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Julius Evola e la sua eredità culturale
Julius Evola e la sua eredità culturale
Julius Evola e la sua eredità culturale
E-book373 pagine5 ore

Julius Evola e la sua eredità culturale

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Info su questo ebook

“Come tutti sanno, nel corso di quasi sessant’anni di attività Julius Evola si e occupato di vari ambiti, argomenti, tematiche che é inutile elencare. Affrontato un tema, lo portava alle estreme conseguenze per poi passare a uno successivo inquadrandolo nella sua Weltanschauung, senza per questo ammantarsi dell’etichetta di specialista o esperto di questo o quest’altro. Sicché evidenziare quale sia stata la sua “eredità” significa affrontare questi diversi ambiti, argomenti e tematiche nel loro complesso per capire il segno da lui lasciato, le indicazioni originali date, le vie aperte anche con grande anticipo sui tempi: arte, filosofia, teoria dell’eros, storia delle religioni, esoterismo ed ermetismo, simbologia, orientalismo, politica e metapolitica e così via. In una cultura italiana e internazionale che ormai vivacchia di luoghi comuni, e in cui vige un unico pensiero dominante, e che si autoalimenta cercando di sopravvivere a se stessa autoincensandosi e autogiustificandosi per illudersi di non essere moribonda, parecchi sentono (ma spesso non lo esprimono) la necessità di cercare orizzonti diversi, dato che l’evolversi stesso della situazione sta mettendo in crisi lo status quo. I vari territori in cui si e addentrato Julius Evola, e i nuovi percorsi da lui tracciati, potrebbero essere utili a molti, purché scevri di sovrastrutture pregiudiziali” (dalla Presentazione di Giancarlo Seri).
Interventi di: Davide Bigalli, Claudio Bonvecchio, Giovanni Casadio, Mario Conetti, Vitaldo Conte, Massimo Donà, Fabio Marco Fabbri, Romano Gasparotti, Pietro Mander, Giuseppe Parlato
LinguaItaliano
Data di uscita10 apr 2017
ISBN9788827227770
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    Anteprima del libro

    Julius Evola e la sua eredità culturale - AA. VV.

    In copertina:

    Ritratto di Julius Evola di Stanislao Nievo (1968).

    ISBN 978-88-272-2777-0

    © Copyright 2017 by Edizioni Mediterranee, Via Flaminia, 109 – 00196 Roma - Digital version by Volume Press

    Indice

    Premessa

    di Gianfranco de Turris

    L’EREDITÀ DI JULIUS EVOLA

    Presentazione

    di Giancarlo Seri

    Introduzione

    di Pietro Mander

    Evola e l’arte-poesia

    di Vitaldo Conte

    Evola e la filosofia

    di Massimo Donà

    Evola e la tradizione ermetica

    di Davide Bigalli

    Evola e la tradizione italico-mediterranea

    di Claudio Bonvecchio

    Evola e la Storia delle Religioni

    di Giovanni Casadio

    Evola e la sociologia islamica

    di Fabio Marco Fabbri

    Evola e la storiografia

    di Mario Conetti

    Evola e la politica nel secondo dopoguerra

    di Giuseppe Parlato

    Evola e la filosofia dell’eros

    di Romano Gasparotti

    Indice dei nomi propri di persona

    Premessa

    Un pensatore che non lasci, alla sua scomparsa fisica, un’eredità culturale e/o spirituale ha evidentemente fallito la sua missione. La sua eredità di scritti, di idee, di esempio potrà essere dimenticata, o misconosciuta, o criticata, o ghettizzata, o falsificata, magari addirittura demonizzata, ma ci deve pur essere. Ecco il motivo di un convegno che ha come titolo L’eredità di Julius Evola, per capire quale essa sia a quaranta anni dalla sua morte, per confermare che esiste sempre un lascito che ha percorso sotterraneamente la cultura italiana e anche internazionale.

