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An italian story
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E-book454 pagine6 ore

An italian story

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Info su questo ebook

An italian story descrive una vicenda di giochi di potere, manovre economiche e finanziarie, intrighi amorosi tra Milano, Roma, Tokyo, Seul. Un thriller economico-politico, con intrecci di storia romantica. Il tutto sullo sfondo dei valori morali del bushido, il codice degli antichi samurai e dello stile letterario del teatro Kabuki, fatto di repentini cambi di ritmo, di sorprendenti colpi di scena e di personaggi che interpretano vari ruoli e di cui si scoprono incredibili segreti.
La vicenda si svolge in un periodo recente di storia italiana che viene riletta e reinterpretata in chiave di presa definitiva del potere da parte di forze – da sempre presenti nell’organismo sociale ed economico dello Stato e della società – che si coalizzano per realizzare i loro fini senza mai uscire allo scoperto. Questa storia lega episodi economico-criminali sconcertanti che affiorano qua e là come punte di iceberg apparentemente incoerenti, in realtà sapientemente governate da una logica ferrea ed antica.

John K. Whites è lo pseudonimo sotto il quale si cela un giornalista economico-politico americano e un dirigente di multinazionali italiano, che hanno operato in Italia e in Giappone. Sono stati spettatori delle stesse vicende e, anni dopo il loro svolgersi, si sono casualmente incontrati e hanno constatato che davano letture dei fatti accaduti abbastanza diverse da quelle ufficiali. 
LinguaItaliano
Data di uscita19 lug 2018
ISBN9788856791990
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    Anteprima del libro

    An italian story - John K. Whites

    © 2018 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l., Roma

    info@gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-567-9199-0

    I edizione gennaio 2018

    www.gruppoalbatros.com

    Libri in uscita, interviste, reading ed eventi.

    An italian story

    Questo romanzo è un’opera di pura fantasia. Personaggi, fatti e luoghi citati sono invenzioni dell’autore. Qualunque analogia con nomi, luoghi, fatti e persone, vive o defunte, è assolutamente casuale. Fanno eccezione pochi riferimenti a grandi realtà o fatti storici, o località famose, totalmente estranee allo svolgersi dell’azione inventata, citate con il riferimento reale al fine di contestualizzare l’azione e conferire veridicità alla narrazione.

    ANTEFATTO

    Key West, Pontile su Front Street

    Dal Southermost Point di Key West, dove svetta la bandiera a stelle e strisce a segnare il punto più a sud degli Stati Uniti, avevo percorso tutta la Whitehead Street, passando davanti alla Ernest Hemingway Home and Museum, fino ad arrivare al traballante pontile in legno che si affacciava sul mare rivolto ad ovest.

    Lungo il percorso ero stato fatto oggetto di attenzione da parte dei passanti che incrociavo. Mi guardavano con simpatia, e qualcuno accennava un sorriso, come se mi conoscesse. Mentre la mia perplessità cresceva, una tipica vecchietta americana con i capelli rosa e un grande paio di occhiali da sole a farfalla tempestati di lustrini, che aveva l’aria di godersi la pensione del suo terzo marito, mi chiese:

    «Are you here for the contest?» (Sei qui per la gara?).

    Non trovai di meglio che rispondere con un sorriso ebete.

    Pochi metri più in là mi imbattei in un cartellone dove campeggiava una delle foto più note di Hemingway, quella con il maglione bianco a collo alto, e in calce le indicazioni di una gara tra sosia del grande scrittore, il Papa Hemingway Look-Alike Contest, che si sarebbe tenuto di lì a qualche giorno, allo Sloppy Joe’s Bar. Scoppiai a ridere.

    In quel periodo, in effetti, portavo la barba tagliata in un modo che rassomigliava vagamente a quella del celebre Ernest e i capelli imbiancati anzitempo facevano il resto. Mi rassegnai a quel momento di notorietà distribuendo sorrisi sicuri a chi mi guardava incrociandomi.

    Arrivai al pontile che pochi anni dopo sarebbe stato spazzato via dall’asettico Westin Key West Resort & Marina, e sedetti su una vecchia panca di legno; ordinai una birra e un piatto di gamberi lessi.

    Il sole si stava lentamente abbassando e mi apprestai a gustare l’incanto del tramonto sull’oceano.

    Mi misi a cavalcioni della panca su cui sedevo, appoggiando la schiena contro la parete di assi un po’ sconnesse.

    Socchiusi gli occhi guardando verso il sole che si accingeva a tuffarsi oltre l’orizzonte. Mi resi conto che qualcuno mi stava osservando, mi voltai verso sinistra e scoppiai a ridere simultaneamente alla persona che mi stava osservando. A un metro, seduto anch’egli verso il tramonto, un signore decisamente più anziano di me, ma ben vigoroso, con una barba simile alla mia e una capigliatura molto somigliante a quella di Hemingway.

