Sei anni di guerra civile in Italia: Un libro bruciato dai nazisti
Di Pietro Nenni
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Info su questo ebook
Uscito nella primavera del 1930, quando non si è ancora posto in modo eclatante il tema del contagio del fascismo italiano in Europa, il volume di Pietro Nenni divenne un grande successo popolare perché la sua efficacia narrativa e politica risultarono fuori dall'ordinario. E per questo venne dato alle fiamme.
Un'opera scritta magistralmente in cui risulta evidente quanto Nenni non sia interessato ad un esercizio di stile: a muoverlo, infatti, c’è una motivazione squisitamente politica. Nenni, mentre racconta i fatti, non li commenta, lascia che la ferocia parli da sola. Per questo la sua prosa è così magistralmente vera e, allo stesso tempo, dolente.
Nel ripercorrere eventi e sentimenti collettivi, anche quelli che precedono i sei anni oggetto del libro, Nenni si imbatte in passaggi epocali e ne lascia traccia con racconti dai quali il lettore può trarre insegnamenti di carattere universale. Ma il modo di raccontare i fatti – nudi e crudi, verrebbe da dire – è una lezione permanente, tanto più attuale per stagioni a noi più vicine, nelle quali le opinioni si confrontano quasi a prescindere dai fatti.
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Anteprima del libro
Sei anni di guerra civile in Italia - Pietro Nenni
Antonio Tedesco
Sei anni di guerra civile in Italia
Un libro bruciato dai nazisti
Introduzione di Fabio Martini
Collana di Studi storici e politici
Biblioteca della Fondazione Pietro Nenni
Biblioteca della Fondazione Pietro Nenni
© Arcadia edizioni
I edizione, maggio 2023
Isbn 978-88-3210-471-4
È vietata la copia e la pubblicazione,
totale o parziale, del materiale
se non a fronte di esplicita
autorizzazione scritta dell’editore
e con citazione esplicita della fonte.
Tutti i diritti riservati.
Trascrizioni e traduzioni: Giuliana Nenni e Beatrice Ruggeri
Copertina: Rivisitazione della copertina originale di Six ans de guerre civile en Italie,
libro stampato a Parigi dalla casa editrice Librairie Valois.
Note al testo
Il presente volume riproduce integralmente l’opera di Pietro Nenni Six ans de guerre civile en Italie, pubblicata in Francia nel 1930 e tradotta in diverse lingue. In Germania, dove ottiene un grande successo editoriale, con il titolo Todeskampf der Freiheit (Agonia della libertà
), finisce tragicamente nei roghi nazisti del 1933.
Confrontando l’edizione francese originaria, conservata nella biblioteca della Fondazione Pietro Nenni, con il testo pubblicato in Italia nel 1945 da Rizzoli, con la traduzione di Giuliana Emiliani [Nenni], nella versione italiana si sono riscontrati numerosi tagli e una diversa denominazione e struttura dei capitoli. I tagli non hanno modificato, in modo significativo, il contenuto del testo.
Il lavoro di revisione di Giuliana Nenni appare motivato dalla necessità di alleggerire e di aggiornare il testo del padre, considerati i mutati scenari storici e politici. Pertanto, pur attingendo al lavoro di Giuliana Nenni, nel presente volume è stata ripristinata l’originaria struttura dei capitoli e sono state inserite e tradotte le parti omesse.
A mia moglie
che, con nobile orgoglio,
ha condiviso i rischi
della mia vita da militante
Pietro Nenni
Introduzione
di Fabio Martini
Una liturgia oscena. Era il 10 maggio 1933 e gli studenti nazisti, istruiti da Joseph Goebbels, bruciarono nelle piazze tedesche cinquantamila libri. Sconci falò circondati da persone che mangiavano salsicce e da altre che inneggiavano agli incendiari in divisa. Studenti e plaudenti si eccitavano a vicenda, scambiandosi il saluto nazista. Tra le fiamme vennero gettati opere di Freud e Einstein, di Musil e Benjamin, di Kafka e Joyce e tra queste anche Todeskampf der Freiheit (Agonia della libertà) di Pietro Nenni, che nel 1945 sarà poi pubblicato in Italia col titolo Sei anni di guerra civile in Italia.
Per quali ragioni quel libro, uno dei pochissimi di autore italiano, era finito nei falò nazisti? Gli storici possono indicare diverse tracce, tutte interessanti. E tuttavia, per capirlo, è sufficiente leggerlo quel testo. Un libro icastico, che narra l’avvento violento del fascismo senza aggiungere un etto di retorica: proprio questa natura oggettiva
(ovviamente mai asettica) aveva trasformato l’opera di Nenni in un potente atto di accusa nei confronti del regime.