    Curiosa sorte di questo pensatore che ha ancora molti nemici dentro e fuori i confini, o che si preferisce bellamente ignorare. Ma è proprio da quest’ostilità, attiva e passiva per così dire, che si può misurare quanto egli non sia stato e non sia un intellettuale minore, di scarso conto, poco incisivo, da dimenticare. Fosse stato tale non ci sarebbero le diverse indignate, inviperite e addirittura intimidatorie reazioni di certuni nei suoi confronti e anche verso questo convegno. Il che vuol molto semplicemente dire, a contrario, che il pensiero, anzi i vari filoni del pensiero di Julius Evola sono ancora vivi e vegeti, controcorrente, urticanti tutti coloro – e sono veramente parecchi – i quali ragionano in modo ovvio e conformista, e che sono sempre utilissimi per capire e criticare la deriva, che parte ormai da lontano, imboccata dalla società odierna e dai suoi rappresentanti intellettuali, per indicare invece nuove strade e orizzonti di idee.

    Come tutti sanno, nel corso di quasi sessant’anni di attività Julius Evola si è occupato di vari ambiti, argomenti, tematiche che è inutile elencare. Affrontato un tema, lo portava alle estreme conseguenze per poi passare a uno successivo inquadrandolo nella sua Weltanschauung, senza per questo ammantarsi dell’etichetta di specialista o esperto di questo o quest’altro. Sicché evidenziare quale sia stata la sua eredità significa affrontare questi diversi ambiti, argomenti e tematiche nel loro complesso per capire il segno da lui lasciato, le indicazioni originali date, le vie aperte anche con grande anticipo sui tempi: arte, filosofia, teoria dell’eros, storia delle religioni, esoterismo ed ermetismo, simbologia, orientalismo, politica e metapolitica e così via. In una cultura italiana e internazionale che ormai vivacchia di luoghi comuni, e in cui vige un unico pensiero dominante, e che si autoalimenta cercando di sopravvivere a se stessa autoincensandosi e autogiustificandosi per illudersi di non essere moribonda, parecchi sentono (ma spesso non lo esprimono) la necessità di cercare orizzonti diversi, dato che l’evolversi stesso della situazione sta mettendo in crisi lo status quo. I vari territori in cui si è addentrato Julius Evola, e i nuovi percorsi da lui tracciati, potrebbero essere utili a molti, purché scevri di sovrastrutture pregiudiziali.

    Come accade sempre a un ceto in agonia, che si aggrappa con disperazione al passato contingente e che non vuole ammettere che il tempo ormai dà loro inesorabilmente torto, la casta di certi intellettuali italiani e stranieri utilizza nei confronti di chi naviga controcorrente un’arma vecchia e stantia, ma purtroppo sempre efficace dopo decenni di condizionamento massmediatico. La critica squisitamente ideologica che non affronta il quid di un pensiero per smontarlo scientificamente, vale a dire con critiche sulle quali è possibile un dibattito anche aspro, ma semplicemente utilizzando riferimenti di tipo politico, grazie a una serie di termini che ancora oggi hanno un effetto demonizzante, se non addirittura criminalizzante, e rispetto ai quali non è dunque possibile aprire alcun dibattito serio. Crocefisso dalle accuse, la questione si chiude lì. In tal modo si pensa di chiudere la partita, di mettere all’angolo e schiacciare il pensiero anticonformista, di zittire l’interlocutore, relegarlo in un ghetto da cui non può uscire contornato com’è da un filo spinato ideologico. Mi pare ovvio che se si usa questo solo metodo terroristico, si dimostra di non possedere altri metodi e argomenti, nessuna vera ragione. È un modo di comportarsi da sciacalli, da gaglioffi, da vigliacchi, da veri inquisitori. È la dimostrazione che altre armi intellettuali non esistono, la dimostrazione di grettezza e ignoranza, anche quando ipocritamente ci si nasconde dietro l’accusa di non-scientificità del pensiero evoliano, facendo finta di non conoscere invece tutti gli apprezzamenti scientifici di cui esso è stato oggetto negli anni passati da parte di studiosi italiani e internazionali. Né peraltro si è capito (o si fa finta di ignorare) quale fosse il metodo di Evola ben spiegato sin dal 1934 nell’introduzione a Rivolta contro il mondo moderno: non disprezzare il dato scientifico, non rifiutarlo affatto, ma al contrario utilizzarlo a supporto delle sue analisi, delle sue interpretazioni, delle sue deduzioni.

