Moplen. Viaggio su un transatlantico di polipropilene isotattico
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Anteprima del libro
Moplen. Viaggio su un transatlantico di polipropilene isotattico - Giuseppe Corianò
Table of Contents
Giuseppe Corianò - Moplen. Viaggio su un transatlantico di polipropilene isotattico.
Moplen.Viaggio su un transatlantico di polipropilene isotattico.
Contro il vento
Moplen
Non sono mai stato di lunula storta
La gazza e il riccio
Zona franca
Il Tourmalet
Il giro di boa
Il cuore di Maria
Della mia feroce armonia
Per soli capi delicati
Passaggi
Niente altro che aria
Safari in salotto
Fiori d’arancio
L’attesa
Oggi non si fa credito
Il mio secondo lavoro
Evidenze di un banale cosmico
Agli dei piacendo
Ringraziamenti
Profilo biografico
Giuseppe Corianò - Moplen. Viaggio su un transatlantico di polipropilene isotattico.
Musicaos Editore, 2018
Narrativa, 18
Progetto grafico
Bookground
In copertina
Revac Film’s & Photography
Ogni riferimento a fatti, cose, persone, è da ritenersi puramente casuale.
Musicaos Editore
Via Arciprete Roberto Napoli, 82
Neviano (Le) – tel. 0836.618.232
www.musicaos.org
info@musicaos.it
Isbn 978-88-94966-077
Giuseppe Corianò
Moplen.Viaggio su un transatlantico di polipropilene isotattico.
Un sovrapporsi di emozioni che si rincorrono in modo caotico, un intreccio di storie lontane, un tentativo di specchiarsi nel buio del proprio essere, alla ricerca della parte di sé più nascosta.
Questo è Moplen
, un viaggio controvento, una partita contro il tempo, un cammino senza una vera direzione. È come entrare in un edificio in cui si aprono cento porte, senza poterne richiudere nemmeno una. Non ho fatto riferimento a luoghi specifici, seppure si tratti di luoghi reali, per evitare che i testi avessero una caratterizzazione locale.
Chiedo venia, se qualcuno dei miei lettori dovesse riconoscere situazioni, momenti, avvenimenti che lo possano riguardare, direttamente o indirettamente. Ho cercato di trattare con garbo tutto ciò che affiorava alla memoria, con l’unico scopo di fornire degli spunti di riflessione sulla natura umana e sulla complessità del vivere.
Dedico le pagine di questo lavoro a due amici dal cuore immenso: Antonio Martano, che era ed è parte di me, e Antonio Rosato, persona buona e di rara sensibilità.
Entrambi amavano la vita e si prodigavano per gli altri. Il destino non è stato generoso con loro e di questo non riesco a darmi pace. Qualunque sia la distanza che ora ci separa, li sento sempre vicini: so di trovarli nel fiato caldo di ogni mia parola e nel riverbero d’ombra di ogni mio pensiero.
"Se il mare fosse di sola sabbia
e i fiori fatti di pietra,
e nessuno di quelli che hai ferito
potesse mai guarire,
ebbene io sarei altrettanto disperato;
così mi sembrerebbe la vita,
se non avessi il tuo amore
a renderla reale"
If I didn’t have your love
Leonard Cohen
Contro il vento
Amo rimirarmi nel mio specchio interiore, che a volte va in frantumi e mi rimanda mille volti, mille frammenti di sguardi, mille ghigni beffardi.
Scrivere è la speranza vana di poter spostare, seppur di un niente, l’irremovibile. È come cercare di camminare legati a un enorme blocco di marmo. È un immane esercizio di fatica, è la condanna di Sisifo che spinge il grande masso sul crinale della montagna fino in cima, per poi vederlo rotolare giù, irrimediabilmente. E ogni volta curva la schiena, povero, per ricominciare da capo e ogni volta, in cuor suo, pensa che sia l’ultima.
È tutto così inutile, perché non c’è mai un’ultima volta ma solo una grande, fatale illusione. Mi chiedo il perché di questa lotta con la pagina, quando si presenta nuda e immacolata.
