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Emigranti (quasi) per diletto
Emigranti (quasi) per diletto
Emigranti (quasi) per diletto
E-book172 pagine2 ore

Emigranti (quasi) per diletto

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Info su questo ebook

È stato il romanzetto Emigrante per diletto di Louis Stevenson a
ispirarmi il titolo di alcuni appunti, da tempo dimenticati in un file
del computer. Le parole “diletto” o “quasi diletto”, accanto alla
parola emigrante, evocano una situazione meno usuale di quelle che
prevedono poveri fagotti o sgangherate valige di fibra.
Stevenson aveva lasciato Glasgow per rintanarsi nella terza classe di
una scassata nave ottocentesca, io ero partita da Milano, seduta nella
poltrona di uno dei primi DC9 che volavano verso il Sud America: lo
scrittore, allo scopo di raggiungere la donna che amava, io e la mia
famiglia, per aver colto “al volo” l’occasione di un miglioramento
economico. Era il 1960, quando l’Italia esportava clamorosamente i
frutti della sua inventiva industriale, e, meno clamorosamente, aveva
iniziato a piazzare in porti sicuri il frutto dei suoi investimenti.
La mia è la vicenda di una madre e moglie che, dovendo gestire
comunque e alla meglio la famiglia in un “diverso” del quale, a causa
dei suoi limiti mentali, non capiva nulla, ha affrontato e infine
superato situazioni grottesche.
Una vicenda che, letta oggi, alla luce delle esperienze quotidiane,
muove a un benevolo sorriso. Tuttavia curiosa, divertente e, spero,
anche vagamente istruttiva.
LinguaItaliano
Data di uscita1 lug 2012
ISBN9788866900771
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    Anteprima del libro

    Emigranti (quasi) per diletto - Sonia Piloto di Castri

    dell'Editore.

    ANTEPRIMA

    Juan Manuel Alsina, colonnello dell’esercito argentino in pensione (e di avere solo trentadue anni lo dirà tra poco), ci aspetta vicino al cancello di legno di una villa a un piano, stile chalet svizzero (in Argentina comunemente chiamata chalé, si pronuncia cialé), circondata da un giardino con alberi pregiati e il prato all’inglese dall’erba un po’ troppo cresciuta. Quattro metri di sentiero di pietre a opus incertum conducono dal cancello alla porta d’ingresso. Ancora non so che oltre quel pezzo di giardino situato nella parte anteriore della villa si estende il resto della proprietà: dieci lotes di terreno incolto, pari a un ettaro, abbastanza per mantenerci una vacca e un paio di puledri.

    Non ci saremmo trovati di fronte a quel pensionato precoce se, qualche mese prima, non avessimo accolto con entusiasmo l’idea di emigrare all’estero: una decisione improvvisa e affrettata, per cogliere al volo una delle occasioni offerte dall’espansione del boom economico di quegli anni. Nel nostro caso l’opportunità di diffondere qui e là nel mondo cibi in scatola preparati all’italiana, quali quelli prodotti dalla ASTRO s.p.a., fabbrica, appunto, di prodotti alimentari.

    La fase iniziale dell’ingaggio prevedeva la Tunisia come paese di destinazione. Bastava solo, per gli adulti della famiglia mentre si allestiva la partenza, rinfrescare un po’ le reminescenze del francese, informarci sugli usi, i costumi e le abitudini della popolazione con la quale saremmo entrati in contatto: un po’ di geografia, un minimo di storia, un pizzico di antropologia.

    E invece, come il cosiddetto fulmine a ciel sereno, arriva un contrordine improvviso e imprevisto. Per cause (quali?) sopravvenute: partire subito per l’Argentina. Una risoluzione che, dovuta all’urgenza, non ci aveva consentito un minimo di preparazione di tipo sociopsicologico e storico, per esempio, o di carattere puramente pratico e, soprattutto, soprattutto, linguistico.

    Ma quello del linguaggio era l’ultimo dei nostri problemi immediati. Infatti non ce preoccupammo eccessivamente. In una città piena di italiani, – era diceria comune,– tutti comprendevano la nostra lingua, quando addirittura non la parlavano. Grossa balla. Nei primi tempi del nostro soggiorno, la gente alla quale mi rivolgevo non capiva quello che domandavo, né io capivo quello che loro mi rispondevano. Credo sia da imputare al presunto internazionalismo del nostro idioma se affrontammo l’Argentina senza un dizionario, nemmeno uno tascabile. E non fu l’errore minore.

