Il tramonto di don Giovanni
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Anteprima del libro
Il tramonto di don Giovanni - Mario Mariani
Il tramonto di don Giovanni
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright © 1925, 2022 SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728309834
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.
This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.
www.sagaegmont.com
Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.
PRELUDIO SINFONICO
Sulla soglia della vecchiezza
voglio cantare il canto disperato
dei miei amori morti.
È un canto più dolce dell’amore
perchè intessuto di ricordi d’amore;
barbaglio rosso che lascia il sole
dietro le palpebre calate.
Niente è più bello di ciò che fu bello.
Ogni dondolamento d’amaca
è struggicuore di nostalgia.
Io voglio dondolare l’anima mia
prima che dorma il suo sonno eterno,
senza rimpianti.
Voglio riandare tutti i sentieri
della giovinezza,
ricordare tutte le sere
profumate delle mie lontane primavere.
Lavoro di cisello, damascatura,
sbalzo e niello.
Taunare voglio, ageminare
ori ed argenti
su la lastra lucida della memoria,
incastonare asterie e margherite
stellanti o pallenti
sul vaghetto inconsutile della mia storia,
sul traliccio de la nostalgia.
Voglio filigranare
la tristezza dell’anima mia.
Non viene soltanto per le donne
l’età pericolosa.
Viene anche per noi, per quelli di noi
che non s’illudono,
il giorno in cui tutte l’ore
godute s’accagliano a groppo nel cuore.
Con i primi capelli bianchi,
con la svanita discioltura de’ muscoli,
con la luce che manca all’iride,
si dà un addio all’amore.
E chi dice addio all’amore
dice addio alla vita.
Dolce in quell’ora e amaro recitare
il rosario soave dei ricordi!
Confessione senza pentimento.
Trapuntiamo il tramonto
con le stille di guazza dell’aurora.
Ogni stilla è una conterìa.
Ave Maria de la sera — inno e preghiera —
Ave Maria.
lo voglio vergolare con gocciole di guazza
la tristezza dell’anima mia.
Ricordo.
Calava il tramonto sui viridari
abbandonati dai fanciulli,
sulle campagne diserte dai bifolchi,
sulle strade tortuose delle città tentacolari
ormai silenti,
non più rintronate dal rotolar dei carri,
dal trepicchio delle folle affaccendate.
Pareva che l’ala violacea della pace
calasse sul mondo ventilandolo
leggera e buona.
E allora,
nel primo dolce mistero dell’azzurro dorato,
si generavano improvvise ombre fuggevoli,
umane ombre che strisciavano, scivolavano
lasciando labili orme,
vanivano timide
rasente i muri,
entro cantoni oscuri,
dietro tronchi d’eucalipti,
oltre le siepi delle tamerici;
tenui ombre felici.
Visi diafani con gli occhi
folli di tenebrìa e di voglia
accennavano e scomparivano
fra i grappoli delle glicinie
e i ciuffi de’ gerani,
fra le bombole d’ortensia
e i corimbi d’ellera.
Mani esigue, esangui stringevano l’aria
in gesti spasimosi di richiamo o d’addio.
Ogni magalda urgeva verso il suo drudo,
ogni dama incontro al suo damo,
ogni fanciulla ansietava
il suo primo bacio,
ogni madonna si sommetteva al suo signore,
ogni cuore cantava in ebrietà
la sua canzone d’amore.
E la terra odorava.
E odoravano le stelle.
Un profumo snervante!
Lo portava il vento
d’oltremare e d’oltremonte.
Il timiama, il lattovario dell’universo
era fatto di polline di stelle,
di salmastro d’oceani, di fresco di nevi.
Tutta la terra odorava ed esalava
il suo respiro di foia
come un immenso incensiere
bruciato dalle fiamme del sole occiduo.
E i fumacchi salivano a variegare il cielo
— volgoli d’una nebulosa. —
Nel secreto della mezzaluce,
nel mistero della penombra,
si svolgevano i riti della teurgia prodigiosa.
