Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Tempo di massacro
Tempo di massacro
Tempo di massacro
E-book194 pagine2 ore

Tempo di massacro

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Tipico "giallo d'azione" degli anni Cinquanta. Tempo di massacro è un romanzo aspro, veloce, scanzonato, con una vicenda che non dà tregua fino alla fine.
Quando Leslie Colina se ne viene in Italia dalla grande Los Angeles, dove si è fatto un nome come investigatore privato, crede proprio di essere in vacanza. È naturale. L'America è il paese dei gangster e dei delitti sensazionali dalle indagini complicate. L'Italia è un'altra cosa. Che pace ritornare al paese natio! Ma le illusioni di Leslie Colina non durano a lungo... Qualcuno ha deciso che il grande investigatore finisca i suoi giorni all'ombra di San Pietro. Fuori del suo ambiente, senza i suoi collaboratori, Leslie sembra sul punto di perdere l'orizzonte. Ma per sua fortuna, ha i pugni saldi e la testa più salda dei pugni.
LinguaItaliano
Data di uscita14 ott 2019
ISBN9788899932503
Tempo di massacro

Leggi altro di Franco Enna

Correlato a Tempo di massacro

Titoli di questa serie (12)

Visualizza altri

Ebook correlati

Thriller criminale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Tempo di massacro

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Tempo di massacro - Franco Enna

    XIX

    I

    Non mi sembrava vero di essere solo, senza la ma­snada dei miei nove agenti attorno, senza telefoni che mi svegliassero di soprassalto mentre sognavo di essere un americano qualunque e non uno tra i più quotati investigatori privati d’America; solo, a bordo di un transatlantico, fra centinaia di scono­sciuti eleganti e spendaccioni; senza pensieri, con una riserva considerevole di sonno e di risate da smaltire. La mia più fedele compagna era una pan­ciuta bottiglia di whisky scozzese che Jeps, il came­riere che sorvegliava la mia cabina e il mio porta­fogli, aveva il compito di non lasciare mai vuota.

    Ah, il mare! L’ho sempre adorato, specialmente dal ponte di una nave di lusso, con tante donnine attorno, carine, eleganti, molto scollate.

    Era la prima vacanza che mi concedevo, dopo la smobilitazione, cioè dopo otto anni e rotti di lavoro serrato, instancabile, snervante, che mi aveva por­tato a capo di una tra le più importanti agenzie di investigazioni private degli Stati Uniti, è vero, ma che mi aveva anche spezzato i nervi e le ossa, senza tener conto delle due cicatrici che mi adornano il torace, ricordo di Bill Valdivian, il brasiliano.

    Non potevo lamentarmi di Leslie Colina, cioè di me stesso: non avevo nulla da rimproverargli, e questo era moltissimo.

    La mia prima vacanza, dicevo, due mesi tutti in-

    teri che mi ripromettevo di trascorrere in Italia, sì,

    perché ho sempre avuto un debole per questa terra,

    e particolarmente per la Sicilia, dove sono nato trentatré anni orsono. Fu precisamente a Palma di Montechiaro in provincia di Agrigento, un paesino lungo come un budello d’affamato, con vecchie case di qua e di là e con brava gente che lavora so­do. A quei tempi, quando cioè venni al mondo, mio padre aveva una botteguccia di ciabattino che gli permetteva a stento di non far morire di fame la moglie e ben tredici figli, tutti sani, forti e dotati di uno stomaco di struzzo. Io ero il tredicesimo, per questo avrei potuto chiamarmi Tredicino, come nel­la favola della nonna. Invece mio padre mi appiop­pò un nome ostrogoto: Gaspare. Un nome come un altro, direte voi. D’accordo, ma a me non va giù.

    Per questo, quando mio padre si trasferì a Baltimo­ra, e quindi a Los Angeles, dove divenne il calzolaio di fiducia di tutte le case produttrici cinematografiche di Hollywood, mi attribuii il nome di Leslie, ma dovetti menare le mani per imporlo alla gente.