    Date queste premesse, con estrema leggerezza, quasi senza rendersene conto, l’intera famiglia, (il padre con l’incarico di avviare un’industria italiana in terra straniera, i bambini, Furio di cinque anni e Marco di otto, e me, la madre cui spetterà anche il compito di redigere la relazione dell’impresa), si trovò a bordo di un DC-9 dell’Alitalia, diretto a Buenos Aires.

    PARTE PRIMA

    BUENOS AIRES

    La Capital Federal

    La prevedibile sensazione di spaesamento, dopo tutte le ore di quel viaggio, fra la tappa nella notte-notte a Dakar e quella nella luminosità del mattino di Rio de Janeiro, venne sostituita dalla gravezza dell’atmosfera pomeridiana che ci accolse all’aeroporto di Ezeiza. Un’atmosfera, fatta di un’aria tanto densa da rendere faticosa la respirazione: la stessa aria che, composta da acqua talmente nebulizzata da essere impercettibile, sottraendo a ogni boccata spazio all’ossigeno, non ci avrebbe abbandonato più per tutto il tempo in cui vivemmo in quella frazione di Argentina.

    Il periodo passato nell’albergo Florida della calle Florida in Capital Federal non fa qui storia, perché le nostre erano pur sempre giornate trascorse in un albergo e in una grande città. Abbandonati al nostro destino dal capofamiglia – tutto preso dai non pochi problemi connessi all’attivazione della fabbrica – senza conoscere la lingua, io e due bambini riuscivamo a intrattenerci in qualche modo, mentre il pensiero predominante era quello di trovare al più presto una sistemazione definitiva nella quale dare inizio a una vita regolare.

    Dovevamo scovare qualcosa di diverso dall’albergo, un alloggio che fosse almeno in parte arredato, dato che prima o poi – più poi che prima – sarebbero arrivate le nostre masserizie. Dovevamo affrontare la nuova situazione con razionalità, organizzare il ménage quotidiano, pensare alla scuola dei ragazzini… Dopo un breve, deludente tentativo di trovare un appartamento in città, orientammo le nostre ricerche nei dintorni dello stabilimento, la cui produzione, fra non poche difficoltà, il capofamiglia stava tentando di avviare. Passammo la voce fra le persone che in qualche modo gravitavano intorno a quell’abbozzo di impresa industriale e da tutti, per prima cosa, ricevevamo in risposta uno stesso ritornello, una basilare norma di vita: no se preocupe, no hay problemas, todo se soluciona. Un ottimismo al limite del fideismo, una frase che avremmo sentito ripetere ogni volta che qualcosa non andava come sarebbe dovuta andare.

    La Grande Buenos Aires

    Era costituita (e lo è tuttora, ma io ne parlo al passato immergendomi di nuovo nell’atmosfera di quegli anni) dalla Capital Federal – il centro della città, la zona delle case d’abitazione, degli hotel, dei grattacieli, dei grandi viali e dei parchi, dei teatri e dei cinema… – e circondata dagli agglomerati urbani che la cingevano per un’estensione di – allora – un centinaio di chilometri – oggi penso di più. Percorrere la Grande Buenos Aires da un estremo all’altro seguendone l’ipotetico diametro, era come andare, per esempio, da Torino a Novara rimanendo sempre nell’ambito cittadino.

    Nella parte Nord si trovano i quartieri residenziali dei ricchi, il più importante dei quali è Olivos, che tra l’altro ospita la villa del Presidente della Repubblica o del Capo del Governo, a seconda di come vanno le cose nel paese. A Sud si estendono centri autonomi di antica fondazione, se non addirittura di origine indiana, quali Quilmes e, Beratzategui, o agglomerati cresciuti intorno alle industrie.

    La ASTRO era sorta nella parte Sud, a un’ora di strada dalla Capital se percorsa con la jeep in dotazione dell’impresa, a un’ora e mezza se percorsa con il colectivo. Come tutti i colectivos che facevano servizio in città e nei dintorni, anche quello che prendevamo noi era un vecchio automezzo della Mercedes Benz, un autobus di quelli, per intenderci, con il muso (la parte motore), collocato davanti, e il cofano zigrinato per il passaggio dell’aria, apribile sulle cerniere da due lati nel senso della lunghezza.