Nel soffio d’amore,
per un miracolo d’elevazione teandrica,
la creatura s’indiava.
Treschieri e baldracche,
bimbe e farfallini, civette e cicisbei
turbinavano in un girotondo vorticoso,
ululavano in un baccanale orgiastico.
Senza tregua.
E tra loro non si vedevano.
Nessuno sa dell’altro.
Ciascuno crede d’essere da tu a tu
con la compagna velata,
nell’amore, nel peccato, nella fornicazione.
Ciascuno crede d’essere solo,
si lusinga d’essere solo.
E son tutti; è la vita.
Poi che la vita è amore, sensualità, fornicazione.
Tutta la vita.
Senza leggi, senza ritegni, senza pudori.
Con l’inganno e la menzogna,
il sotterfugio e l’ipocrisia
là dove la tradizione e il costume
impongono il ritegno e il pudore.
Maledetti gli dei che incatenarono l’amore.
Maledetti gli uomini che incatenarono l’amore.
Essi crearono la menzogna e il dolore.
La vita è sensualità, fornicazione.
Maraviglie,
avventure,
prodigi,
miracoli,
magie bianche,
magie nere,
incantamenti,
idilli,
tragedie
d’amore; questo è la vita.
E nient’altro.
C’è un viscidume di carezza umida
persino nell’aridità dell’odio.
C’è un formicolio elettrico di voglie
in ogni carne,
in ogni corteccia o tiglia o mallo,
in ogni cristallo.
Speranza d’amore è la fatica.
Spasimo di voluttà è l’arte.
Struggimento sessuale è la preghiera.
Erotismo è l’ambizione.
Si lavora e soffre,
studia e pena,
guadagna e spende
soltanto per piacere a una creatura
dell’altro sesso.
Ci si veste e sveste,
ci si lava e profuma,
pettina arriccia abbiglia agghinda
solo per richiamare gli sguardi
d’una creatura dell’altro sesso.
Tutto si riduce alla smania di quell’atto
che diciamo bestiale,
ma che tutti cerchiamo avidamente
e che è sempre bello divinamente
perchè, eternando la specie,
è la nostra unica immortalità.
La vita è accoppiamento.
Tale la verità nuda e cruda,
senza orpelli, senza abbellimenti,
senza infingimenti,
dietro le maschere, i siparî, i paraventi.
Ho guardato in faccia questa verità senza tremare
ed ho sentito che conteneva in sè
tutta la poesia del mondo.
Altri cerca la poesia
solo nel velo che la copre,
nell’ipocrisia
che la nega.
lo ho adorato il profumo diffuso degli amori
nascosti.
Poi che gli uomini, per la maledizione degli dei,
e la maledizione degli uomini,
sono crittogamici.
Ma io ho usolato dietro le porte chiuse
per scoprire i segreti meravigliosi della voluttà.
Uno sfrascare, un frusciare, un dimenio.
Murmuri, bisbigli, susurri.
Brulichio, bulicamento.
Poi uggiolìo, miaulio,
gemiti rantoli singhiozzi,
e uno strido, un urlo
che annunzia la vittoria della specie
sulla morte.
Tale per gli umani.
Anditi bui,
tratturi persi,
alcove ignote,
angiporti luridi,
persiane socchiuse,
tende e velari,
tutto nasconde l’ansimo d’un amplesso.
Avviticchiamenti,
strette,
carezze
di carni madide di sudore.
Tormenti.
Ciascuno di noi,
dal giorno della pubertà
al giorno dell’impotenza,
non vive che per questo.
Corre forsennato
da una posta a un appuntamento,
da un agguato a un convegno
come spinto dalla dantesca
bufera di demoni e di spiriti.
Irrequietezza, zurro, nevrastenia.
Sangue, senso.
La patria? Il paese delle nostre femmine.
La famiglia? L’harem delle nostre femmine.
La religione? La catena delle nostre femmine.