No, scrivere non serve a niente, non altera alcun equilibrio, non smuove di un millimetro le cose del mondo. È una medicina che non porta guarigione, un illusorio e inconcludente guado di tempo, uno squartamento lacerante dei giorni, un tentativo inutile di scavare la roccia per trovare l’acqua e bagnarsi la gola, nella speranza di rischiararsi la voce e di rendere vive le proprie parole.
Qual è il senso di questo battagliare contro il vento e non solo contro i mulini, di che cosa possiamo parlare e cosa possiamo raccontare?
Il sogno di libertà di un prigioniero, forse, o la sua voglia di riabbracciare la vita e di risentire sulla propria pelle l’emozione di una carezza.
A cosa potrà servire, dire dell’ultimo pensiero di un condannato prima del patibolo. Chi potrà mai sapere quale sarà l’ultimo bagliore di luce che vedranno i suoi occhi e quale sarà, infine, l’ultimo sussulto di paura che strazierà il suo cuore.
La mia scrittura ha il fiato corto. Perciò non cercate grandi storie nelle mie cose, né trame con effetti speciali e finali a sorpresa. Non cercate descrizioni di paesaggi lunari, di paradisi perduti e mai ritrovati o racconti di elfi che forgiano spade e poi si trombano le fate. Non cercate vendicativi incroci di esistenze, il cuore di ghiaccio degli assassini o finestre spalancate sui cortili.
Scrivo solo per me e per nessun altro, così appago e tengo a freno il mio indomito narcisismo. Il foglio bianco è una sorta di specchio in penombra, in cui si riflettono le mie paure, i miei sguardi più torvi, la parte di me più nascosta. Il volto che mi rimanda ha tratti incerti, un profilo indefinito e occhi sfuggenti che quasi mai reggono gli sguardi.
Scrivo solo per liberare dai chiusi recinti i miei pensieri, che così si illudono di respirare aria di libertà. Tanto non potranno andare da nessuna parte, gravati come sono dal peso insopportabile delle gocce d’inchiostro.
La mia fantasia è scarna e la mia vena creativa è sempre alle corde e annaspa. Il reale mi sovrasta e non lo posso fermare. I tentativi di rinchiudere lo spicchio di mondo in cui mi tocca vivere in un misero giro di parole, sono semplicemente patetici. Non seguo una strada o un percorso, ma procedo a tentoni e un po’ al buio. Qualche volta inciampo e rischio di finire per terra, come mi capitava da piccolo, quando inseguivo un pallone su uno sterrato precario, con spuntoni di roccia.
È un piacere sottile e solo mio, è una sofferenza coriacea e solo mia. È un gioco faticoso ed entusiasmante, di solitaria compagnia: senza regole, senza vincitori e senza vinti. È come vivere in libertà dentro una prigione, è l’ora d’aria del carcerato, il rifugio asfittico in cui provare a nascondersi, un modo disperato di dare luce alla cupezza dell’ombra, di dare smalto allo stanco svanire dei giorni e un po’ di vigore alle fragili scorribande delle emozioni.
È un susseguirsi di contrasti che certificano con eleganza il proprio fallimento o che rimarcano i contorni incerti di un’euforia. È l’esercizio elegante di chi perde, il sigillo della resa, l’atto che sancisce una caduta rovinosa oppure il tentativo di rialzarsi, per ridare fiato alla speranza e riprendere, con rinnovata lena, a scavare le fondamenta di un nuovo, incredibile e irresistibile abbaglio.
Il reale ci sovrasta e non lo possiamo contenere.
La vita fluisce nel suo moto eterno e noi pretendiamo di ritagliarla per metterla in cornice. È cosa vana, viviamo di speranze pretenziose. È impossibile cercare di fermare l’impetuosità del vento con lo scudo delle nostre sole mani, o pensare di poter svuotare gli abissi dell’oceano con il vetro trasparente di un bicchiere.
Nulla si può raccontare di quello che succede realmente. Perché il reale sfugge e si cela agli occhi. Nulla si può dire di ciò che è stato, di ciò che è e di ciò che sarà, perché il tempo non si fa contingentare e neanche irretire.
La vita è un gioco solitario, un attraversamento di deserti, una sfida all’ultima follia. Vivere è un passaggio, non un atto di permanenza, un incredibile e irripetibile passaggio: sorprendente, coinvolgente, trasversale.