Negli anni che avevano preceduto il rogo, gli scritti di Nenni avevano incontrato, fuori Italia, un successo per certi versi straordinario. Inizialmente erano stati pubblicati come articoli sul quotidiano francese Le Soir. A partire dal settembre 1929, si erano succedute ben 40 puntate, aiutando il giornale a raggiungere tirature inaudite e in alcuni casi persino a decuplicare le vendite. Quel successo aveva richiamato l’attenzione fuori dai confini francesi da parte di altri quotidiani progressisti, che chiesero a Nenni di pubblicare gli articoli in diversi Paesi europei. A quel punto gli scritti vennero raccolti in un libro che uscì in Francia nel maggio 1930, col titolo Six ans de guerre civile en Italie. Provocando a sua volta un nuovo contagio: il volume viene ripubblicato in diversi Paesi. In parole povere, diventa un best seller della letteratura socialista e democratica europea dei primi anni Trenta.
E proprio questo percorso restituisce la risposta più completa alla domanda sulle ragioni
che avevano trascinato il libro di Nenni verso quel triste destino: era finito dentro il rogo nazista perché era stato un grande successo popolare ed era stato un grande successo popolare perché la sua efficacia narrativa e politica erano risultati fuori dall’ordinario.
Quando il suo libro finisce nelle fiamme, Pietro Nenni aveva quarantadue anni e da sei viveva in esilio a Parigi, dove riusciva a mantenere la sua famiglia – la moglie Carmen e le figlie Giuliana, Eva, Vittoria e Luciana – grazie alle collaborazioni con i giornali. Un’attività che gli riusciva particolarmente bene e che col passare degli anni avrebbe rivelato un talento fuori dall’ordinario: nel 1977 Paolo Spriano scrisse sull’Unità che Nenni era stato «il più grande giornalista italiano del Novecento». Spriano non era affezionato alle iperboli e infatti colse un punto: la capacità di Nenni di restituire, attraverso immagini, frammenti e giudizi asciutti, la quintessenza di una storia o di un personaggio.
Alla base di questa capacità di solito c’è qualcosa di ineffabile: saper andare al cuore delle questioni. Una qualità giornalistica che non è sinonimo di intuito politico e tuttavia gli si avvicina: si tratta di attitudini confinanti. Nenni era dotato di un «eccezionale intuito politico» – come scrisse Gaetano Arfè – una prerogativa che consentirà al leader socialista di diventare una delle personalità più importanti dell’antifascismo e della Repubblica, sia pure tra ripensamenti ed errori che lui stesso si riconoscerà.
Il libro è scritto magistralmente ma è del tutto evidente che Nenni non è interessato ad un esercizio di stile: a muoverlo c’è una motivazione squisitamente politica. E d’altra parte le date dicono qualcosa.
Il libro esce nella primavera del 1930, quando non si è ancora posto in modo eclatante il tema del contagio del fascismo italiano in Europa, ma tre anni dopo tutto è cambiato: 10 maggio del 1933, quando si accendono i roghi tedeschi, il nazismo è al potere. E quanto a Nenni, è da 22 giorni segretario di un Psi che proprio lui ha faticosamente riunificato, riportando nella casa comune i riformisti e gran parte dei massimalisti. Nenni era stato l’artefice della riunificazione, seguendo un percorso controcorrente e che era iniziato dieci anni prima, quando proprio lui, in extremis, era riuscito a mettere in salvo l’identità e l’esistenza stessa del partito dei socialisti italiani.
E d’altra parte la ricomposizione del Psi, culminata nel congresso di Marsiglia del 17 e 18 aprile 1933, muoveva sulla scia di una riflessione critica e autocritica attorno all’avvento del fascismo e all’inefficace contrasto esercitato dagli antifascisti. Ciò che rende ineludibile Sei anni di guerra civile in Italia è proprio il combinarsi di due elementi: il racconto inesorabile e asciutto degli eventi, accompagnati però da chiavi di lettura non scontate, mai ireniche.
Nenni spiega che la cifra del fascismo è la violenza, che la sua connotazione di classe è chiara, ma guai a dimenticarne le concause. A cominciare dalle radici psicologiche e sociali che lo precedono. Guai a dimenticare le responsabilità della monarchia, ben descritte nei momenti decisivi. E soprattutto, e qui Nenni gioca in casa
, guai a sottovalutare l’impotenza del fronte antifascista guidato da una dirigenza coraggiosa e in alcuni casi eroica, ma divisa e nel suo complesso incapace di approntare una trincea dalla quale far arretrare la marea nera.
