un elemento dell’intelligence di Mosca, sarebbe stata accreditata a lungo da diverse fonti. In realtà, malgrado esistano varie versioni del suo decesso, tutte concordano su un punto: esso avvenne tra la fine di aprile e l’inizio di maggio del 1945 a Berlino, probabilmente non lontano dalla Cancelleria del Reich. Il suo corpo sarebbe stato poi sepolto in una fossa comune dell’antico cimitero ebraico che sorgeva nel settore russo della città¹⁴.

    La Shoah in causa

    Anche se a Norimberga non fu «formulato nessun punto d’accusa specifico e a sé stante per lo sterminio degli ebrei»¹⁵ – dato che l’Olocausto fu trattato nel contesto più generale dei crimini contro l’umanità commessi dal Terzo Reich¹⁶ –, fu da questa accusa che gli imputati cercarono principalmente di scagionarsi. Sostennero di non essere stati a conoscenza dei fatti o di aver semplicemente obbedito agli ordini. Anche quelli che ammisero le proprie responsabilità all’interno dello Stato nazista e del meccanismo di morte che esso aveva generato addossarono a Hitler ogni colpa. Tutto ciò malgrado fosse stata raccolta – per questo processo e per quelli che furono svolti sotto l’egida della Commissione dell’ONU per i crimini di guerra – «una straordinaria quantità di documentazione e testimonianze [in particolare sul progetto di sterminio degli ebrei]»¹⁷ che smentivano tali asserzioni. E soprattutto a Norimberga, come ricorda lo storico Tony Judt, fu stabilito il principio per cui «la responsabilità dei crimini commessi da singoli in nome di obiettivi ideologici o per ragioni di Stato, sarebbe ricaduta comunque su quei medesimi ed era punibile a termine di legge. Avere obbedito agli ordini non costituiva una difesa sufficiente»¹⁸.

    Ciò che alcuni avevano negato davanti ai giudici del primo processo, per ovvi motivi di interesse personale, lo avrebbero però ammesso solo qualche anno dopo. È il caso di Albert Speer che, scarcerato nel 1966 (morirà di vecchiaia nel 1981), iniziò una nuova vita pubblicando le sue memorie e diversi libri di successo dedicati al Terzo Reich, oltre a farsi notare come importante collezionista di opere d’arte. Speer non aveva mai negato il suo ruolo nell’apparato di potere nazista, ma aveva sempre rispedito al mittente l’accusa di aver condiviso la decisione della Soluzione finale o anche il solo fatto di essere stato al corrente dei piani per il genocidio ebraico. Solo nel 1977 ammise infine il contrario, spiegando: «Considero che la mia colpa principale sia stata l’accettazione tacita della persecuzione e dell’assassinio di milioni di ebrei»¹⁹. Secondo Gitta Sereny, la giornalista britannica che aveva seguito l’ex architetto del Führer negli anni del dopoguerra, «se Speer avesse detto altrettanto a Norimberga, sarebbe stato impiccato»²⁰. All’epoca del processo, l’uomo si era infatti ben guardato dal dichiarare qualcosa del genere.

    In ogni caso, anche al di là della sorte toccata ai singoli gerarchi nazisti, a Norimberga si tentò di fare un primo bilancio di ciò che aveva rappresentato il progetto criminale dell’Europa di Hitler e di individuare sia le responsabilità complessive sia i singoli ruoli giocati nei misfatti perpetrati (altrettanto si sarebbe fatto in seguito nel cosiddetto processo di Tokyo contro i criminali di guerra giapponesi²¹). Così, a Norimberga, dopo quello principale contro i vertici del Terzo Reich, si svolse nei tre anni successivi un’altra serie di processi dodici in tutto, per complessivi 177 imputati – che riguardarono, come già accennato, le posizioni degli industriali che avevano sostenuto la macchina bellica nazista o ne avevano tratto beneficio utilizzando il lavoro schiavistico dei prigionieri dei lager. Tra questi, c’erano l’imprenditore Flick, produttore di carbone e acciaio, i vertici della Krupp e il colosso della chimica IG Farben che aveva venduto alle SS lo Zyklon B, l’agente tossico utilizzato nelle camere a gas. Inoltre finirono alla sbarra: i medici che avevano partecipato ai progetti di eutanasia e alla sperimentazione sui prigionieri; i giuristi responsabili dell’architettura giuridica del Terzo Reich; i membri delle Einsatzgruppen che avevano condotto la campagna di sterminio durante l’invasione dell’Unione Sovietica; gli ufficiali comandanti nell’Europa sudorientale che avevano fatto fucilare ostaggi; gli alti dirigenti del ministero degli Esteri, della Wehrmacht e delle SS che avevano a vario titolo reso possibile lo sterminio o diretto la struttura amministrativa dei campi della morte²². L’atteggiamento con cui furono accolti questi nuovi processi che si celebravano nella città bavarese non era però più lo stesso di quando alla sbarra erano stati chiamati i più noti complici di Hitler. Ricorda Taylor:

    Il [primo] processo di Norimberga fu in un certo senso un evento rivoluzionario, in quanto i suoi artefici adottarono numerosi principi penali del tutto nuovi [poi tornati d’attualità in anni recenti con i processi voluti dall’ONU per i crimini perpetrati nella ex Jugoslavia e in Ruanda, n.d.a.]. Nacque e si chiuse con una diffusa approvazione e scarse critiche da parte dell’opinione pubblica mondiale.²³

    Un clima di sostegno all’attività dei tribunali istituiti contro i nazisti, che non si può dire sarebbe durato così a lungo. In molti, specie in Germania e nei Paesi che del Reich erano stati alleati o avevano conosciuto fenomeni di collaborazionismo, talvolta anche di massa, cominciarono a pensare che, processati i gerarchi e le prime linee del potere nazista, si potesse tranquillamente voltare pagina. Nota in proposito Judt:

    In un continente ridotto in macerie, c’era tutto da guadagnare nel comportarsi come se il passato fosse effettivamente morto e sepolto e una nuova era stesse per cominciare: il prezzo da pagare fu un relativo e selettivo oblio collettivo, particolarmente in Germania. E, del resto, senza un’amnesia collettiva, la stupefacente ripresa compiuta dall’Europa del dopoguerra non sarebbe stata possibile.

    Questo, anche se, ammonisce ancora lo storico di origine inglese, «molte cose allora rimosse sarebbero in seguito tornate ad affacciarsi in modi inquietanti»²⁴. La necessità della ricostruzione del Vecchio continente, stremato dalla guerra, era del resto la principale motivazione della netta svolta che si produsse dopo Norimberga. Al punto che quando fu sciolta, nel 1948, la Commissione dell’ONU per i crimini di guerra che aveva costituito il nuovo quadro giuridico internazionale in cui avevano operato i giudici dei processi ai vertici del potere nazista, sembrò che un altro mondo avesse già preso il posto di quello che si era battuto per sconfiggere Hitler.

    Cambia il vento

    Tra i primi ad accorgersi che qualcosa stava rapidamente mutando – in particolare nell’atteggiamento delle autorità alleate, e naturalmente degli stessi tedeschi – rispetto alla necessità di punire i peggiori nazisti e di portare a termine nel Paese una più vasta e profonda opera di denazificazione, ci fu Simon Wiesenthal, l’ex deportato che avrebbe consacrato la sua intera vita a dare la caccia ai criminali del Terzo Reich rimasti impuniti. Wiesenthal – che aveva creato fin dal 1947 in Austria, prima a Linz e quindi a Vienna, un Centro di documentazione dove raccoglieva informazioni e materiali sugli ex nazisti, e dalla fine della guerra si era offerto di collaborare con l’esercito degli Stati Uniti per individuare gli autori di crimini efferati e aveva lavorato per l’Office of Strategic Services e per il Counter Intelligence Corps (CIC), rispettivamente antesignani della CIA e dell’attuale controspionaggio militare di Washington – notò subito questo cambiamento. Scriverà più tardi nel suo primo volume di memorie:

    Fino a quando rimasero in Europa quegli stessi americani che avevano vinto la guerra, la denazificazione fu condotta con giustizia ed efficacia. Ma, alla fine, quegli uomini andarono a casa e vennero sostituiti da altri che avevano prestato servizio negli Stati Uniti o in Estremo Oriente. Costoro non capivano il problema nazista che appariva ai loro occhi come un capitolo chiuso della storia. […] Questi americani consideravano noi, che volevamo veder fare giustizia, come della gente animata da spirito di vendetta, degli allarmisti incapaci di vedere il mondo se non attraverso una siepe di filo spinato.²⁵

    Addirittura, racconterà ancora Wiesenthal, «un capitano americano che aveva un compito importante nella rieducazione dei tedeschi, una volta mi disse: «Le opinioni della gente saranno sempre diverse. Da noi ci sono i democratici e i repubblicani. Qui voi avete i nazisti e gli antinazisti. È questo che fa andare il mondo. Non è il caso di prendersela troppo»²⁶.