La bellezza? La forma delle nostre femmine.
La gloria? Il vischio per le nostre femmine.
E il ritmo va oltre noi,
s’estende a tutte le cose create.
È come una spirale semovente
che involge e trascina
nel vortice
gli esseri animati e inanimati
dell’universo:
microbi e nuvole,
fiori e stelle,
ali e pinne.
Sotto la coltre jemale della neve,
magicamente candida,
sotto la più vergine terra che sia sotterra,
ne la fervenza dell’uligine,
fumicano, vaporano gli amori de’ germi
che, al dimoio,
scoppiano, bucano l’altrice
coltre che li custodiva
e, in talli teneri,
vestono il mondo col verdegaio delle novali
e accestiscono
e dan fiori e frutti.
Persino ne le perdute gocciole
de l’acqua piovana, de la rugiada, de la brina
si rincorrono amebe,
si fondono e dividono monere,
pulsano vacuole di zoospore,
esplodono protomisse liberando
girandole folli di plasmodi.
Spore e bulbilli,
talee e margotti,
marze e stoloni
s’appiccicano e s’attorcono
in fremiti lunghi di fecondazione,
gli stami incurvano le antere sugli stimmi
con un contorcimento perverso di passione.
Corolle eliofobe
si schiudono e odorano
solo nel raggio lunare
vestendosi di bianchezze immacolate accecanti
onde richiamare
col profumo, col colore, col nettare
vanesse saturnie sfingi
pronube di lontani amori.
L’acqua, il vento, gli insetti, gli uccelli
divini paraninfi di nozze floreali,
portano nell’onda, nel nembo,
su l’elitre, su l’ali,
l’impalpabile polline
atteso avidamente
da ovari d’altre corolle.
La voce che divenne poesia, canto, sinfonia
l’ebbero gli esseri solo
per conclamarsi all’amplesso.
Le cavallette suonano il violino
sui propri stinchi onde adescare le femmine.
Variazioni in sordina di rosignoli,
muglio di tori, ronzio flebile di zanzare,
barrito d’elefanti, ululo di jene,
fischio di crotali, tubar di tortore,
rombo di mare, fragore diffuso del silenzio,
musica solenne dell’universo:
tutto è canzone d’amore,
universale e immortale inno d’amore.
E l’uomo l’apprese ne’ tempi de’ tempi
quando l’amore era libero,
quando la vita era luce.
Preludio d’amore è la danza;
balli di rondini nell’aria,
di zanzare, di farfalle, d’efimere
a fior d’acqua —
piccole creature che vivono una notte
d’amore e ne l’amore muoiono —.
Balli di attidi su le ragnatele,
di pesci, di salamandre,
di tritoni nell’acqua
scandono il ritmo di desideri rabbiosi.
E il nastro fosforescente delle nebulose
che abbraccia ne l’infinito i pianeti
e le stelle fisse,
le soffoca in un amplesso siderale.
E il gioco delle forze
centrifuga e centripeda
che regge il mondo
in mirabile e misterioso equilibrio
non è che la somma e l’uguaglianza
dell’amore e dell’odio universale
che bilica attrazione e repulsione
per la statica dei mondi.
Poi che anche l’odio è amore; è un aspetto
dell’amore.
Forza unica della vita,
vita della stessa vita,
legge necessaria, inevitabile, inviolabile,
maledetti coloro che tentarono d’incatenarti.
Tutto il dolore, tutta l’infelicità del mondo
nasce dall’ aver messo un prezzo alla donna,
dall’aver santificata la gelosia
per la donna che si paga.
lo voglio filigranare
la tristezza dell’anima mia.
Ricordare tutte le sere
profumate delle mie lontane primavere.
Voglio auspicare il tempo
in cui sotto l’ombre fronzute
dell’euforbie, dei sicomori, dei datteri,
tra profumi di cinnamomo e di mirra,
s’intreccierà gaiamente
la dicoria dei sessi
libera nuda
lungo l’acque di ruscelli canori,
su greti ingioiellati,
su tralicci di fiori:
possano amare i nepoti
senza gelosia, senza legge, senza ritegno
come gli atavi primigeni.