È tutto un grande gioco. A rimpiattare, a cercare, a scoprire. È un intreccio di strade, di incontri, di traiettorie. Un susseguirsi di percezioni per sfamare i nostri sensi e di emozioni che esaltano e devastano il nostro cuore. È un grande film, un incontenibile spettacolo a cui prendiamo parte, come anonime comparse.
Siamo momentanei, transeunti, attimi di un infinito divenire e solo il nostro pensiero ci salva e al tempo stesso ci condanna. La consapevolezza della nostra marginale presenza nel volgere dell’incommensurato, serve a poco. Il mondo andrà avanti anche quando noi non ci saremo più e ci saranno gli altri. Perché gli altri saranno come noi e noi continueremo a vivere negli altri.
Avevano ragione i vecchi greci: in questo moto perpetuo niente nasce e niente muore, niente permane o è uguale a se stesso, ma tutto cambia e tutto si confonde.
E allora?
Allora siate delicati con me. Non svegliatemi, se dormo. Non interrompete i miei sogni. Lasciate che si dipanino lentamente, con la leggerezza del pensiero; lasciate che vaghino sospinti dal vento con la leggiadria di una piuma.
Non svegliatemi, se dormo. Per favore, nessuno recida il filo invisibile che mi lega a ciò che sono stato, allo stupore degli occhi e all’incanto di un cielo infinito. È l’unica strettoia che mi può condurre alla vita di allora, al sorriso di mia madre e al calore dei suoi abbracci.
Siate generosi con me. Non intralciate il mio cammino, non mettetevi di traverso. Non chiedo nulla, se non di poter ritornare sui miei passi per riavvolgere, di tanto in tanto, il nastro del tempo. Lasciate campo al mio bisogno di vendetta e alla mia illusione di colpire alle spalle, ancora per una volta, il passare dei giorni che si fa beffe di noi, che ci annienta, che azzera le nostre emozioni.
Lo so che non serve a niente. Ma io adoro l’inconsistenza e l’inutilità di certi pensieri. Io adoro tutto ciò che non serve a niente.
Delle volte, vivo solo di questo. Sono ingenuo, privo della malizia necessaria per stare sempre a galla. Ho poche frecce al mio arco e non ho la lucidità per colpire nel segno. Mi trema il polso e il mio occhio non è determinato. Una freccia lanciata male diverge con la sua traiettoria e non raggiunge mai il suo obiettivo. Perdonate la mia imperizia. Perdonatemi tutto, se potete: i vaneggiamenti, le ossessioni, i momenti di patetica nostalgia.
Cercate me dietro ogni fiato di parola, cercate me dietro la più pallida emozione, la felicità più ingenua, la fortezza più indifesa, il silenzio più assordante.
Cercate me in queste pagine e null’altro.
Io volo basso e so solo sputare l’anima scrivendo.
Moplen
Aprì una finestra sul mondo e si mise a guardare il profondo verde della campagna e la bellezza diafana del cielo. Gli sfilarono davanti le immagini più incredibili e così vide gnomi, col sangue agli occhi, inseguire giganti che se la davano a gambe.
Il coraggio non lo misuri in centimetri – disse a se stesso – e la viltà la puoi trovare alle più soverchianti altezze.
Era dentro la meraviglia di un sogno che dava consistenza all’evanescente e materia alle astrazioni che prendevano vita magicamente, davanti ai suoi occhi.
Così vide il perdono accoppiarsi con la colpa, e la giustizia amoreggiare coi reati.
Non è possibile!
Esclamò.
Poi si stropicciò gli occhi, incredulo e pensò che tutto si fosse capovolto.
La sua mente era un fiume in piena, straripante di iconici ossimori, e gli riuscì di guardare la pace dal mirino di un fucile automatico e la notte, cupa e scura, illuminata dai bengala, in lontananza.
Vide il più potente dei re, in un accesso di bontà, inchinarsi al cospetto di un mendicante e i fiori più profumati crescere nel cratere provocato da un’esplosione. Osservò persino il nero del male, intento a darsi una mano di bianco per rifarsi una verginità, alla vista dei creduloni.
Lui però lo riconobbe e lo maledisse.
Ora è tutto più chiaro. L’armonia non può che soccombere sotto le carezze del caos.