    «Are you here for the contest, Ernest?», mi venne naturale chiedere.

    «Of course not, Ernest!», mi rispose l’altro con una decisa stretta di mano.

    Dopo due minuti, lui era Ernest US ed io Ernest IT.

    Scoprii che era stato un giornalista economico-politico, ora in pensione, che aveva speso tutta la sua carriera all’interno di una notissima agenzia di stampa americana.

    Aveva tra l’altro vissuto quindici anni a Roma e quattro a Tokyo, ed era rimasto affascinato dall’Italia e dagli italiani, come pure dal mondo giapponese, così antico ma allo stesso tempo così moderno.

    Lo misi a parte della mia permanenza in multinazionali e della mia esperienza giapponese.

    Nei giorni seguenti durante lunghe pigre passeggiate, ripercorremmo episodi della vita economico-politica italiana del decennio precedente. Ci rendemmo conto che su molti episodi convergevamo su letture abbastanza diverse da quelle ufficiali. Ci trovammo anche sostanzialmente d’accordo sulla interpretazione della realtà e dei valori giapponesi e scoprimmo di condividere un profondo rispetto per quella civiltà.

    Prima della fine della vacanza, Ernest US mi propose di scrivere un romanzo economico-politico su quel periodo di storia italiana che lui trovava di una complessità straordinaria ed affascinante, praticamente un thriller. Secondo lui bisognava che lo scrivesse un italiano in italiano per cogliere le sfumature che delineavano e ricreavano le atmosfere uniche di quegli ambienti. Si sarebbe poi potuto tradurre in inglese (e forse in giapponese) una volta pubblicato, se ci fosse stato interesse.

    Tagliando corto, mi propose di iniziare, lui mi avrebbe fornito tutti gli elementi di cui disponeva, delle tracce articolate, e avrebbe riletto e corretto le varie parti. Avremmo diviso a metà i proventi (se ce ne fossero stati) e mi proponeva anche lo pseudonimo sotto il quale pubblicare lo scritto, oltre al titolo: An Italian story.

    Io non resistetti alla tentazione e mi imbarcai in questa avventura.

    Ernest US ci ha lasciato qualche tempo fa, appena dopo aver rivisto le bozze dello scritto.

    Il suo esecutore testamentario mi ha fatto recapitare a Zurigo una cassetta contenente appunti, rapporti confidenziali dell’ambasciata USA di Roma e di Tokyo, registrazioni, video, trascrizioni di interrogatori e di interviste.

    Il tutto per un periodo di oltre trent’anni, dagli anni ‘80 al 2012.

    Penso, a questo punto, che Ernest US sia stato qualcosa di più di un giornalista politico-economico…

    John K. Whites

    Milano, novembre 2014

    CAPITOLO 1

    Ponte Chiasso, posto di frontiera italiano

    Luigi Conturso, appuntato della Finanza, osservava con attenzione le macchine che lentamente oltrepassavano la barriera, costrette dagli ostacoli a zigzagare. Faceva segno alle macchine di procedere dopo aver verificato colore e modello.

    Conturso e il suo capo, il maresciallo Lo Russo, erano in attesa di una Thema verde petrolio metallizzata, targata MI2A1085.

    Alla guida doveva esserci il Commendator Biringhelli, che era transitato alle 13:35 in entrata verso la Svizzera.

    Questo modo di operare derivava da un’azione di intelligence avviata dal capitano Franchi, responsabile operativo di frontiera da alcuni mesi. Il giovane e ambizioso ufficiale, non faceva fare un tot di controlli al giorno alla cieca, come era sempre stato fatto. I suoi uomini individuavano le auto che entravano da Ponte Chiasso e i cui passeggeri entravano nelle banche della Confederazione. Dai numeri di targa si risaliva ai proprietari, si controllavano le dichiarazioni dei redditi loro e delle loro aziende e – se ritenuti interessanti – venivano individuati quando passavano in frontiera e fermati al rientro. Era incredibile come molte persone recassero con sé documenti che permettevano di incriminarli per esportazione di valuta e costituzione di capitali all’estero.

    I suoi uomini lo assecondavano volentieri perché così lavoravano meno, andando sul sicuro, e il capitano aveva sempre fatto avere loro, ad ogni successo, premi sotto forma di indennità speciali o di licenze-premio.

    L’appuntato Conturso stava pensando che gli sarebbe piaciuto poter avere una settimana di licenza in più per la prossima Pasqua, alle spese dell’ignaro Commendator Biringhelli. Mentre era concentratissimo sulle auto che lentamente gli sfilavano davanti, si rese conto che alla sua destra si era materializzato il capitano che si rivolgeva al suo diretto superiore:

    «Lo Russo, vai a prenderti un caffè, sto qui io un quarto d’ora; è dalle due che sei qua fuori e oggi tira un vento…».