Voglio che il pianto della nostalgia
il rantolo dell’agonia
sia, per tutti gli umani,
una canzone d’amore,
di libertà.
PARTE PRIMA
POLVERE D’ARCHIVIO
L’Ave Maria di Cartafilo.
Era un re ed ebbe i suoi poeti, i suoi cantori, i suoi cronisti… veri ed apocrifi.
Sarebbe dunque, secondo costoro, tornato in Ispagna, a morire da buon cristiano, dopo una lunga sequela di viaggi e d’avventure.
Aveva di certo mutato nome e gli storici che, come i poliziotti, non ravvisano mai nessuno, lo scambiarono per un conte Don Juan Manara y Vincentelo de Leca; e gli ricamarono una seconda leggenda.
Eran biografi spagnoli del seicento e, durante il trionfo della reazione cattolica, di cui Ignazio di Loyola era stato il cervello e Teresa d’Avila il cuore, non si poteva ammettere facilmente che un peccatore non morisse pentito e monaco. Gli scrittorelli che cercavano il paradiso nei volumi del Guzman, del Suarez, del Mariana provvidero a spalancare le porte del purgatorio anche al mio grande avo. Il conte di Manara, dice la pia leggenda dei falsificatori, dopo un’ultima avventura da studentello crudele con Laura de Salazar, la figlia quindicenne di Don Pedro de Colluerdo, spinto dal destino, dall’ira del Signore, dall’uragano, si cacciò solo per le strade della Sierra Morena e fu raggiunto da un misterioso viandante che lo sorpassò e che egli con rabbia tentò disperatamente d’inseguire. Il viandante era Cartafilo. Pareva che entrambi fossero condannati ormai alla vita del turbine: colui che non aveva avuto pietà di Gesù il giorno della passione e colui che non aveva mai avuto pietà delle femmine che gli si aggrappavano alle ginocchia il giorno del congedo. Ma, nell’eterna angoscia dell’eterno andare, l’Ebreo Errante aveva una volta con cuore puro pregato la Vergine perchè intercedesse presso il divin figliolo onde gli fosse commutata o allievata la pena e Gesù, pur non potendo perdonare, gli aveva consentito cinque minuti di riposo ogni dodici ore; quando le campane dei villaggi del mondo suonano l’Ave Maria della sera e l’Ave Maria del mattino.
In un tramonto plumbeo e rosso di burrasca, fra i picchi della Sierra, mentre tutte le campane a valle suonavano l’ave, Cartafilo aveva rivelato a Don Giovanni l’esser suo e l’aveva convertito. Pochi giorni dopo — era la vigilia de la Pentecoste — un uomo scalzo e ravvolto in una cappa a sbrendoli entrava da la porta Aduana a Siviglia, attraversava la piazza di San Salvador e la Costanilla e andava a picchiare all’uscio della Confraternita della Carità.
— Sono don Giovanni Tenorio, l’Ebreo Errante mi ha convertito, vengo a domandare perdono a Dio e a scontare nella mortificazione e nell’umiltà i miei falli sterminati. —
Il priore, preavvisato da un sogno, lo attendeva, lo riconobbe subito, lo ricevè fraternamente e dopo aver lasciato che la fronte scottante del convertito gli posasse sul petto, lo baciò sulle due guancie e gli fece rivestire il rozzo saio crociato dell’Ordine.
Egli sarebbe sepolto nel chiostro del convento, sotto una pietra tombale che porta scolpita l’epigrafe da lui dettata prima di morire: « Riposano qui le ossa del peggior uomo del mondo, il potente signore don Giovanni Manara, cavaliere dell’ordine di Calatrava, provinciale della santa Confraternita della Carità, in Siviglia ».