L’analisi di Nenni sulle contraddizioni degli antifascisti e in particolare dei socialisti era stata penetrante e senza sconti in Storia di quattro anni. 1919-1922, scritto nel 1926 su spinta decisiva di Piero Gobetti («Perché non scrivi la storia di questo quadriennio?»), ma il libro era stato subito sequestrato e, in quel caso, mandato al macero. Conteneva un primo capitolo, Il diciannovismo, che avrebbe rappresentato la pietra miliare di una rivisitazione autocritica da parte dell’antifascismo democratico e che tuttavia avrebbe richiesto molti anni per diventare patrimonio comune, anche in sede storiografica.
In Sei anni di guerra civile in Italia sono presenti anche innumerevoli passaggi che parlano
con particolare eloquenza all’Italia a noi più vicina. Certo, tutta la storia – come ha insegnato Benedetto Croce – è contemporanea, ma alcuni passaggi, come dire, sono più attuali di altri. A cominciare dalla descrizione, spesso straziante, degli omicidi politici compiuti dalle squadre fasciste: una striscia nera che segnala, se mai fosse necessario, tutta la distanza tra la tragica realtà di quella teppa assassina avallata dall’alto e gli allarmi che anche in anni recenti scattano su un pericolo fascista
considerato come attuale: la tragica scansione omicida nel racconto nenniano ci ricorda una volta ancora la differenza tra il fascismo e il nostalgismo, anche quando assume una deriva violenta.
Il racconto degli assassini feroci, ispirati da Mussolini, in tal senso è eloquente. Nenni descrive tante storie strazianti e ci tiene a ricordare anche il martirio di militanti meno noti. Tra i tanti, ecco Matteo Chiolero, «sorpreso nel momento in cui si mette a tavola tra la moglie e il suo bimbo di pochi mesi. Bussano: – Avanti. Entrano. – Che volete – Matteo Chiolero. – Sono io. Non ha il tempo di dire altro. Una scarica, un corpo che cade, una povera donna che piange sul cadavere del marito».
Terribile quel che accade durante l’assalto ad una Casa del popolo, trasformata in «un colossale braciere, le cui fiamme si alzano al cielo» e la fine terribile di Pietro Ferrero, sindacalista anarchico dei metallurgici: «Lo attaccano coi piedi a un camion; lo trascinano, povero fardello di carne umana insanguinata; lasciano il cadavere a tal punto sfigurato che la sorella e gli amici non possono riconoscerlo».
Nenni, mentre racconta i fatti, non li commenta, lascia che la ferocia parli da sola. Poi, nelle pagine dedicate all’analisi politica, ovviamente dà la sua lettura senza appello del fascismo e del suo duce. Ma il modo di raccontare i fatti – nudi e crudi, verrebbe da dire – è una lezione permanente, tanto più attuale per stagioni a noi più vicine, nelle quali le opinioni si confrontano quasi a prescindere dai fatti.
Tra le ragioni che fanno di Sei anni di guerra civile in Italia un libro importante c’è anche il ritratto in movimento che Pietro Nenni dedica a Benito Mussolini. Un ritratto ricco di amarezza ma anche di verità psicologica. Nenni – come è noto – aveva conosciuto molto da vicino il futuro duce. Erano nati tutti e due nella provincia di Forlì, avevano fatto amicizia da giovani, anche se Benito aveva 7 anni e mezzo più di Pietro. Due figli del popolo, due teste calde. A pennellate secche Nenni ripercorre la giovinezza «tumultuosa», di un ragazzo «di intelligenza precoce, d’un carattere vivace, ma brutale nella sua selvatica timidezza». Dunque, un ragazzo forastico e questo tratto caratteriale risulta spiazzante, se si pensa al futuro duce, così roboante in piazza Venezia.
Negli anni giovanili Mussolini è descritto come un «un ribelle» chiuso in «lunghe letture solitarie», protagonista di una vita «poverissima», trascorsa a «bighellonare» solo per la campagna forlivese, al punto che «qualcuno lo aveva soprannominato addirittura il matto
». Nella loro Romagna i due avevano trasformato lo sciopero nazionale del 1911 contro la guerra di Libia in una sfida alle forze dell’ordine, tagliando fili del telefono e del telegrafo, lanciando sassate sui ferrovieri. L’agitazione era riuscita, ma i due erano stati arrestati, condannati e chiusi in carcere. E sul periodo trascorso assieme in carcere Nenni, anziché lasciar calare l’oblio, non esita ad indugiare: «Il carcere avvicina, fortifica l’amicizia».