    Sebbene descrivesse la situazione con il suo abituale stile disincantato, in realtà lo stesso cacciatore di nazisti era ben consapevole del fatto che il clima stava cambiando, soprattutto in conseguenza dell’emergere di un nuovo conflitto che avrebbe progressivamente sostituito sullo scacchiere internazionale quello che aveva visto unite contro il fascismo le democrazie dell’Occidente e la Russia sovietica. La nuova contrapposizione tra Est e Ovest, tra gli Stati Uniti e l’URSS e i loro rispettivi alleati avrebbe cambiato tutto. Di solito l’inizio della Guera fredda si fa coincidere, anche simbolicamente, con il blocco di Berlino, cominciato nella primavera del 1948, quando «le autorità militari sovietiche iniziarono a interferire nel traffico tra Germania occidentale e le zone occupate degli occidentali» nella ex capitale del Reich. E tale dualismo troverà il proprio primo pieno compimento nel conflitto armato scoppiato in Corea nell’estate del 1950, quando, lungo la frontiera rappresentata dal 38º parallelo, si misureranno le forze armate statunitensi e quelle alleate dell’URSS²⁷.

    Così, già all’inizio degli anni Cinquanta, spiegava ancora Wiesenthal, «le conseguenze della Guerra fredda mi costrinsero a sospendere il lavoro. Le sentenze emanate contro i nazisti venivano commutate e i procedimenti in corso venivano sospesi. Sembrava che fosse del tutto inutile continuare a lavorare. Chiusi il Centro di documentazione e spedii tutto il materiale raccolto, mezza tonnellata di documenti, agli archivi dello Yad Vashem», il museo e memoriale dell’Olocausto sorto a Gerusalemme nel 1953, cui si devono ancora oggi importanti studi sul nazismo e l’antisemitismo²⁸. Del resto, lo scontro Est-Ovest

    aveva raggiunto il culmine e gli ex alleati si guardavano in cagnesco dalle due parti della Cortina di ferro. Gli americani erano impegnati fino alla cima dei capelli con la guerra in Corea e nessuno si curava più dei nazisti. Se due ex nazisti si incontravano durante quei mesi, era facile che si dicessero: «Il vento è cambiato!», dandosi grandi pacche sulle spalle.²⁹

    Fortunatamente, però, Wiesenthal non avrebbe abbandonato che per breve tempo il suo prezioso lavoro.

    Quanto alla situazione internazionale, in realtà ciò che stava accadendo traeva origine da vicende anteriori. Il nuovo conflitto che divideva il mondo aveva radici ben più profonde, che la guerra contro Hitler aveva solo fatto mettere momentaneamente da parte. Al riguardo, Tony Judt segnala come già

    il 2 maggio 1945, l’Esercito jugoslavo di liberazione nazionale e l’Ottava armata inglese si ricongiunsero a Trieste e tracciarono attraverso questa straordinaria e cosmopolita città dell’Europa centrale una linea che divenne la prima vera e propria frontiera della Guerra fredda. Quella ufficiale era ancora lontana, ma per certi aspetti era già iniziata molto prima del maggio 1945.³⁰

    Finché la Germania rimase il nemico da battere,

    fu facile mettere da parte i profondi antagonismi e le controversie che separavano l’URSS dagli Alleati, ma essi rimasero. Quattro anni di diffidente collaborazione in una battaglia per la vita o la morte contro un comune nemico non erano riusciti a far dimenticare quasi trent’anni di sospetti reciproci. La verità è che in Europa la Guerra fredda iniziò non dopo il secondo conflitto mondiale, ma subito dopo la fine del primo.³¹

    Perciò, appena il nemico principale dell’Occidente tornò a essere il comunismo sovietico, e viceversa, nazisti e fascisti furono rapidamente dimenticati. Quando non finirono per essere arruolati nella nuova guerra globale. In particolare per gli alleati degli Stati Uniti, e in misura decisamente minore per l’URSS, nello spazio di pochi anni i tedeschi cessarono di essere dei potenziali colpevoli, per diventare dei necessari alleati. Racconta ancora Wiesenthal con la sua consueta, amara ironia:

    In Europa gli americani avevano capito che la Repubblica federale di Germania sarebbe divenuta un alleato altrettanto importante della Gran Bretagna o della Francia, e forse, persino più fidato. Ora si corteggiavano i nemici di ieri che, improvvisamente, i film americani non rappresentavano più come dei mostri sanguinari, ma come degli ufficiali coraggiosi che avevano avuto solo la sfortuna di essere al soldo di un pazzo.³²

    Il prezzo da pagare per questo cambiamento, relativamente ai temi qui affrontati, sarà però molto alto. Infatti, come ricostruito dallo studioso italiano Pier Paolo Portinaro, dopo una prima fase, già all’inizio degli anni Cinquanta, quando dai tribunali alleati la materia passò in mano ai giudici tedeschi, «le indagini giudiziarie sui crimini nazisti vennero praticamente accantonate per dar corso alle scarcerazioni e all’amnistia de facto della prescrizione dei reati»³³. Non solo:

    Si è parlato a ragione per questa fase di amnistia fredda. Le negoziazioni fra tedeschi e Alleati nei primi anni Cinquanta ebbero in questa materia come oggetto principale proprio la revisione dei risultati dei processi ai criminali di guerra. La rimozione e la riluttanza ad avviare procedimenti concernenti il passato recente da parte della magistratura, che in larghissima parte aveva superato indenne lo scoglio della denazificazione, costituirono i fattori politico-culturali che più avrebbero condizionato l’intera vicenda dell’elaborazione giudiziaria. In conseguenza di questi orientamenti, naturalmente, la possibilità di fruire di complicità presso i tribunali nazionali e di essere assolti, fu considerevole.³⁴

    Se a Norimberga la giustizia aveva fatto il suo corso nei confronti dell’élite del Terzo Reich, ora che si sarebbe dovuto allargare il discorso a molti degli esecutori materiali dei crimini del nazismo, i conti sembravano non tornare più. Così, per esempio,

    rispetto a una stima di 200-250 mila tedeschi [e austriaci] coinvolti nell’organizzazione e nell’esecuzione dello sterminio degli ebrei europei [e di altre minoranze perseguitate], per alcune decine di migliaia dei quali esistevano i presupposti concreti per un’incriminazione, i tribunali tedesco-occidentali pronunciarono non più di 500 condanne. Per limitarsi a un esempio piuttosto eloquente: degli 8000 appartenenti alle SS che avevano operato ad Auschwitz tra il maggio 1940 e il gennaio 1945, solo 800 furono processati, di cui circa 700 da tribunali polacchi, solo 45 da tribunali tedeschi.³⁵

    Bisognerà aspettare quasi vent’anni, e in particolare il già citato processo Eichmann a Gerusalemme, ma soprattutto «il ricambio generazionale nella società civile tedesca e il ripetersi degli scandali intorno a un’amministrazione che era rimasta in buona misura nelle mani di funzionari legati al passato regime»³⁶, perché in Germania si torni a discutere in modo articolato delle colpe del nazismo, dando il via a un vasto dibattito culturale, ma anche a una nuova stagione di processi. Inoltre, anche a livello internazionale, si riprenderà a misurarsi con il destino seguito dagli ex criminali nazisti e dai loro complici che si erano sottratti alla giustizia. Un capitolo che sarebbe stato scritto dopo che nel Paese inquietanti complicità e sinistre nostalgie avevano dominato a lungo la scena.