Superfluo osservare che in tutto questo guazzabuglio non c’è una sola parola di vero; la tardiva leggenda del Manara s’è aggrappata all’autentica storia del mio illustre avo come sterpaglia alla rupe. Il solo biografo informato e sincero di Don Giovanni è Tirso da Molina, sempre che El Burlador de Sevilla non sia di Calderon come tenderebbero a credere alcuni critici moderni, fra i quali il Farinelli. El Burlador, a ogni modo, sia di Tirso o di Calderon, è documento degno di fede poi che il dramma fu scritto nel milleseicentoventisette o ventotto, cioè pochi anni dopo la morte dell’eroe e quando delle sue prodezze e avventure, della sua gesta risonava ancora tutta la Castiglia e cominciava ad echeggiare l’Europa.
L’autore ebbe dunque campo ed ebbe anche la buona ventura di raccogliere dalla viva voce di coloro che l’avevan conosciuto e ch’eran stati testimoni oculari delle sue imprese, tutti i particolari riguardanti il suo protagonista.
I biografi venuti dopo invece — Lenau, Byron, Zorilla, Mozart, Dryden, Fletcher, Wycherley, Shadwell, Mauthier, Helbig, Baudelaire, Grabbe, Villiers, Zamora, Cardenas — non hanno fatto che aggiungere l’acqua o il vino della loro fantasia all’essenza di una vera vita. Del resto che cosa è la storia? Spesso, panneggiando i fatti con i colori dell’arte, si finisce a respingerli nel mondo dei sogni e talvolta, documentando seccamente i parti del nostro cervello, si riesce a dar loro parvenza di realtà. Era naturale, d’altra parte, che gli scrittori si gettassero avidamente sulla figura di Don Giovanni anche a rischio di guastarla. Sgorghi dalla storia o dalla letteratura, un tipo di perfetta umanità è una gemma talmente rara che ciascuno cerca d’incastonarla nel proprio anello.
La Spagna ci ha dato Don Chisciotte e Don Giovanni, l’ Inghilterra Amleto e Otello, Lord Henry e Dorian Gray, la Francia Pantagruel, la Germania Werther; l’Italia, prima d’Alessandro Manzoni, non era ancora riuscita ad elaborare un tipo, col Manzoni ne ha dato al mondo almeno tre: Don Abbondio, Fra Cristoforo e Don Rodrigo; la Russia ci ha dato con Dostoievski il principe idiota e Rascolnicov.
Ma i letterati che s’innamorarono di Don Giovanni per la su esposta plausibilissima ragione credettero di poter scusare le loro favole e le loro ciancie appunto spogliando d’ogni storicità la figura del Tenorio e assicurando che Don Giovanni è soltanto un tipo, un personaggio da leggenda, mito, simbolo e che, come tale è d’ogni tempo e d’ogni paese. E qui sta l’errore. Sarebbe come scambiare l’importanza della Pulcella d’Orléans con quella di Giulietta, la storicità di Bajardo con quella d’Amadigi di Gaula.
Intanto don Giovanni Tenorio non può essere che un hidalgo castigliano, mancese o estremegno del tempo di Filippo II e io stesso che mi vanto d’aver parecchie gocce del suo sangue nelle vene non ho mai pensato di potergli assomigliare altro che lontanamente; io ho altre qualità e altri difetti.
Però coloro che han la mania di merlettare la storia o di falsificare incunabuli, codici o che, scherzosamente, alla maniera di Poggio Bracciolini, fabbricano testi latini o interpolazioni a maggior gloria di Dio e de’ loro eroi, sarebbero capaci di regalarci col tempo un Don Giovanni che fa tutt’uno con Paracelso e Balsamo, con Giacomo Casanova e il cavaliere di Faublas. E dopo bisognerebbe diventar il Niebuhr o il Mommsen per raccapezzarci e distinguere.
Per fortuna gli archivi di casa mia sono ancora intatti e io provvedo a metter in chiaro le cose.
Genealogia di Don Giovanni.