    A Los Angeles mio padre possiede una catena di negozi di calzature e un laboratorio che sono noti in tutta l’America. Del suo successo, tanto lui quan­to la sua numerosa prole debbono essere ricono­scenti a Greta Garbo. La deliziosa inimitabile diva dello schermo fu la prima a valorizzare il modesto ciabattino di Palma di Montechiaro, acquistando un paio di scarpette eccentriche ma belline (non è vero che Greta Garbo abbia i piedi esageratamente grandi, afferma il mio genitore: le sue estremità sono perfettamente proporzionate alla sua corporatura). A quell’epoca Greta stava girando il film Mar­gherita Gauthier con Bob Taylor. Ricordo bene questo particolare perché Bob, quella volta, si fer­mò davanti al negozio ad aspettare la diva che pro­vava le scarpe nell’interno. Mia sorella Caterina, senza sapere chi fosse, lo invitò a entrare e lui accondiscese sorridendo, anche perché Caterina allora era una bella figliola.

    Il modello di Sante Colina piacque moltissimo a Hollywood, e pochi giorni dopo molti altri divi di ambo i sessi vennero a trovare mio padre, il quale in quell’occasione scoprì di essere dotato di una fantasia veramente straordinaria in fatto di model­li di scarpe. Di lì ebbe inizio l’ascesa del povero ciabattino siciliano.

    Naturalmente quella non era la prima volta che tornavo in Italia. C’ero stato durante la guerra, col grado di tenente. Mentre mi trovavo in Sicilia, nel­la piana di Catania, alle prese con i tedeschi, ebbi l’occasione di fare un salto a Palma di Montechia­ro. Non trovai che due vecchi zii. I ragazzi erano sotto le armi, le ragazze si erano sposate: una tri­stezza, a vedere quel deserto, e tante distruzioni!...

    Ma ora sarebbe stato certamente diverso. I miei parenti mi avrebbero visto con gioia, e forse non mi avrebbero riconosciuto. Mi avrebbero chiesto: E Santino? E Peppe? E Nunziata?. Avrebbero fatto l’appello dei parenti lontani. Dopo tanto, avrei par­lato ancora siciliano (da quando avevo messo su ca­sa per conto mio, avevo perduto quell’abitudine che nella casa paterna costituiva una tradizione). Ma­sticavo bene l’italiano, si capisce, ma il siciliano lo parlavo correttamente: il dialetto della mia terra mi era rimasto nel sangue.

    Il mare s’incupiva man mano che il sole scende­va all’orizzonte. Eravamo alla fine di luglio, e il ven­ticello che soffiava sul ponte piaceva. Da tre giorni ci trovavamo sull’oceano e gli alisei non ci avevano dato fastidio, il che mi aveva messo in uno stato di euforia. Il mare agitato mi rende di pessimo umore, anche se non mi fa star male fisicamente.

    Il transatlantico era affollato, come sempre nella buona stagione, mi aveva detto Jeps. Nel salone da pranzo erano stati aggiunti dei tavoli a due posti che, se non altro, avevano il pregio di lasciare in di­sparte chi preferiva non fare conoscenze. Io ero uno di quelli, nel senso che mi piaceva ascoltare, osser­vare, ma senza essere seccato. Volevo fare i miei co­modi fino all’esagerazione.

    Il commensale che con deferente sollecitudine mi era stato assegnato dal direttore di sala era un gio­vanotto simpatico, biondo, con gli occhi celesti e i baffetti all’inglese. Poteva avere la mia età, più o meno, ed era americano. Si chiamava Dwight Demp­sey, mi aveva informato il signor Grant, il direttore di sala, il quale ci aveva messo a nostro agio con una presentazione rapida e garbata. Mi ero ripro­messo di non andare oltre le comuni cortesie d’oc­casione, col signor Dempsey, e tenni questa linea di condotta fino al secondo giorno di navigazione. Ma non si può stare seduti a un tavolo a mangiare con le ginocchia contro quelle dell’unico commen­sale senza rivolgergli la parola, tanto più se si tratta di una persona simpatica e gentile. Una partita a ping-pong, vinta naturalmente da lui e una buona nuotata nella piscina di bordo avevano sancito la nostra conoscenza, ponendo entrambi sulla strada dell’amicizia. Non avevo da lamentarmi di quell’in­contro. Dempsey era il compagno di viaggio ideale, discreto, gentile, un po’ malinconico, ma non pes­simista, con quel briciolo di ingenuità che si riscon­tra nelle persone romantiche, qualunque sia la loro età. Lo trovavo invariabilmente sulla passeggiata scoperta, intento a contemplare trasognato l’ocea­no, con la pipa tra i denti.