    Insomma, oggi, negli anni Dieci del XXI secolo, Julius Evola dovrebbe tornare a essere come negli anni Settanta/Ottanta del XX secolo, vale a dire il filosofo proibito, proprio come si intitolava un saggio a lui dedicato e pubblicato nel 1994. Nei suoi confronti dovrebbe vigere un caveat: guai ad avvicinarlo, guai a citarlo, guai a occuparsene perché potrebbe portare pregiudizi in ambito culturale, intellettuale, giornalistico, editoriale, accademico. Possibile? Per certuni è così, dove si dimostra che la visione della democrazia non appare diversa da quella di una dittatura, dove la libertà di pensiero, di espressione, protetta della Costituzione italiana cui spesso impudicamente si fa riferimento (definita non senza sprezzo del ridicolo da qualcuno la più bella del mondo), non vale sempre e per tutti, ma è condizionata da quali argomenti ci si occupa. Vale addirittura per le opere di autori condannati per omicidio e per ex terroristi anche non pentiti, ma per un pensatore anticonformista non lo dovrebbe.

    La casta accademica, come si è detto, si difende come può e nel suo bunker impedisce che vi entrino coloro i quali non sono organici: le commissioni per le docenze universitarie respingono con regolarità sospetta quasi tutti coloro i quali si occupano di pensatori non ortodossi con le scuse scientifiche più ridicole e pretestuose, giacché essersi ad esempio interessati seriamente di Julius Evola per questi tracotanti professori è una colpa imperdonabile, un peccato mortale. Ecco come costoro si autoperpetuano, da vera casta, anche se il sistema non potrà durare in eterno.

    L’aspetto paradossalmente grottesco e ridicolo di tutto ciò è che la proibizione di occuparsi della molteplice attività di Julius Evola giunge dall’alto dell’Accademia di sinistra e dal basso della Militanza di destra. Ovviamente di una certa Accademia e di una certa Militanza, dato che in sé questi termini e quel che s’intende per essi non sono aprioristicamente negativi e bisogna vedere cosa esprimono. Per nostra fortuna questi ambienti lanciano dei caveat che si annullano tra loro e azzerano la proibizione in quanto tale. L’Accademia di sinistra s’indigna e chiama alle armi perché si cerca di rivalutare scientificamente il filosofo che non avrebbe nulla di scientifico (secondo la particolare accezione data al termine) e teme che in tal modo s’inquinino le menti vergini e ignare dei giovani studenti universitari. La Militanza di destra s’indigna e chiama alle armi perché l’interesse di docenti e studiosi sterilizza e annacqua e depotenzia il medesimo pensiero del filosofo, sottraendolo così alla vera interpretazione della base, dei giovani duri e puri.

    Ovviamente si tratta di frange minoritarie ancorché rumorose assai, e oggi, a settanta anni dalla fine della seconda guerra civile europea e a quaranta dalla morte di Julius Evola, le generazioni sono mutate e ci sono sia accademici che militanti i quali la pensano in modo assai diverso. Le cose cambiano e certa gente non se ne sta accorgendo. Rinverdire determinati lontani fasti significa solo che si ha paura del tempo che passa.