    Il maresciallo non se lo fece dire due volte, lui un caffè se lo prendeva proprio volentieri. Pochi minuti dopo, risalendo lentamente la coda, ondeggiando, arrivò un motociclista su una grossa BMW. Conturso notò che aveva un casco da easy-rider e stava per fermarlo, solo per dargli un po’ di fastidio.

    Il capitano in quel preciso istante gli chiese:

    «E allora, Conturso, cosa facciamo per Pasqua?», e contemporaneamente fece segno con la mano di procedere, proprio mentre sopraggiungeva la BMW. Il motociclista sfilò davanti ai due militari senza accelerare. Conturso restò con la mano a mezz’aria. Poco dopo ritornò il maresciallo ed arrivò anche la Thema del Commendator Biringhelli che fu sorpreso con un estratto conto miliardario e prontamente arrestato.

    Il motociclista nel frattempo aveva proseguito ad andatura tranquilla sull’autostrada verso Milano, era uscito al casello di Como Grandate e aveva svoltato per Castello. Prima di arrivarvi imboccò una stradina secondaria che lo portò presto davanti ad un’alta cancellata.

    Suonò il campanello: il cancello si aprì ed egli si inoltrò nel viale arrivando al retro di una villa settecentesca dove fermò la moto. Entrò in una vasta cucina e richiuse dietro di sé a chiave. L’uomo era enorme: non era molto alto, al massimo un metro e settantacinque, ma aveva delle gambe che sembravano dei prosciutti di ippopotamo e una circonferenza di almeno un metro e mezzo. Stranamente le braccia non sembravano così grosse ed erano sproporzionate rispetto al corpo.

    L’uomo controllò che la porta di comunicazione con l’interno della villa fosse chiusa, che le tende fossero ben tirate e con qualche impaccio si tolse casco e occhialoni. Aprì la lampo del giubbotto di cuoio che era molto spesso. Poi si tolse con difficoltà anche la salopette, spessa un buon cinque centimetri. L’uomo adesso era snello, senza un filo di grasso. Cominciò ad aprire varie lampo interne al giubbotto e alla salopette e ne estrasse pacchi di banconote da centomila lire, che ordinatamente impilò sul tavolone della cucina.

    Finita l’operazione richiuse tutte le lampo interne ed uscì. Cambiò la targa tedesca con una italiana, semplicemente girandola, ed avviò la moto. Quando fu davanti al cancello suonò brevemente il clacson: il cancello si aprì e il motociclista scomparve.

    Il cancello non si era ancora richiuso del tutto che dalla villa uscì un signore brizzolato, alto e asciutto, in doppiopetto grigio; girò con passo svelto intorno alla costruzione ed entrò nella cucina, richiuse la porta dietro di sé e, dando appena uno sguardo al tavolone pieno di denaro, andò alla porta di comunicazione con l’interno della villa e la aprì. Sulla soglia attendeva una persona, decisamente più giovane, con una valigia di cuoio. Senza dire una parola, con una velocità che tradiva una lunga consuetudine con operazioni del genere, i due presero a contare le mazzette di denaro. Il signore in doppiopetto terminò per primo, ed attese tranquillamente che l’altro avesse finito.

    Il più giovane si soffermò anche a controllare che le mazzette fossero composte interamente da banconote buone. Quando ebbe terminato, sollevò lo sguardo ed annuendo disse:

    «Va bene, due miliardi», e con gli occhi che gli brillavano proseguì: «per gli altri diciotto ci vediamo martedì prossimo a Zurigo: il Ministro mi ha detto che l’aria del Ticino non è troppo salubre in questa stagione».

    Riempì la valigia, poi insieme entrarono nella villa.

    Il signore più anziano, che mentre era nella cucina non aveva detto una parola, guidò l’altro verso un salone:

    «Un drink?».

    «No, grazie», rispose l’altro, «brinderò stasera con il Ministro».

    Si era intanto materializzata un’altra persona, evidentemente una specie di autista-guardia del corpo, che era rimasto tranquillo all’interno della villa, e gli fu affidata la valigia di cuoio.

    I due salirono sull’Alfa 164 blu che era parcheggiata in garage e partirono.

    Il signore in doppiopetto attese che la cancellata si richiudesse dietro l’Alfa, poi si diresse verso l’armadio-guardaroba che era nell’atrio, addossato alla parete che confinava con la cucina. Scostò alcuni impermeabili, fece scorrere il pannello di fondo e con movimenti precisi rimosse una cassetta da una videocamera che era appoggiata ad un vetro che dalla cucina risultava essere una striscia di decorazione nera. Portò il nastro in sala, lo inserì nel videoregistratore e lo avviò. Cancellò le sequenze in cui era comparso, e ripose il video in un contenitore di alluminio. Andò al telefono, compose un numero locale e, al barista che rispose, chiese di Lucio.