    Il terzo giorno di navigazione avevo dormito tutto il pomeriggio nella mia cabina, cullato dagli schioc­chi delle onde contro lo scafo. Forse avevo alzato un po’ il gomito a colazione, ma stavo benissimo.

    Fu Jeps a svegliarmi, impeccabile nella sua giac­ca bianca, la grassa faccia sorridente.

    « Oh, mi scusi! » esclamò vedendomi a letto. « Credevo che fosse sul ponte. Ero venuto a cam­biare la panciuta. »

    Sorrise, intanto che agitava la bottiglia di whisky scozzese che teneva in mano. Gli feci segno di dar­mene un bicchiere, mentre mi alzavo per andare a rinfrescarmi sotto la doccia. Ero sudato dalla testa ai piedi, nonostante il ventilatore.

    « Jeps, che fanno al cinema, stasera? »

    « Un bel film, signor Colina... » Sporse un brac­cio nello stanzino della doccia e mi passò un bicchiere pieno a metà di liquore. Poiché avevo azionato la doccia, vi lasciai cadere un po’ d’acqua e lo vuotai. Jeps, intanto, stava dicendo: « Il titolo è: Addio, signora Miniver. »

    « Ah, con Greer Garson! Un bel film, l’ho visto. Lo rivedrò con piacere... Quanto manca per il pran­zo? »

    « Meno di un’ora, signor Colina.»

    « Grazie, Jeps. Arrivederci. »

    Mi vestii in fretta, bevvi un altro bicchiere di whisky allungato con soda e salii sul ponte. Il sole sembrava tagliato a metà dalla immensa lama del­l’oceano, e l’acqua ne era tutta infiammata.

    Alcune belle ragazze stavano rincorrendosi sui ponte. Ridevano a squarciagola, il che sembrava non dar fastidio agli altri passeggeri. Una delle ra­gazze, una bionda formidabile, mi urtò in malo mo­do. Si fermò mortificata, si scusò in un inglese mal­sicuro ma corretto, mi elargì un sorriso sgargiante, poi corse via con le compagne. Nei pochi secondi che si era fermata di fronte a me, avevo potuto ve­dere che aveva gli occhi neri ed espressivi, e a me piacciono tanto gli occhi neri ed espressivi delle bionde formidabili, come vado matto per gli occhi verdi delle brune formidabili.

    Dopo un po’ mi avviai lentamente verso il salone da pranzo. Dempsey mi aveva preceduto al nostro piccolo tavolo e stava porgendo qualcosa che mi parve una banconota al direttore di sala. Il signor Grant ringraziò con un inchinò dignitoso, poi si accorse di me e mi affidò alle cure di un cameriere allampanato e sorridente.

    « Che programma ha stasera? », mi domandò Dempsey.

    « Non so, forse andrò al cinema. »

    Dempsey sbatté le palpebre.

    « C’è un buon film? »

    « Dolcissimo: La signora Miniver, o qualcosa di simile... »

    Dempsey sollevò la faccia e mi guardò con un pallido sorriso.

    « L’ho visto » disse « e mi ha turbato molto. Greer Garson è una donna adorabile e un’attrice eccezionale. Walter Pidgeon è un partner ideale. Formano una coppia alla quale si deve voler bene per forza. »

    « È vero » dissi mentre mi servivo di antipasto. Lo guardai perché mi aveva colpito il tono che ave­va usato: triste, quasi tormentato. Molto probabil­mente Dwight Dempsey era un sentimentale. Soggiunsi: «Ho visto anch’io quel film, in Italia, du­rante la guerra. Il nostro governo inviava alle sue truppe la migliore produzione di Hollywood... Al­meno, credo che sia stato in Italia... »

    Dempsey si illuminò.

    « Ha fatto la guerra in Italia? » mi chiese ec­citato.

    « Sì. Ero ufficiale nel 181° reggimento fanteria. »

    «E io nel 182° ».