    I più penosi sono però i nostri accademici, penosi e in mala fede, pura espressione di un ipocrita pensiero politicamente corretto. Per due motivi. Strillano tanto al lupo!, al lupo!, però hanno rimosso il lampante fatto che la classe accademica italiana del dopoguerra era sostanzialmente la stessa dell’anteguerra, quella cioè che in massa – esclusi una dozzina di nomi – giurò fedeltà al fascismo. Tutti lo fecero, compreso Norberto Bobbio, il papa laico. Avrebbe dovuto essere epurata integralmente, ma così facendo le cattedre degli atenei sarebbe rimaste vuote. Le epurazioni furono pochissime, spesso temporanee, anche se eclatanti. Continuarono quindi a insegnare senza troppi problemi e senza quelle contestazioni che si fanno oggi nei confronti di uno che accademico non fu e che non giurò fedeltà al fascismo e non fu neppure iscritto al PNF o al PFR.

    Il secondo e più sospetto motivo è che questa violenta levata di scudi è giunta – ma guarda un po’ il caso – non da parte di esponenti delle varie discipline rappresentate al convegno su L’eredità di Julius Evola, ma di una sola disciplina, la Storia delle Religioni. Il che fa pensare legittimamente che sotto sotto ci sia un fatto personale, personalissimo, e ciò inficia la buona fede della loro protesta e la rende un regolamento di conti interno all’ambiente italiano dei docenti di Storia delle Religioni. Un fatto veramente indecoroso. Costoro hanno rimosso anch’essi il fatto che i loro Maestri furono tutti, senza eccezione, fascisti: da De Martino a Brelich, da Pettazzoni a Sabbatucci. E allora come la mettiamo? La strumentalizzazione dell’evento è più che evidente.

    Però, come una certa categoria di mariti, entrambi gli ambienti ci hanno in seguito ripensato. Premesso che le rispettive polemiche sono state assolutamente pre-giudiziali, nel senso che nessun rappresentante degli Accademici e dei Militanti critici del convegno era presente ad ascoltare e quindi giudicare e valutare quanto è stato detto, ecco che gli uni e gli altri in separata sede hanno voluto dire la loro nel merito. I sinistri Accademici organizzando a inizio dicembre 2015 presso la Facoltà di Lettere de La Sapienza un miniseminario con il pretenzioso titolo di Relazioni pericolose. La storia delle religioni italiana e il fascismo, che ha inteso fare i conti con i loro padri nobili fascisti di cui sopra si diceva, freudianamente uccidendoli sul piano scientifico e ideologico-politico per redimere se stessi e prenderne – solo adesso! – le debite distanze, ma trascurando del tutto il casus belli Evola da cui prendevano le mosse per loro esplicita ammissione, limitandosi a pochi e superficiali accenni qua e là senza alcun costrutto, neppure critico. Con risultati talmente ridicoli e penosi data la disparità dei relatori intervenuti, in certi casi neppure docenti né storici delle religioni (non essendo infatti mancati interventi al limite dell’isteria), che, se questo è quanto riesce a mettere in cambio certa Accademia trinariciuta, non ci si dovrebbe preoccupare più di tanto sul piano culturale.