    Lasciarsi il passato alle spalle

    Tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, come detto, il clima politico in Germania e nell’intera Europa cambierà in modo radicale. L’avvento della Guerra fredda e le scelte politiche fatte dalla leadership del Paese – tema che affronteremo tra breve – avranno naturalmente un peso determinante. Ma potranno poggiare, e sarebbe fuorviante non tenerne conto, soprattutto su una rapida trasformazione dell’atteggiamento dell’opinione pubblica tedesca, decisamente restia a mettersi troppo in discussione quanto al recente passato nazista. Un atteggiamento che, in realtà, aveva cominciato a manifestarsi molto presto. Fin dall’inizio, infatti, «i processi per i crimini di guerra ebbero sia scopo di giustizia, sia intento pedagogico. Le udienze di Norimberga venivano trasmesse due volte al giorno alla radio tedesca, e le prove venivano ripetute nelle scuole, nei cinema e nei centri di rieducazione sparsi per tutto il Paese»³⁷. Ma, segnala Judt, nella popolazione dominava un evidente atteggiamento di rimozione: «Una cosa era obbligare i tedeschi alla proiezione di documentari [sui crimini del Terzo Reich, n.d.a.], altra farli guardare veramente e altra ancora farli riflettere su ciò che vedevano»³⁸. Molti anni più tardi, lo scrittore tedesco Stephan Hermlin avrebbe descritto la scena di un cinema di Francoforte, dove il pubblico era costretto a guardare documentari sui campi di concentramento di Dachau e Buchenwald prima di poter ricevere la tessera per le razioni alimentari: «Nella penombra creata dalla luce del proiettore potevo vedere che la maggior parte della gente girava il volto dall’altra parte all’inizio del film e rimaneva così per tutta la sua durata. Oggi penso che quella fosse la reazione di molti milioni di individui nel mio Paese»³⁹.

    Dopo la nascita, nel 1949, della Repubblica federale tedesca, i primi sondaggi d’opinione realizzati tra la popolazione indicarono subito che la maggioranza degli abitanti desiderava superare il clima di Norimberga e il senso di colpa che pesava sulla Germania. Non solo, in molti non facevano mistero di non condividere il giudizio negativo sul passato che ufficialmente rappresentava la base ideale della nuova repubblica. Ricorda lo storico Alfred Wahl, autore di un’opera sulla mancata denazificazione del Paese intitolata, non a caso, La seconda vita del nazismo: «Nel corso del primo decennio di vita della RFT, la maggioranza dei tedeschi si rifiutò di considerare i crimini del nazismo sufficientemente gravi da meritare una sanzione che non fosse un breve internamento e una multa»⁴⁰. Anche in molte figure destinate ad avere un ruolo nella formazione delle coscienze dei cittadini della nuova Germania democratica, affioravano il fastidio e la riluttanza a pensare che il Paese dovesse porsi qualche domanda supplementare quanto al suo recente passato. Rudolf Walter Leonhardt, un ex ufficiale della Luftwaffe che dopo la guerra si era trasferito per breve tempo in Gran Bretagna, insegnando a Cambridge e lavorando per la BBC, per poi diventare una delle firme più note del popolare settimanale «Die Zeit», metteva in dubbio che i suoi concittadini avrebbero dovuto misurarsi con una sorta di esame collettivo:

    Il sistema brevettato per fare di un cattivo tedesco nazista un bravo tedesco democratico si chiamò denazificazione. Gli Alleati emisero cioè un decreto in base al quale ciascuno doveva farsi denazificare. […] Solo che cosa sia in realtà un nazi resta indefinibile. Noi, figli di famiglie della cosiddetta buona borghesia, udimmo questa parola per la prima volta da bambini, verso la fine degli anni Venti: come insulto. […] Denazificazione significava dunque togliere una definizione a una cosa indefinita. È evidente che da un’impresa del genere non poteva uscire niente di sensato.⁴¹

    Del resto, i sondaggi realizzati fino alla fine degli anni Cinquanta fotografavano una società che continuava a identificarsi con un regime a cui aveva dato in maggioranza il proprio consenso. «Nel 1953, solo il 17% dei tedeschi interrogati pensava che la denazificazione fosse giustificata. […] E, nel 1955, quasi metà della popolazione riteneva che Hitler avrebbe potuto essere uno dei più grandi tedeschi della Storia se non ci fosse stata la guerra»⁴².

    In questo clima, ogni passo verso la giustizia era costato molta fatica. Gli Alleati, oltre a processare i maggiori responsabili del regime hitleriano, avevano iniziato a rimuovere dai loro incarichi molti degli impiegati e funzionari pubblici che erano stati membri del Partito nazista o delle sue organizzazioni collaterali (complessivamente oltre 10 milioni di persone)⁴³. Ma «quando, con l’inizio della Guerra fredda, rinunciarono a ogni ulteriore tentativo di denazificazione, apparve chiaro che i risultati [dell’operazione, n.d.a.] erano stati piuttosto mediocri»⁴⁴. Questo mentre nella Repubblica democratica tedesca (RDT), schierata con il blocco sovietico, dove l’opera di denazificazione fu in ogni caso più articolata, la questione fu risolta attribuendo alla RFT ogni colpa, in particolare la responsabilità di una piena continuità con il passato hitleriano, anche oltre il ruolo effettivo giocato dal governo di Bonn. A Berlino Est si punterà a edificare una sorta di antifascismo di Stato che, in nome della lotta al capitalismo più che al razzismo e all’antisemitismo, finirà per affrontare poco e in maniera superficiale il tema del consenso espresso dai tedeschi nei confronti di Hitler⁴⁵.