Nacque adunque Don Giovanni Tenorio nel castello di Corìa del Rio, su le live del Guadalquivir, a valle di Siviglia, da Alonso Jorge Tenorio, cavaliere di Calatrava e della Ciarpa Azzurra e da donna Isabella de Barretos di nobilissima stirpe anch’essa, l’anno di N. S. 1580, ventiquattresimo del regno di Filippo il e nono del pontificato di Gregorio XIII. I Tenorio discendevano da Alfonso IX di Leon che, a un suo bastardo, aveva concesso un feudo di tal nome. La famiglia aveva già dato capitani di gran fama ed ecclesiastici e fu un arcivescovo Tenorio, come dice il Mariana, che tenne per tre giorni celala la morte del re Giovanni d’Aragona per dar tempo al legittimo erede di venire a impossessarsi della successione. La famiglia quindi non è sbocciata dal cervello di Tirso da Molina. Nè tampoco l’eroe. Come vedremo.
Alonso Jorge, il padre di Giovanni, buon soldato e buon cattolico, non sprovvisto di ottimi studî, dopo essersi licenziato a Salamanca, passò al servizio del Re e venne in Italia al comando d’una bandiera di fanti spagnuoli che, sbarcati a Genova nel 1567 e fatto campo un Alessandria e Asti dove s’accozzarono c< altre bandiere di fanti e cavalieri italiani svizzeri albanesi, trassero, per il Piemonte e la Borgogna, all’esercito del duca d’Alba in Fiandra. Partecipò per anni, Alonso Jorge, alle stragi dei riformati fiamminghi che infamarono il duca e la Spagna, vide decapitare, senza batter ciglio, il duca d’Orne, il conte d’Egmont e altri seicento eroi rei di difendere la libertà del loro paese e della loro coscienza, e poi passò di nuovo in Italia e precisamente nel vicereame di Napoli, ai servizi del duca di Gran Vela.
Faceva centro in Napoli lo sforzo contro Alì; era l’anno di Lepanto. E Alonso, colonnello del terzo reggimento di fanteria spagnuola nel quale militava, da semplice alfiere, don Miguel Cervantes de Saavedra, s’ imbarcò sopra una galeazza del bastardo del Re, l’eroe giovinetto Don Giovanni d’Austria.
Ai sette d’ottobre, prima domenica del mese, giorno dedicato dai domenicani alla processione del Rosario, trecento vele turche incontrarono nel mare delle Curzolari la flotta cristiana, inferiore di numero, ma non di maestria e d’ardimento. Agli ordini dell’ammiraglio ventenne obbedivano Sebastiano Veniero con le galeazze di San Marco, Giann’Andrea Doria con quelle di San Giorgio, Marcantonio Colonna con i vascelli pontifici. Erano fra i semplici venturieri, con comandi in sottordine, Alessandro Farnese principe di Parma e Francesco Maria della Rovere duca d’Urbino. Parve dapprima il vento esser favorevole alla mezzaluna, poi le si oppose. Per tre o quattro ore sembrò indecisa la battaglia orribile. Gli Allah Hu degli ottomani coprivano il rombo delle artiglierie, lo scoppiettare degli archibugi, lo scricchiolante fragore degli arrembaggi. E, dopo, la sorte fu decisa.
Fra il fumo si vide sulla poppa della capitana di Don Giovanni, infilzata in una picca, la testa feroce d’Alì, spiccata dal busto e sanguinolente; le vele turchesche si volsero in fuga mentre gli incendi le divoravano, colarono a picco fra l’urlio spaventoso delle ciurme fatte a pezzi dai vincitori e il grido di libertà e di vittoria degli stessi galeotti cristiani i quali, liberatisi dai ceppi, combattevano per il nemico. Cento vascelli turchi s’inabissarono nei gorghi arrossati dal sangue di ventimila morti, cento furono catturati e pochi si salvarono sbandando malconci.