    I destri Militanti da parte loro hanno fatto eco agli Accademici mettendo in piedi a gennaio 2016 un convegno dall’impegnativo titolo di Rigenerazione Evola, che forse sarebbe stato più giusto chiamare Refrigerazione, dato che hanno congelato un pensiero multiforme a solo loro uso e consumo prendendo in considerazione unicamente quella parte da essi ritenuta politica, e per di più limitata alla politica fra le due guerre, ed escludendo, anzi rigettando, tutte le altre, trasformando così il filosofo tradizionalista in un guru, in un totem, in una statua da venerare quale egli mai avrebbe voluto essere, e mai avrebbe accettato di essere. Sono, a pensarci bene, la versione odierna di quelli che lo stesso interessato aveva con autoironia definito evolomani e che, travisandone il pensiero in buona o mala fede non importa, sono stati spesso i maggiori responsabili della cattiva fama che si guadagnò tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Costoro non capiscono – o meglio si rifiutano pervicacemente di capire – che Evola è una delle figure più importanti del pensiero del Novecento e non solo, e che la sua grandezza sta nel fatto di aver espresso la propria visione del mondo tradizionale in molteplici ambiti. Fosse stato un semplice teorico della politica non avrebbe l’importanza che in effetti ha. Rifiutandosi ottusamente di far parlare documenti e testimonianze ormai numerosi, disconoscendo studi e analisi, non leggendo nel modo giusto neppure le parole dello stesso Evola e non contestualizzandole, costoro si ostinano in una strada senza sbocchi, quella angusta della sezione di partito. Non vogliono capire che i piani della militanza e quello di chi studia Evola nei suoi molteplici aspetti potrebbero benissimo camminare in parallelo, addirittura con reciproci scambi. Avere i paraocchi non porta nulla, se non ad andare a sbattere contro i muri e ad abbassarsi sino a polemiche pubbliche ad personam, che non sono proprio il massimo dell’onorabilità.

    Et de hoc satis.

    Coloro che hanno partecipato a questo convegno sono la dimostrazione che tali proibizioni dall’alto e dal basso non funzionano più, per nostra fortuna, che è possibile iniziare a percorrere una strada seria e feconda grazie alla quale si riesca a esaminare questo autore al di là di anatemi e agiografie, entrambi acritici. È quello che lo stesso Julius Evola auspicava, se qualcuno si ricorda ancora delle parole che scrisse ne Il cammino del cinabro e che sarebbe bene rileggere attentamente, specie il capitolo 3. E questi Atti lo dimostrano esaminando via via il contributo e l’eredità lasciata dal pensatore romano nell’ambito dell’arte, della filosofia, della metafisica del sesso, del pensiero tradizionale, dell’esoterismo, della Storia delle Religioni, del pensiero islamico, della storiografia in generale, della politica. Contributo di idee e indicazioni controcorrente che vale come lascito, che tale rimane indipendentemente dal fatto che poi sia stato applicato, sviluppato e/o valorizzato da chi è venuto dopo.

    Come si vedrà (giacché alcuni malpensanti lo temevano aprioristicamente) non c’è alcuna strumentalizzazione di alcun tipo, nessun tirare per la giacchetta Evola da una parte o da un’altra, al contrario non sono mancati rilievi critici e prese di distanza da alcuni aspetti del suo pensiero, come deve peraltro avvenire per ogni personalità di livello che a motivo della complessità e varietà della sua visione del mondo suscita discussioni (altrimenti non ci sarebbe motivo di occuparsene), e di ciò può scandalizzarsi e addirittura indignarsi chi di Julius Evola fa un totem, un feticcio. Il che, peraltro, non vuol dire accettare supinamente ogni critica. Insomma, una tempesta in un bicchier d’acqua e a fini grettamente utilitaristici da parte di chi era maldisposto per principio.

    Il convegno del 29 novembre 2014 è stato l’ultima delle diverse manifestazioni organizzate dalla Fondazione Julius Evola per ricordare il filosofo tradizionalista a quaranta anni dalla sua scomparsa puntando programmaticamente all’ambiente accademico, in teoria così refrattario alle sue idee, con lo scopo di chiedere ai suoi rappresentanti più anticonformisti di tracciare un bilancio del suo multiforme pensiero e così della sua influenza mai ammessa e anzi negata sulla cultura italiana. Si passa dunque dalle semplici soggettive testimonianze che si prepararono per i suoi settantacinque anni, quindi raddoppiate un decennio dopo (Edizioni Mediterranee, 1973 e 1985), a un oggettivo esame del suo peso culturale oggi, quattro decenni dopo, da parte di una decina di autorevoli specialisti universitari. Una specie di punto di arrivo dello stesso criterio utilizzato nella scelta dei prefatori dell’edizione critica delle sue opere, avviata nel 1993 per le Edizioni Mediterranee.