Voltò lo sguardo da un’altra parte ed era già domani.
Una gazza infieriva su un riccio spiaccicato sull’asfalto, macchiato di sangue. Così va il mondo, gli sciacalli hanno ragione e la colpa è di chi se ne va.
Fu colpito da quello strazio e dall’atroce conflitto di prospettive di una scena così cruda: c’è sempre chi gozzoviglia e banchetta sulla fine degli altri.
Capì allora che la morte arriva veloce e improvvisa come un rombo di tuono, non lascia scampo e può avere il sapore di gomma pneumatica e di lamiera contorta.
Poi cavalcò il tempo all’indietro e vide delle bolle di sapone che fuoriuscivano dalle orecchie di un bambino.
Quel bambino sono io.
Pensò.
Era proprio lui. Aveva i pantaloni corti, i ginocchi ricamati di croste e di sangue, i capelli lisci e un ciuffo moderatamente ribelle sulla fronte, a solleticarla.
I fotogrammi delle sue tante vite gli scorrevano davanti. Avvertì l’odore acre delle nebbie di fumo che salivano fino al soffitto di un bar di paese, le voci accatarrate dei raffinati bevitori di vino e l’elegante, innata delicatezza, del loro bestemmiare. Gli sembrò di sentire il dolce calore della pelle di sua madre, in quelle rare volte che si era perso in un abbraccio, e di udire la voce rassicurante di suo padre, mentre lo accarezzava con le grandi mani ruvide di fatica e sempre pronte all’indulgenza.
Vide anche una serpe nera che strisciava, sibilando, nel rosso della terra, e la zappa di un contadino che le recideva la testa. Ebbe un piccolo sussulto di paura che si confuse, un attimo dopo, con il forte odore di zolfo e di burrasca di un vecchio stabilimento termale, proprio a picco sul mare.
Era lo scirocco che abbatteva tutto il suo impeto sulla costa, spingendo le onde a infrangersi sugli scogli in un fragore esplosivo e devastante. Uno spettacolo di rara magnificenza e di sublime potenza gli si parava davanti. Quando la natura incute timore, ci fa sentire veramente poca cosa, al suo cospetto.
Imponenti colonne d’acqua si sollevavano all’improvviso come giganti furenti, prima di implodere con una violenza inaudita e liberare nell’aria miliardi di gocce che si disperdevano nel vuoto, divenendo vento e rabbia esse stesse.
Il cielo si confondeva con il mare e anche le nuvole parevano cedergli un po’ del loro biancore che si riverberava in lontananza, fin quasi a sfiorare la linea dell’orizzonte.
Si vide seduto su un gradone scavato nella roccia, nel turbinio di luce e di colori di quella burrasca settembrina. Dato che non ci si poteva fare il bagno, erano tutti appostati lì, quel giorno, per il gusto di farsi inondare dagli spruzzi d’acqua che raggiungevano altezze inimmaginabili.
Chiuse gli occhi e sentì i rimbombi della mareggiata che si inseguivano come colpi di mortaio, nell’infuriare di una battaglia. Ogni boato gli procurava un sussulto d’emozione, ogni boato era un inno alla vita. Che piacere sentire sul proprio corpo le raffiche di gocce che giungevano da ogni dove a inumidirgli le gambe, le braccia, il collo e le sue gracili spalle. Il viso, bagnato fradicio, pareva inondato di un pianto fatto di lacrime copiose e felici.
Fece il gesto di tirarsi indietro i capelli che gli coprivano gli occhi, giusto il momento prima di essere investito da uno scroscio vorace e imprevisto che spalancò le sue fauci e se lo trascinò dietro. Fu meno di un attimo e poi si perse nei vortici della tempesta, sballottolato e inghiottito dalla risacca come una barchetta di carta, fragile e indifesa. Non si rese conto di nulla, avvertì solo il profumo dell’alga e il sapore dell’acqua di sale che gli pizzicava la gola. Nessun pensiero gli balenò in mente in quei pochi secondi d’apnea. Il suo corpo volteggiava senza direzione, come se avesse perso ogni materialità. Si sentì un tutt’uno con le onde e si confuse col loro furore: un’assenza sospesa che vagava nel nulla, sospinta dalle