Tra le navi turchesche che si salvavano però una traeva con sè ferito di due pallottole di moschettone il colonnello Tenorio; anche Cervantes era rimasto ferito di piombo al petto e aveva avuta stroppiata la mano sinistra « a maggior gloria della destra » come ebbe a scrivere più tardi, quando firmava le sue lettere con scherzoso orgoglio « il monco di Lepanto ».
Fu liberato il padre del nostro eroe dopo la vittoria della Goletta e tornò a Napoli nel 1573 accolto onorevolmente dal nuovo governatore Don Innico Hurtado de Mendoza che gli concesse un feudo tra Montesarchio e Benevento. Chiamato in Ispagna vi si ammogliò lasciando la cura del suo feudo italiano a un lontano parente. Partecipò ancora alla spedizione di Portogallo e dopo la vittoria di Grato entrò a Lisbona al seguito del duca d’Alba e del marchese di Santa Croce. Poi si ritirò definitivamente nel castello di Corìa a raccontare all’unico figliolo, Don Giovanni, le sue avventure di terra e di mare e a mettere nelle sue mani di fanciullo la mazza e l’ascia che aveva maneggiato a Lepanto e la spada che aveva in Fiandra e in Portogallo massacrato diecine di nemici della Spagna, del Re, della Fede.
La cavalcata del vicerè.
Don Pedro Fernandez di Castro, conte di Lemnos, di Andrade e Villalba, entrato nel porto di Napoli ai venti di giugno dell’anno milleseicentodieci, attraccò davanti all’isola di Procida e prese alloggio in una magnifica villa onde dar modo al conte di Pimentel, vicerè deposto perchè caduto in disgrazia alla corte di Madrid, di fare a suo agio i preparativi della partenza.
Il conte di Pimentel salpò con tre galeazze agli undici di luglio e gran ressa di popolo si adunò alla riviera di Chiaia, vicino al ponte novo, per salutare rispettosamente con manifesti segni di rincrescimento e di cordoglio, uno dei pochi vicerè che non aveva taglieggiato aspramente lo Stato dando anche serie prove di affetto alla città.
Aveva infatti egli costruito la strada di Santa Lucia, la strada di Poggio Reale e la porta di borgo a Chiaia che da lui prese il nome di porta Pimentella; aveva protetto le arti, il commercio, amministrato severamente la giustizia pubblicando quaranta nuove prammatiche, e la contessa, sua moglie, era stata una vera provvidenza per i poveri.
Si temeva invece del nuovo venuto di cui si sapeva ben poco. Egli manifestava una grande ammirazione per Napoli che con le parole di Cervantes, suo protetto, che gli aveva dedicato la seconda parte del Don Chisciotte e le Novelas Ejemplares, chiamava « ciudad a mi parecer y al de todos quantos la han vista la mejor de Europa y aun de todo el mundo »; ma il popolino avvezzo a mali esempi e diffidente, non gli faceva buon viso.
Ciò non ostante, la Cavalcata che, dopo il ricevimento al ponte, era la cerimonia più solenne della nuova investitura, riuscì splendida e degna del suo casato e della magnificenza spagnuola. Il popolo vi accorse per curiosità. Vi accorsero anche gli uomini di studio che, sapendosi la sua amicizia per Cervantes e la sua conoscenza delle buone lettere italiane, si ripromettevan grandi cose dalla sua protezione. Eran già stati a Procida a fargli omaggio Giambattista Marini, Francesco de Petris, Ascanio Colelli, Paolo Marchese, Ottavio Sbarra, Giambattista della Porta, Pietro Lasena, Antonio Arcudio, Camillo Pellegrino e quanti altri godevan fama di sapere ed eran stimati uomini di talento. Andavano con una specie di mal dissimulato orgoglio in quanto l’Italia del Rinascimento aveva preso sugli invasori spagnuoli la stessa vendetta che aveva preso Atene su Roma. Dai tempi di Garcilasso, la Spagna che dominava nel vicereame e nel ducato di Milano, e disponeva a suo grado anche del resto della penisola, era in fatto di arte diventata una colonia italiana, si nutriva di petrarchismo e leggeva soltanto traduzioni del Sanazzaro, di Bernardo e Torquato Tasso, di Luigi Tansillo, dell’Ariosto. Cominciava a pena a pena, proprio in quei giorni, a battere una strada sua, nel teatro; nascevano Lope de Vega, il Calderon e Tirso da Molina.