    Il motociclista rispose:

    «Ok, vengo subito», e dopo pochi minuti entrava nel parco della villa.

    Lucio sul tavolo della cucina raccolse la scatola di alluminio e una busta abbastanza voluminosa che infilò in tasca. Ripose il contenitore in uno scomparto segreto all’interno della borsa di sinistra della moto, e se ne andò. L’avrebbe fatto scivolare la notte stessa in uno sportello della Banca del Gottardo di Ponte Chiasso, dove si sarebbe recato in comitiva, con i suoi amici del bar ai quali avrebbe offerto da bere.

    Il signore in doppiopetto si versò un bicchiere di liquido ambrato, e si accomodò in una poltrona da cui poteva godere il tramonto tra gli alberi secolari del parco. Il dottor Sartori, così si chiamava, aveva appena concluso una delicata missione, vitale per la sopravvivenza del Gruppo cui aveva votato la propria esistenza. Mentre le ombre si allungavano nel parco, lasciò vagare il pensiero a ricordare episodi della sua carriera, svolta tutta all’interno del Gruppo, come era tradizione di famiglia.

    E come in un flash rivide davanti agli occhi uno dei momenti più strani della sua vita professionale. Un episodio emblematico che aveva segnato la prima vera svolta. Rivide lo stupore misto a paura dei suoi compagni di viaggio sul rapido delle Calabrie, quando il treno aveva fatto per lui una fermata in aperta campagna.

    L’inizio della storia risaliva ad anni prima, quando era da poco in forza all’ufficio del personale centrale del Gruppo. Una posizione grigia, ma ritenuta di grande fiducia data la delicatezza della materia e alla cui assegnazione certamente avevano pesato più del buon punteggio di laurea in Giurisprudenza gli oltre trent’anni di fedele servizio nel Gruppo del padre e ancor prima del nonno.

    Lo stabilimento di Contari stava vivendo una situazione di conflittualità sindacale insostenibile per il processo a ciclo continuo che vi si svolgeva. La chiusura non era pensabile, ma su quello stabilimento, in soli tre anni, si erano già accumulate forti perdite ed infrante le carriere di alcune delle migliori promesse del Gruppo. La cosa era stata passata all’Ufficio Centrale del Personale, perché si riteneva fosse il più adatto a gestire problematiche sindacali. Il capo dell’ufficio, non volendo esporsi in prima persona, né rischiare di bruciare qualcuno dei suoi su un tema così insidioso, delegò il giovane Sartori a gestire il problema.

    Egli, senza fare una piega, accettò l’incarico, chiedendo però, prima di partire, di poter esaminare tutta la documentazione disponibile e pretese un’ampia delega.

    Sartori, dopo aver studiato accuratamente tutti gli incartamenti, si trasferì in Calabria e per prima cosa andò dal Prefetto che aveva la competenza su quella località. Senza troppi preamboli gli chiese chi era il boss della zona. A denti stretti, e dopo un breve tergiversare il Prefetto ammise:

    «È don Calogero, ma non le consiglio di tentare un approccio diretto, non ha mai osato farlo nessuno!».

    Dopo qualche ulteriore resistenza il Prefetto lo fece incontrare con il maggiore dei carabinieri che gestiva l’intelligence nella regione. Questi sembrò offeso dal comportamento deciso – e secondo lui certamente incosciente – di questo giovane funzionario. Dal maggiore dei carabinieri Sartori apprese ogni informazione disponibile su don Calogero e in particolare che il quartier generale del boss era il Caffè Centrale.

    Il giorno dopo, mentre guidava con prudenza sulla tortuosa strada verso Contari, si trovò a riflettere su un suggerimento che tanti anni prima gli aveva dato suo nonno, un tipico notabile albertino, che gli diceva sempre: «Se vuoi qualcosa vai sempre dal Capo, da chi può decidere e decide. È inutile e controproducente parlare con persone che non possono decidere e che riporteranno distorto quello che tu dici».

    Allo stabilimento fu subito accompagnato nell’ufficio del Direttore, un ingegnere cinquantenne di grande esperienza, chiaramente seccato per l’arrivo del giovane funzionario della Sede. L’arrivo del dottor Sartori era stato preannunciato con un telex sibillino dalla Direzione Centrale. Ma cosa credevano, di mandare degli inesperti freschi di studi, vestiti come per andare a un Consiglio di Amministrazione, a gestire situazioni intricate?.