    Il risultato non è stato semplicemente un violento sasso nello stagno dell’ottuso conformismo italiano e internazionale, accademico e no, ma – crediamo – una pietra miliare sul percorso di una analisi seria e documentata del pensiero evoliano, e di questo siamo orgogliosi.

    GIANFRANCO DE TURRIS

    Roma, marzo 2016

    In questo volume di atti le relazioni sono state risistemate in un più esatto ordine logico-cronologico dell’evoluzione del pensiero evoliano rispetto al loro diverso succedersi durante il convegno dovuto a banali problemi organizzativi.

    L’EREDITÀ DI JULIUS EVOLA

    Presentazione

    GIANCARLO SERI

    Presidente dell’Accademia Nazionale dei Filaleti

    La celebrazione di Julius Evola, quaranta anni dopo il suo passaggio dal mondo visibile al mondo invisibile, è, ai nostri giorni, un atto più che dovuto da parte di tutti coloro che sono interessati alla storia e alla evoluzione della Tradizione iniziatico-spirituale italico-mediterranea. A prescindere dai suoi presunti orientamenti politici, più o meno condivisibili, molti aspetti della sua poderosa opera rimangono ancora da valutare.

    Infatti, le idee di natura socio-politica di Julius Evola sono mutuate storicamente dal vissuto più che dal pensato e, a nostro parere, è per questo motivo che hanno ricevuto valutazioni spesso eccessivamente negative. Invece, i principi di natura iniziatico-spirituale, che sono alla base dei suoi scritti, risultano essere, soventemente, molto distanti da quegli atteggiamenti del totalitarismo che, dal 1920 al 1945, orientò la vita e la giovinezza non solo del nostro personaggio ma di tutto il popolo italiano.

    Durante il terzo periodo della sua esistenza, dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, Evola divenne oggetto di un morboso interesse, a volte fortemente oltre misura, di gruppi che, più o meno intenzionalmente, scambiarono i reali valori culturali e spirituali della sua opera e li adottarono per sostenere indirizzi di pensiero, (e conseguenti prassi politiche), poco accettabili in generale, e in palese contrasto con quanto lo stesso Evola aveva voluto significare.

    Certo è che le grandi linee culturali dell’epoca in cui Evola si trovò calato, ancora oggi, a distanza di quasi dieci lustri, rimangono di difficile valutazione sotto ogni punto di vista. Tuttavia la nostra sensibilità storico-culturale ci consente di affermare che il popolo italiano, suo malgrado, per le vicende sociali e politiche relative alla fine della seconda guerra mondiale, dovette recitare la parte dello sconfitto/redento ponendo, senza condizioni, il suo destino nelle mani di un Cattolicesimo assai più soffocante dei regimi totalitari che attrassero l’attenzione delle grandi masse popolari, non solo italiane ma di molti Paesi europei.

    Oggi abbiamo una rara e preziosa occasione per compiere una rilettura dell’opera di Julius Evola e una obiettiva riflessione, dopo quaranta anni dal suo passaggio al mondo invisibile da lui indiscutibilmente tanto amato e tanto ben configurato.

    È nostra consolidata convinzione che, in questa nuova e ultima dimensione, egli abbia potuto assistere, finalmente, alla caduta del velo e guardare, meritatamente, faccia a faccia, con sovrumana determinazione, il divino celato nel più profondo di sé. È dunque anche nostra speranza che egli, tra tanti dubbi e sfuggenti mercuriali verità, ma anche tra altrettante certezze, possa aver ottenuto la giusta mercede. Julius, infatti, benché molto sofferente, nell’ultimo periodo della vita, non perse mai la certezza di aver accolto in sé la luce dell’Alto, tanto che decise che le proprie ceneri (la propria fisicità), fossero poste nel cuore di una montagna, vicino a quelle cime da lui stesso più volte celebrate.