Si svolse la cavalcata dal Ponte a Palazzo pei le strade di mezza città. La precedeva la carrozza della contessa trainata da sei magnifici morelli. Veniva poi in testa a tutti sopra un roano bardato di gualdrappe di seta, il nuovo vicerè con alla destra il duca di Maddaloni e alla sinistra il sindico. Dietro subito caracollavano i cinque eletti delle piazze, i reggenti del Collaterale e della Sommaria, il maestro nobile della Santissima Annunziata, i capitani delle strade, e une stormo d’ufficiali e magistrati. Partecipavano alla cavalcata il gran cappellano e cardinali e vescovi e persino i dottori del Ginnasio, vestiti anche essi alla spagnolesca, con l’insegne della facoltà: bianca e nera i teologi, azzurra e gialla i filosofi, verde o rossa i legisti e i canonisti. Tra i nobili e i dignitari napoletani, indicava il popolino, con mormorii di ammirazione o per le cavalcature o per gli abiti: Don Luigi Caraffa principe di Stigliano, Don Luigi di Capua principe dell’Ariccia, Don Filippo duca di Sermoneta, Don Carlo Spinelli principe di Cariati, Don Francesco Maria Caraffa duca di Nocera e marchese d’Anzi, Don Gian Tommaso di Capua duca di Rocca Romana, Don Fernando della Marra duca della Guardia, Don Giambattista Caracciolo, Don Francesco Brancaccio, Don Ettore Pignatelli e Don Francesco Capecelatro il giovanissimo istorico che doveva poi lasciare di sè sì gran rimpianto.
El gastador de mujeres.
Fra i gentiluomini spagnuoli, alcuni dei quali assolutamente ignoti, che cavalcavano al seguito del conte nel gruppo di testa, spiccava più di tutti e da tutti veniva ammirato, un cavaliere sui trent’anni che guidava, con rara maestria e disinvoltura, un leardo di Lusitania balzano da tre e con la stella in fronte, cavallo da re.
Per vezzo, sorridendo, lo faceva recalcitrare, l’impennava, l’obbligava al raddoppio, alla corvetta, alla sgroppata, poi, senza scomporsi, con un lieve raddolcir di redini, lo rimetteva a un trotto calmo d’impeccabile ritmo. Magnifica da quanto l’animale era la bardatura: barbazzale e frontino d’argento, parocchi di lupo di mare tempestati di perle scaramazze, gualdrappe di seta rossa e bianca filigranata di conterie, criniera e coda infiocchettate, arcione andaluso di marocchino bulinato, staffe di vermiglione. Il cavaliere, senza morione, aveva il capo coperto da un ampio sombrero, larghissimo di falda e ornato di piume versicolori terzate alla vallona; nel mezzo della falda, rabbattuta sul davanti, splendeva una turchese di Zamora. Sfuggivano dal cappello i lunghi riccioli bruni a inondare il grande colletto di pizzi di Fiandra e la cappa bianca dei cavalieri di Calatrava crociata di rosso sulle spalle. Di sotto il colletto sfuggiva il Toson d’Oro. Scintillava di gemme la gamurra di velluto lionese e di gemme il tahaìl che reggeva la spada corta milanese con l’elsa damascata a Toledo e la guaina tempestata di carbonchi.
La destra che reggeva le briglie era inguantata in un guanto di canguro alla scudiera profumato d’ambra e la sinistra, nuda, poggiava sul fianco ed era bianca e fine come la mano di una dama e risplendeva di gemme. Gli stivaloni alla svizzera lucevano come specchi e gli speroni