Un racconto che può spiazzare, anche perché Mussolini viene descritto esattamente com’era, o come pareva che fosse a Nenni, negli anni della giovinezza, ma poi nelle pagine successive il drastico cambio politico impone un cambio nella descrizione. Quando il futuro duce arriva a Milano, negli anni a cavallo tra l’Avanti! e il Popolo d’Italia, «plebeo era e, pareva volesse restare, ma senza amori per le plebi». Una definizione definitiva, così completata: «Negli operai ai quali parlava non vedeva dei fratelli, ma una forza, un mezzo, del quale potrebbe servirsi per rovesciare il mondo». Con una sorta di straniamento, Nenni racconta due Mussolini, operazione che richiede anche un certo coraggio, perché scrive quel ritratto in una situazione disagiata, che potrebbe indurre a calcare la mano. Sarebbero ragioni umanissime. Nenni vive in esilio e ve lo ha costretto proprio il duce che in quel momento ha i pieni poteri ed è un dittatore detestato dai democratici di tutta Europa, che coincidono con i lettori per i quali Nenni scrive.
E tuttavia questa somma di avversità non lo induce a tingere soltanto di nero il ritratto del suo antico compagno di lotte. Il capo socialista non si sente frenato neppure dalla certezza di dare argomenti a chi non aspetta altro: i comunisti e i massimalisti già da tempo speculano sulla sua amicizia giovanile con Mussolini e per questo non gli risparmiano attacchi personali e grevi. Ma sono gli anni aridi del socialfascismo
, anni nei quali neppure il comune destino in esilio, come si sa, indusse i comunisti dall’astenersi da una campagna d’odio, che era ispirata da Mosca ed eseguita dagli interpreti ortodossi del Pci. E Nenni, con una freddezza invidiabile, non indugia sul settarismo dei comunisti.
Nel ripercorrere eventi e sentimenti collettivi, anche quelli che precedono i sei anni oggetto del libro, Nenni si imbatte in passaggi epocali e ne lascia traccia con racconti dai quali il lettore può trarre insegnamenti di carattere universale. Ad esempio, sulla guerra, che accende, allora e sempre, sentimenti primordiali. In poche righe Nenni riassume il clima che precede la Prima guerra mondiale e poi, nel 1918, la guerra finisce davanti ai suoi occhi di soldato. E restituisce un piano-sequenza
a dir poco straordinario sugli ultimi attimi che precedono e seguono la fine delle ostilità. Nenni si trova nel settore del Grappa, la battaglia era stata dura e alla fine si prolunga: una divisione ungherese si era aggrappata al terreno
. Ore nelle quali si intuiva che la pace era vicina, e per questo «la vita assumeva un estremo valore, si avanzava lentamente». Sino a quando, «a un tratto ogni rumore di guerra era cessato, i prigionieri scendevano allo scoperto e facevano capire coi gesti che era finita, che non c’era più nessuna difesa. Come bestie affamate si gettavano sui tozzi di pane abbandonati nel fango delle trincee e dei camminamenti. I fuochi di gioia si accendevano un po’ dappertutto. Era la vittoria! Era la pace! Ci si abbracciava. Ci sentivamo presi dalla voglia di ballare, cantare, e l’avremmo fatto senza la presenza dei morti ed il lamento dei feriti, che sulle barelle venivano portati verso gli ospedali da campo».
Nenni propone un altro luogo
eterno della vita: i bivi che possono portare la storia da un’altra parte o in direzione opposta. Si descrive il Consiglio nazionale del Psi nella primavera del 1922: quando la possibile partecipazione dei socialisti ad un governo di coalizione avrebbe potuto, forse, fermare l’ondata fascista, in una fase che precede di sei mesi la marcia su Roma. Quella volta parlarono i rappresentanti delle regioni occupate dai fascisti, i contadini e gli operai che erano banditi dalle loro case e dalle loro città. E Nenni sintetizza il loro grido di dolore: Salvateci
. Ma poi riporta per esteso le parole decisive pronunciate da Giacinto Menotti Serrati: «Se noi entrassimo in un governo borghese, sarebbe la fine morale del partito. Si può essere battuti sul terreno della forza e della violenza, ma da queste sconfitte ci si rialza. Non ci si rialza quando si è abdicato davanti