    Il Direttore richiuse le due porte imbottite dietro di loro, sedette alla scrivania e guardò Sartori con aria interrogativa, chiaramente ostile.

    Sartori, asciutto, disse che era stato inviato per cercare di risolvere la faccenda sindacale. Il Direttore represse a fatica un sorrisino: se lo immaginava di fronte a torme di operai inferociti con quel suo bel doppiopetto… e con malcelata ironia gli chiese se voleva parlare con il capo del personale o con i rappresentanti sindacali…

    Sartori aveva declinato l’offerta: «Magari dopo, grazie…».

    Gli aveva solo chiesto quale poteva essere il motivo di quella situazione sindacale: il Direttore disse qualcosa a proposito della non-cultura industriale di pastori semianalfabeti, di sindacati impreparati, e niente di più.

    Dopo colazione aveva visitato rapidamente lo stabilimento accompagnato dal Responsabile del Personale, un piemontese di Alessandria da sempre nel Gruppo, spaesato e disperato, parlando col quale aveva avuto la conferma che stavano brancolando nel buio più assoluto.

    Sartori lasciò presto lo stabilimento e si diresse verso il paese, rimuginando sul consiglio del nonno di rivolgersi sempre alla persona che comanda. Aveva sempre funzionato: sarebbe stato così anche stavolta?

    Si sentiva calmo e sereno e si accomodò su una poltroncina di vimini del Caffè Centrale. All’anziano cameriere che gli si accostò con deferenza – si capiva subito che era una persona importante, con quel suo doppiopetto grigio – chiese un bicchierino della Riserva di Garibaldi. Il cameriere fece un balzo all’indietro, dimostrando un’agilità insospettata per l’età e l’aspetto appesantito. Era stato evidentemente colto di sorpresa: un signore straniero, chiaramente del Nord, e mai visto prima… e ordina il liquore di don Calogero! Riservato solo a lui!… Nessuno, a meno di non essere seriamente stanco di vivere, avrebbe mai chiesto di berne una goccia, ammesso che sapesse dell’esistenza della Riserva di Garibaldi.

    Il maggiore dei carabinieri aveva riferito a Sartori, un po’ per dare del colore locale al resoconto, un po’ per fargli capire quali e quanti legami avesse il boss locale, la storia della Riserva di Garibaldi. Il maggiore aveva narrato che con la designazione Riserva di Garibaldi si intendeva una particolare qualità di Marsala che la leggenda voleva fosse stata offerta all’Eroe dei due mondi al suo sbarco con i Mille, il quale gradì e rimase un affezionato consumatore.

    Si trattava di una produzione limitatissima, derivata dalla lavorazione delle migliori uve, scelte e raccolte a mano acino per acino, fatte invecchiare in piccole botti di rovere selezionate.

    Di questo nettare se ne producevano – ufficialmente – una sessantina di litri l’anno, non disponibili per il mercato, riservato a enologi ed intenditori.

    Si diceva che anni prima, al termine di una riunione con i colleghi siciliani del mandamento di Trapani, a don Calogero fosse stato offerto un bicchierino di Riserva di Garibaldi, che egli lodò moltissimo. Da allora – in occasione del compleanno di don Calogero – una botticella di una trentina di litri di Riserva di Garibaldi, veniva recapitata al Caffè Centrale, che lo custodiva gelosamente per don Calogero.

    Passò più di un quarto d’ora. Sartori cominciava a pensare che aveva fallito e considerava di filarsela, quando dal Caffè uscì una persona di una certa imponenza, evidentemente il proprietario, che gli si avvicinò con circospezione, portandogli la consumazione ordinata e restando poi in attesa. Sartori, dopo averlo ringraziato ed aver assaporato il marsala manifestando grande apprezzamento, con grande calma, come se chiedesse a che ora partiva l’autobus, gli disse che desiderava parlare con don Calogero.

    Il titolare del caffè non fece una piega – evidentemente se lo aspettava, e senza una parola rientrò nel locale. Per un momento Sartori si sentì a disagio, aveva forse esagerato?, ma poi si rilassò pensando: Ormai è fatta, e si gustò quel nettare a piccoli sorsi.

    Passò un quarto d’ora.

    Il proprietario del caffè ricomparve rispettosissimo: «Il signore vuole seguirmi?».

    Sartori, recuperato all’istante il suo aplomb anglosassone, si limitò ad annuire.

    Il proprietario del caffè gli fece strada verso l’interno. Lo condusse in una saletta interna, piena di fumo, dove c’era un biliardo intorno al quale giocavano tre o quattro persone. Senza che se ne rendesse conto la porta alle sue spalle si richiuse; i giocatori di biliardo non sembravano aver rilevato la loro presenza.