    Quanto all’Ovest, in ogni caso «l’inizio della Guerra fredda distrusse progressivamente la volontà Alleata di denazificare o di ristrutturare la società tedesca»⁴⁶. Non solo le nuove esigenze politiche, ma anche quelle più strettamente economiche, dettavano una maggiore prudenza. «Nel 1952 la Ford-Werke, il ramo tedesco della Ford Motor Company, aveva ormai riassunto tutti i suoi principali dirigenti degli anni del nazismo», mentre alcuni dei maggiori industriali del Paese, come Friedrich Flick, l’azionista di maggioranza della Daimler-Benz, o i dirigenti della IG Farben e della Krupp, condannati per crimini di guerra nei processi di Norimberga, poterono rientrare piuttosto tranquillamente nella vita pubblica. Ciò grazie all’atteggiamento, volto principalmente a curare gli interessi economici degli Alleati e la ricostruzione della Germania, adottato da John McCloy, già capo della Banca mondiale e consigliere del presidente Franklin Delano Roosevelt, che a partire dal 1949 sostituì il generale Lucius D. Clay come governatore della Zona di occupazione americana⁴⁷. Inoltre,

    quando la denazificazione fu affidata ai tedeschi, questa si trasformò in una vasta impresa burocratica di ripulitura dei nazisti, al punto che finì tutto con un’assoluzione di massa e soprattutto col ritorno degli ex nazisti in tutti gli ambiti dei settori statali e privati. […] A questo proposito, nel 1966, il filosofo Karl Jaspers coniò l’espressione solidarietà implicita: dal momento che tutti si sentivano vulnerabili e solidali, tenuto conto della loro antica adesione al regime, era meglio tirare una riga sul passato, sia che si trattasse di un nazista pesantemente coinvolto o di un semplice cittadino momentaneamente integrato alla comunità di popolo [del Terzo Reich, n.d.a.].⁴⁸

    In questo contesto, nel settembre del 1949 si era insediato nella Repubblica federale il primo governo guidato da Konrad Adenauer, fondatore e leader della Christlich Demokratische Union (CDU, Unione cristiano-democratica). Politico cattolico e conservatore – si era opposto al nazismo, e per questo era stato anche arrestato in più di un’occasione –, avrebbe retto le sorti del Paese fino al 1963, imprimendo una precisa linea di sviluppo alla nuova Germania democratica; sarebbe scomparso nel 1967 a novantatré anni⁴⁹. Pur pronunciando una condanna molto ferma e netta nei confronti del regime hitleriano e dell’antisemitismo, Adenauer cercò per molti versi di «mettere una pietra sul passato, sperando senz’altro di riportare una qualche serenità tra la popolazione per consentirle di riprendere una vita normale»⁵⁰. Un obiettivo comprensibile, data la situazione della Germania dell’immediato dopoguerra, ma che avrebbe alimentato per lunghi anni – più o meno quelli che coincisero con la sua presenza alla guida della RFT – una sorta di progressiva rimozione del recente passato nazista del Paese. Con ricadute allarmanti sulla volontà di perseguire i criminali di guerra e con precise conseguenze pratiche, visto che nel frattempo alcuni di costoro avevano avuto tutto il tempo di trovare rifugio altrove, spesso molto lontano dall’Europa. Il giornalista Ralph Giordano, che si era occupato a lungo dei processi agli ex nazisti per conto del Consiglio centrale degli ebrei tedeschi, avrebbe bollato negli anni Ottanta l’atteggiamento di Adenauer, e dell’insieme della classe politica che aveva assunto responsabilità istituzionali dopo il 1945, come «la seconda colpa dei tedeschi che avrebbero omesso di riconoscere la loro colpa iniziale, rifiutando di confrontarsi con essa»⁵¹. Secondo Giordano, dopo aver garantito un ampio consenso al regime di Hitler, con le inevitabili conseguenze quanto al loro coinvolgimento collettivo nei misfatti perpetrati dai nazisti fra il 1933 e

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