    « Allora ha operato in Sicilia?»

    « Sì, poi fin su, nella Foresta Nera. »

    « Anch’io, santo cielo! Allora siano stati certamente vicini. Ma guarda il caso! Quest’incontro de­v’essere festeggiato! Posso chiamarla per nome?... Leslie, mi pare. Sei di origine italiana, se non sba­glio. »

    « Infatti. »

    « Molto probabilmente ci saremo incontrati in quella baraonda. Ne sono sicuro. Lo dicevo che la tua faccia non mi era nuova. E abbiamo avuto lo stesso tavolo! »

    Si mise a ridere come un ragazzo intanto che mi passava una manata sopra la spalla.

    « Allora non portavi i baffi, immagino » dissi.

    « Me li sono lasciati crescere al mio ritorno in America... Del 181° conoscevo il capitano Clements, Harry Clements. »

    « Ma è mio amico! » esclamai. « Un ragazzo ciar­liero e giovialone che è una fortuna avere per com­pagno d’armi... Abita a Little Rock. »

    « Sì, sì, nell’Arkansas. »

    Facemmo sturare una bottiglia di spumante e brindammo al nostro incontro. Dwight volle fare un secondo brindisi alla salute di Greer Garson. L’idea mi fece sorridere.

    « Il fatto che questa sera si proietti un film con Greer Garson » disse Dwight « per me è più di una coincidenza. »

    « Perché? »

    Dwight mi guardò a lungo prima di rispondere.

    « Amo una ragazza che somiglia a Greer » disse

    infine. « È italiana. »

    « Ah! »

    « Si chiama Livia... Allora era sfollata a Ronci­glione, ma ora abita a Roma. Ti dispiace se ti parlo di lei? Tu che sei di origine italiana, e che, quindi, conosci i tuoi conterranei meglio di me, forse potrai darmi qualche consiglio utile... »

    Scossi il capo per fargli capire che non mi dispia­ceva, poi riempii il bicchiere.

    II

    Mi porse la fotografia della sua ragazza con un gesto di romantica ansietà. Vidi un faccino grazioso, una bocca un tantino larga, gli zigomi pronunciati gli occhi grandi, le sopracciglia perfettamente arcuate: una bella ragazza La somiglianza con Greer Garson c’era più ella fantasia di Dwight che nella realtà. Una mano piuttosto pesante aveva vergato una de­dica: "A Dwigt appassionatamente". Aveva dimen­ticato l’acca.

    « Carina » commentai restituendogli la fotogra­fia. « Quanti anni ha? »

    « Ventotto, mese più mese meno. »

    « Ne dimostra diciotto » osservai.

    Dwight sorrise mentre riponeva la fotografia nel portafogli con geloso rispetto

    « Sì, è molto giovanile vero? » disse « Forse troppo... »

    S interruppe per fissarmi. Nel suo sguardo mi par­ve di leggere un turbamento profondo.

    « Che vuoi dire? » chiesi.

    « Non so, non so! » esclamò Dwight tormentato. «Ma ascoltami, per piacere; e non spazientirti... Conobbi Livia verso la fine del quarantaquattro, a Ronciglione, sul lago di Vico.

    « Dove si trova? »

    Tra Roma e Viterbo, un paesino tranquillo, an­che se la guerra non lo ha risparmiato Notai subi­to la sua somiglianza con Greer Garson e glielo dissi forse per trovare la scusa di parlarle. Si capiva che era una ragazza di buona famiglia. Doveva essere parente del parroco del luogo. Da quella volta ci vedemmo spesso, per qualche tempo. Io mi trovavo a Vetralla col mio distaccamento. Poi dovetti parti­re per Pisa, e mi parve di impazzire. Sei mai stato innamorato, Leslie? »

    « Non credo. Qualche fiammata, ma niente di più. »

    « Be’, forse potrai capirmi lo stesso! Quella fiam­mata che tu dici continua a bruciare, e diventa sem­pre più grande finché tu non hai la sensazione di consumarti tutto anima e corpo e nient’altro ha significato per te all’infuori della tua donna Così fu per me. Livia aveva molta stima di me. A suo modo mi amava. Si era arrivati

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1