    La guida aprì una porta che immetteva in un’altra saletta, dove c’erano due tavolini da gioco. I giocatori alzarono gli occhi per esaminare i due arrivati, tutti tranne un signore sulla sessantina che continuò a studiare con calma le sue carte. Sartori aveva avuto solo una descrizione sommaria di don Calogero dal maggiore dei carabinieri, non c’era stato verso di vedere una foto: nessuno l’ha mai fotografato, aveva forse mentito l’ufficiale.

    Sartori sentì che quella persona di cui vedeva solo uno scorcio del viso, rugoso e bruciato dal sole, dalla tranquillità dell’autorità indiscussa, era don Calogero. Si impose di essere controllato nei movimenti ancora più del solito e quando, dopo un attimo, un attimo che al giovane funzionario della Interchemical sembrò un’eternità, il signore alzò lo sguardo, tranquillamente lo salutò: «Buonasera, don Calogero».

    «Buonasera, dottor Sartori», rispose don Calogero, con un tono quasi divertito, come se salutasse un vecchio conoscente, «in che cosa posso servirvi?».

    Sartori sentì un brivido correre lungo la schiena: era già stato individuato, forse spiato – e chissà da quanto e da dove! Don Calogero sapeva dei suoi incontri con il Prefetto e con i Carabinieri? Pensava che stesse facendo da esca per qualche azione contro di lui? Si diceva che don Calogero avesse fatto sparire delle persone per molto meno…

    Ormai però era troppo tardi per tirarsi indietro, per seguire le raccomandazioni del Prefetto. Sartori si impose perciò di rilassarsi, capì che se avesse fatto capire di aver paura poteva fare una brutta fine. Dopotutto gli sembrava che don Calogero fosse divertito da quell’approccio insolito, diretto, senza intermediari, e si fece coraggio.

    Sedette su una sedia che qualcuno gli accostò, e decise di non menar il can per l’aia: dopotutto la fama dei milanesi era quella di non perder tempo, e lui era un milanese purosangue.

    In modo cortese ma deciso e senza esitazioni disse:

    «Don Calogero, lei sa che abbiamo dei grossi problemi con lo stabilimento, i sindacati locali fanno scioperi su scioperi, anche senza preavviso, non ascoltano nemmeno i sindacati nazionali e regionali, i miei non sanno più cosa fare, si parla perfino di chiusura dello stabilimento…».

    «E io che cosa potrei fare con i sindacati, non so nemmeno bene cosa siano…», interloquì seccato don Calogero.

    «Voi siete saggio, don Calogero, e capite che sarebbe un peccato che lo stabilimento dovesse chiudere, con tutta la disoccupazione che c’è in paese… e a voi tutti vi ascoltano…».

    «Capisco, sì, sarebbe un vero peccato… Vorrei aiutarvi, ma per poter fare qualcosa dovremmo poter essere in qualche modo presenti nello stabilimento, per vedere, capire cosa succede…», disse serio don Calogero, lentamente, come se tentasse di farsi venire delle idee.

    Sartori ricordò improvvisamente che nel dossier che si era studiato prima di partire, era riportato come qualcuno avesse chiesto di affittare i vasti e bellissimi agrumeti sulle colline circostanti lo stabilimento, e che si era declinata la richiesta.

    Sartori ebbe la precisa sensazione che fosse quello il bandolo della matassa: dopotutto, dalle informazioni assunte, non c’era mai stata una minaccia, non c’era mai stata una richiesta, tranne quella degli agrumeti…

    Come colto da un’idea brillante, riprendendo il discorso che don Calogero aveva lasciato cadere, disse:

    «…oppure, se poteste far coltivare gli agrumeti intorno allo stabilimento da persone di vostra fiducia… allora potreste far tener d’occhio lo stabilimento…».

    Don Calogero, annuì e tornando alle sue carte salutò il giovane:

    «Vi auguro una buona serata, dottor Sartori».

    «Buona serata a voi, don Calogero», ricambiò il giovane.

    Sartori, con il cuore in tumulto per lo scampato pericolo, ma ancor più perché era convinto di aver risolto il problema, si diresse a passi rapidi allo studio del notaio Di Trani. Esibì all’allibito notaio le sue credenziali e spiegò rapidamente che cosa gli serviva, poi rientrò nello stabilimento, dove il Direttore lo fece aspettare una buona mezz’ora prima di riceverlo. Era impegnato in un incontro con la produzione, questo manichino della Sede cosa veniva a seccare… e alle sette di sera!

    Una volta nell’ufficio del Direttore, Sartori, asciutto, disse che gli agrumeti intorno allo stabilimento sarebbero stati affittati, con decorrenza immediata.