    Confidando, infine, che durante questo nostro convegno ciascun relatore, con grande rispetto per questo uomo di desiderio, si tenga onestamente lontano da ogni pregiudizio, auguriamo una giornata di lavoro soddisfacente per tutti.

    Introduzione

    PIETRO MANDER

    Presidente della sezione romana Isidi Pantheæ dell’Accademia dei Filaleti

    Gentili Signore e Signori, benvenuti a questo quarto incontro della sezione romana dell’Accademia dei Filaleti, Isidi Pantheæ.

    Al momento, questa sezione ha prodotto questi quattro convegni, tra i due estremi del 2010, allorché iniziò la sua attività, e oggi.

    Due erano rivolti al mondo antico:

    1. 4 aprile 2010, Dalla magia elementare alla teurgia: le molteplici forme nella pratica degli antichi culti misterici

    2. 9 novembre 2013, Dramma sacro e antiche religiosità negli stucchi decorativi della basilica neopitagorica di Porta Maggiore a Roma

    La prima parte del materiale è stata pubblicata nel libro: L. Albanese-P. Mander (a cura di), La teurgia nel mondo antico, ECIG, Genova 2011, mentre con il titolo L’ipogeo di Porta Maggiore a Roma, Tipheret, 2016, a cura di G. Seri, sono apparsi gli atti del 2013.

    Il terzo convegno, come questo odierno – quarto della serie – ha avuto come oggetto un autore contemporaneo, che, come Julius Evola, era molto interessato alla conoscenza iniziatica, seppure in modalità assai diverse da quelle del filosofo e artista italiano:

    3. 27 ottobre 2012, Mistero e arcano immaginario nell’opera di Gustav Meyrink , i cui atti sono finalmente apparsi nell’autunno 2016 presso Tipheret, con lo stesso titolo, a cura di G. Seri.

    Come in quell’ultimo convegno, anche in questo, per introdurre i lavori, non seguirò un percorso scientifico, soprattutto per i limiti oggettivi della mia competenza, che è rivolta ad altri campi, e parlerò, come preferisco in questa circostanza, da persona che segue un iter iniziatico.

    E riprenderò, in questa direzione, il senso che espressi allora, al convegno su Meyrink nel 2012, senso centrato sul valore della Tradizione Primordiale, fonte della Philosophia perennis, cui aggiungerò ulteriori puntuali considerazioni.

    Forse perché sono anche un antichista, cercai e cerco di vedere da lontano il rapporto che la civiltà europea aveva stabilito col Sacro nei secoli dell’era contemporanea, quella dal XIX al XXI. A questo scopo, per poterne delineare succintamente i caratteri, ne tracciai il confronto con l’Evo Antico. Mi issai sulle spalle di giganti e feci riferimento a considerazioni di autori quali Stanislas de Guaita¹, Bernard Shaw², Nicolaj Berdjaev³, Aldous Huxley⁴ e Seyyed Hossein Nasr⁵.

    Riassumo brevemente.

    Dopo aver reciso i legami col Divino, l’Europa, e con essa l’Occidente tutto, perse il riferimento al Sacro e cadde in una forma di agnosticismo razionalistico, che sfociò politicamente nella nascita dei regimi democratici, in cui le scelte erano determinate dalla maggioranza degli elettori. Quindi si governò e si governa su base meramente quantitativa, senza riguardo alla qualità delle scelte stesse.

    Questa forma di stato si accompagnò a uno sfruttamento spietato sia della popolazione economicamente più debole, oppressa nelle fabbriche, sia dei popoli militarmente più deboli, dominati nelle colonie, sia della natura tutta, saccheggiata delle sue risorse, poiché totalmente dissacrata.

    È, a mio avviso, appropriato parlare di barbarie per definire l’Europa del XIX secolo, perché non è necessario aver letto Germinal di Émile Zola o i romanzi di Dickens per figurarsi le condizioni di vita inumane degli strati oppressi e sfruttati.