    Il Direttore lo guardò allibito, divenne paonazzo e si mise a urlare:

    «Ma lei cos’è venuto a fare qui? Noi qui che ci inventiamo piani di emergenza per non mandare a puttane l’impianto, e lei me la viene a menare con gli aranceti? Ma in Sede siete tutti rincoglioniti a furia di rimpinzarvi non facendo un cazzo dalla mattina alla sera?».

    Il Direttore fece una pausa, scioccato dalla sua stessa violenza.

    Sartori approfittò per estrarre dalla tasca il documento che un’ora prima aveva esibito al notaio, e senza profferir verbo lo porse al Direttore.

    Questi lo afferrò con rabbia, lo scorse rapidamente e sbiancò, accasciandosi nella poltrona. Rilesse con attenzione il documento: si trattava di una procura in cui il Gruppo, nella persona del Presidente, conferiva al dottor Sartori pieni poteri per questioni di personale ed amministrativi per quanto riguardava lo stabilimento di Contari, il suo stabilimento!

    Il Direttore era da venticinque anni nel Gruppo, nel quale era orgogliosamente entrato subito dopo la laurea, ed era cresciuto con un forte senso della disciplina aziendale.

    Quel giovane distinto, trent’anni scarsi, che lo guardava con fermezza ma senza alcuna ostilità nonostante la sua sfuriata, praticamente poteva – se avesse voluto – licenziarlo in tronco.

    Il Direttore alzò lo sguardo rassegnato su Sartori e disse con circospezione:

    «Mi vuole raccontare cosa sta succedendo…».

    Sartori rifletté un attimo e disse:

    «Direttore, se lei non sa niente, la responsabilità è solo mia e, se sbaglio, io poi rientro a Milano. Lei invece è bene che possa restare qui, lo stabilimento ha bisogno di lei».

    Il Direttore fissò Sartori e restituì con calma al giovane collega il suo mandato: lo aveva decisamente sottovalutato.

    L’indomani mattina Sartori si recò allo studio del notaio Di Trani, che gli aveva preparato un contratto di affitto per gli agrumeti, e che lui firmò.

    Il prezzo d’affitto e il nome dell’affituario erano rimasti in bianco. Sartori si diresse con il documento al Caffè Centrale, dove fu subito riconosciuto ed invitato a prendere un caffè.

    Qualche minuto dopo il proprietario lo invitò a seguirlo nella solita saletta da biliardo, ancora poco affollata. Stavolta la guida si diresse alla parete di fondo, toccò un qualche pulsante mimetizzato nel bordo del pannello che si spostò senza rumore, rivelando una porticina.

    I due varcarono la soglia, il pannello si richiuse silenziosamente come si era aperto, mentre Sartori notò che anche stavolta i giocatori di biliardo non sembravano aver realizzato il loro passaggio. Sartori si trovò in una specie di studiolo, arredato modestamente, e alla piccola scrivania c’era don Calogero. Al fianco di don Calogero, in piedi, un giovane nervoso.

    Sartori salutò don Calogero, e gli porse il contratto, dicendogli:

    «Il notaio Di Trani è a vostra disposizione per completare la registrazione».

    Don Calogero lesse con attenzione il documento, poi scrisse l’importo dell’affitto e l’intestatario del contratto, che erano rimasti in bianco.

    Don Calogero rese il documento a Sartori:

    «Non avevo bisogno di alcun contratto», disse seccato.

    «Purtroppo ne abbiamo bisogno noi, don Calogero».

    «Lo so, verrà il mio figlioccio Vincenzino a firmare», disse don Calogero indicando il giovane al suo fianco, «ma sia chiaro che il contratto è con me e mi aspetto che una volta l’anno mi veniate a salutare: da noi si usa così per mantenere i patti», e gli tese la mano in una stretta vigorosa.

    Lasciando il Caffè Centrale il proprietario lo salutò con deferenza e gli porse una fiaschetta di legno, che Sartori accettò senza esitazione, dicendo:

    «Ringraziate molto don Calogero».

    Nello stabilimento non si parlò più di scioperi; al successivo rinnovo del contratto i sindacalisti regionali che erano venuti per incitare le maestranze ad aderire allo sciopero nazionale furono cacciati in malo modo.

    Sartori – finché don Calogero visse – andò tutti gli anni a trovarlo. Parlavano del tempo, della stagione più o meno propizia per gli agrumi. Passavano un’ora insieme, solitamente in compagnia anche di Vincenzino, che appariva ogni volta più sicuro di sé e sempre cordiale verso il milanese. Ricordava ancora con un brivido quando Don Calogero, dopo qualche anno, una volta che erano soli, gli buttò lì che se qualcuno gli dava fastidio o gli faceva ombra, per favore glielo dicesse, ci avrebbe pensato lui…

    E una volta Sartori da Napoli gli telefonò che proprio non ce la faceva ad andarlo a trovare, doveva rientrare assolutamente in Sede a Milano con l’aereo della sera. Don Calogero ribatté:

    «Prendete il rapido delle Calabrie, parte fra mezz’ora. Un po’ prima di Lamezia scenderete, una macchina vi aspetterà e poi, al ritorno, vi porterà direttamente a Capodichino».

    E così era salito sul rapido che non doveva fermare fino a Reggio. Il capotreno lo aveva accompagnato ad un posto vicino ad un’uscita, facendo alzare un viaggiatore. Un’ora e mezza dopo, mentre il treno si fermava bruscamente davanti ad un passaggio a livello in aperta campagna, il capotreno lo aveva fatto scendere, tra lo sguardo stupefatto degli altri passeggeri. Era quella l’ultima volta che doveva vedere don Calogero, che evidentemente aveva avuto un presentimento per insistere per quell’incontro. Quella volta, nell’accomiatarsi, disse che lui era stanco, e che gli affari erano ora nelle mani di Vincenzino, ma non cambiava nulla, aveva sottolineato con forza, mentre il figlioccio annuiva per confermare e accettare la volontà del gran vecchio.

    Le ombre del tramonto si erano allungate nel parco. Sartori bevve l’ultimo sorso del Riserva di Garibaldi che si era versato, si alzò con calma, uscì dalla villa e con la sua vecchia Lancia 2000 berlina, grigia, immacolata e perfetta come era uscita dalla fabbrica, si diresse senza fretta verso Milano.

    CAPITOLO 2

    Milano, Interchemical, Sede centrale

    Maurizio Acuti chiuse l’ultimo dossier che aveva sulla scrivania, e guardò per l’ennesima volta l’orologio. Sollevò la cornetta dell’interfono e chiese:

    «Si è fatto vivo Sartori?».

    Ricevette una risposta negativa e pensò, irritato: Nessuna nuova, buona nuova, però se Sartori si facesse vivo anche in caso di notizie positive!.

    Conosceva bene Sartori solo da tre mesi.

    Quando aveva esaminato l’organigramma di vertice, aveva constatato che c’era anche un Assistente Speciale del Presidente, in staff direttamente alla Presidenza. La persona responsabile di questa funzione era un tal dottor Sartori, di cui si rese conto di sapere ben poco. Acuti aveva intuito che Sartori si occupava dei rapporti del Gruppo con le istituzioni, ma non era chiaro quale fosse l’estensione delle sue attività.

    Si ripromise di avere un incontro appena possibile, al momento aveva cose ben più urgenti da affrontare.

    Nei primi, terribili giorni di Presidenza, Acuti si rese conto che la situazione era ancor peggiore di quella – pessima – che si aspettava di trovare e con tutto lo staff centrale dell’Amministrazione e Finanza lavorava sedici ore al giorno per trovare il modo per evitare di portare i libri del Gruppo in tribunale e porre fine alla ultracentenaria vita della Interchemical. Uno di quei giorni vide che la sua fida segretaria, l’Angiolina, gli aveva fissato un appuntamento – di un quarto d’ora – con il dottor Sartori. La curiosità in Acuti vinse il disappunto della perdita di tempo con una persona che forse si occupava solo di rapporti con i politici di casa nostra. Gli venne in mente che Sinatra – il potentissimo padre padrone della finanza italiana, augurandogli buona fortuna per il nuovo incarico, nel quale aveva negato – certamente mentendo – di aver messo uno zampino, gli aveva detto:

    «Si ricordi che può contare su valentissimi collaboratori, come il dottor Sartori, per esempio…».

    Al momento non aveva dato particolare peso alla battuta, ma adesso decise di capirci qualcosa di più.

    Sartori si rivelò essere una persona sulla cinquantina, forse più giovane di quanto apparisse, brizzolato, alto, magro, distinto, forse un po’ incolore con quel suo doppiopetto grigio, evidentemente di alta sartoria, dai modi controllati. Appariva più alto di quanto non fosse in realtà.

    Acuti lo fece accomodare nel salottino Frau capitonné che arredava la parte conversazione dell’ufficio del Presidente, sopra un grande Bukara antico e sotto un Segantini di notevoli dimensioni. Sartori si era accomodato dando un rapido sguardo circolare alla stanza, come a verificare che tutto fosse al suo posto, in un luogo evidentemente a lui ben noto, e si era limitato a dire:

    «Presidente, so che lei ora ha un momento di grande impegno e non le voglio far perdere tempo. Sono qui per darle il benvenuto, e farle sapere che io e il mio piccolo team siamo a sua disposizione. Volevo anche dirle che lei ha a disposizione duecentocinquanta miliardi, depositati in banche svizzere. In questo

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