    La brutalità di quella barbarie generò frutti venefici, che recarono un apparente benessere, proprio grazie alla via di razionalismo intrapresa, attraverso la produzione industriale di merci, che, a sua volta, spinse a una corsa allo sviluppo esponenziale tecnologico, come non s’era mai visto prima.

    Proprio a proposito dello sviluppo tecnologico, che costituisce il tratto saliente di quell’epoca, già due anni fa, introducendo il convegno su Meyrink, richiamai la periodizzazione proposta da alcuni storici di scandire le vicende umane in due età: la prima, dalla preistoria fino al 1800, chiamata età agraria, e l’altra, di soli due secoli – il XIX e il XX, cui ora si aggiunge il neonato XXI – denominata età tecnologica.

    Per comodità, adotto ora questa periodizzazione.

    Il Sacro fu sostituito quindi, nell’età tecnologica, con la fede […] nel progresso, nell’umanesimo, nella scienza salvatrice, che costituì per l’uomo contemporaneo […] un idolo a cui sacrificare ogni cosa […] [poiché egli] crede nell’onnipotenza della tecnica, della macchina, nelle parole di Berdjaev.

    Ma questa fede s’incrinò fatalmente, quando quegli uomini che erano schiacciati nelle fabbriche furono mandati per anni nelle trincee e quella stessa tecnologia fornì i mezzi per massacrare forse più di 15 milioni di persone fra il 1914 e il 1918, nel conflitto che si può ritenere l’evento conclusivo del XIX secolo. Un secolo di barbarie si concluse nel modo più barbaro.

    Fu allora, nel crepuscolo fatale di quella fede, che sorsero, quali terapie, anche se con taluni caratteri opposti, due parodie delle religioni vere, due pseudo-religioni, che si presentarono come rimedio al declinare dell’agnosticismo democratico con le loro rispettive escatologie salvifiche.

    Infatti, l’insoddisfazione che la democrazia stava creando, a causa della sua crisi di credibilità, a cavallo fra la prima e la seconda guerra mondiale, aveva lasciato lo spazio perché dal suo tronco principale si distaccassero i due rami delle due ideologie del partito unico, che, del tronco principale, hanno conservato nel loro DNA l’attenzione per il collettivo (moltiplicazione dell’individuale su un piano orizzontale, anche se non solo come mera somma), escludendo il concetto di ascesa verso una realtà di ordine superiore.

    Il partito unico costituisce un’autentica parodia della Chiesa, perché, mentre questa è rivolta comunque al Divino, anche se la sua storia ha ben altro indirizzo, i due partiti unici, il PCUS, il Partito Comunista dell’Unione Sovietica, e il PNF, Partito Nazionale Fascista, di quella Chiesa entrambi imitarono soltanto impianto e struttura e non la verticalità, per quanto quest’ultima fosse, ormai da secoli, gravemente compromessa.

    Infatti, entrambi mirarono, rispettivamente, o alla realizzazione, attraverso la coercizione, di quella società in cui ognuno prende secondo i propri bisogni e dà secondo le proprie possibilità, o all’affermazione di una società, concepita come una specie darwiniana, in lotta con le altre specie, con l’affermazione di quella geneticamente più forte dal punto di vista dell’evoluzione.

    Erano nati, rispettivamente comunismo (1917) e fascismo (1922).

    Occorre sottolineare, con il massimo dell’evidenza, che non si possono considerare entità di ordine superiore le entità collettive, quali la razza, la nazione o il proletariato, che pur avendo proprie qualità intrinseche, non appartengono a un ordine superiore a quello umano.

    Trascurare questo fondamentale aspetto conduce inevitabilmente a scambiare lucciole per lanterne, con esiti inesorabilmente letali.

    Esiti letali, che si sono potuti constatare anche a livello planetario nella storia: infatti, nello scontro per le loro affermazioni, i due partiti unici aprirono il vaso di Pandora della seconda guerra mondiale

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