    Si arrivava alla ASTRO lungo il Camino General Belgrano. L’autobus fermava ad alcuni metri dall’ingresso dello stabilimento a una parada facoltativa, situata tra i centri di Florencio Varela e Villa Giambruno. Una breve deviazione, un’ampia strada in terra battuta, dal Camino General Belgrano, portava al cancello della ASTRO.

    Come espressione della industria italiana in piena espansione, l’azienda aveva un aspetto piuttosto modesto, per non dire mediocre. Era composta da tre edifici a un piano, indipendenti tra loro: un locale, formato da due stanze e un corridoio, adibiti a ufficio; un unico capannone – la fabbrica vera e propria – costituita dallo spazio per la lavorazione e l’inscatolamento dei prodotti alimentari; e un monolocale in muratura, dall’aspetto più di una baracca che di una abitazione, nella quale vivevano la custode – un donnone che parlava solo abruzzese –, il marito operaio considerato un tuttofare (ma in realtà poco-nulla facente) e la figlia di sei o sette anni.

    I tre edifici della ASTRO non avevano l’aspetto di essere stati costruiti per l’occasione; causa la loro aria vecchiotta e frusta, sembravano recuperati da qualcosa di precedente, destinato ad altre funzioni. Anche la custode e la sua famiglia, per la padronanza e sicurezza che esibivano su tutti gli spazi posti sotto il loro controllo, davano l’idea di aver sempre fatto parte dell’insieme e quindi di essere stati acquistati in un blocco unico, quale parte compresa con gli immobili.

    Fatta eccezione per alcune casette costruite lungo la deviazione che dal Camino General Belgrano portava alla ASTRO (fra le quali quella del colonnello Bianchi e della sua signora, di cui avrò modo di parlare in seguito), oltre la ASTRO si estendeva a perdita d’occhio una marea di campi incolti.

    Era frequente vedervi transitare, al tramonto, mandrie di cavalli di una trentina di capi (piccole rispetto alla media nazionale), che procedevano sempre nella stessa direzione e alla stessa ora. Provenivano non si sa da dove e, dopo aver attraversato il Camino General Belgrano, si avviavano verso una loro destinazione segreta al di là del Camino, oltre altri campi. Erano prive di mandriano, e pur essendo senza guida, all’apparenza, si sarebbero detti consapevoli dei loro compiti e della loro meta.

    Qualcosa tuttavia mi induceva il sospetto che probabilmente la mandria non fosse del tutto priva di un comando: secondo me aveva un capo nel cavallo che si trovava in testa, di poco distanziato dagli altri che, subordinati, gli andavano dietro. E quindi era lui il responsabile della condotta del branco, come nel caso delle improvvise invasioni dell’ufficio della ASTRO. Accadeva infatti, ogni tanto, anche se raramente, che il meccanismo automatico o il disegno prestabilito nella mente del capomandria, subisse una specie di corto circuito e che per qualche mistero si inceppasse. In questi casi, a uno dei quali mi era capitato di essere presente, succedeva che la mandria, invece di proseguire lungo il sentiero, per un imput imprevisto imboccasse il cancello posto sul retro della ASTRO, e ne attraversasse lo spiazzo antistante gli edifici. In quei casi, chi stava seduto al tavolo dell’ufficio davanti alla finestra aperta, alzando il capo poteva trovare a un palmo dal suo naso il muso di un cavallo dall’aria stupita quanto la sua, mentre altri entravano dalla porta principale imboccando lo stretto corridoio. Superata quella porta, anch’essa sempre aperta per facilitare la circolazione dell’aria a causa dell’umidità, ne bastavano un paio per occupare tutto lo spazio disponibile, impediti, da quelli che pedissequamente si urtavano per seguirli, di girare su se stessi per invertire la marcia e uscire da dove erano entrati.

    Nonostante la situazione non si ripetesse con frequenza, presentava ogni volta delle difficoltà, che i soliti volontari tentavano di ricondurre all’ordine. Sbracciandosi con il dovuto garbo per non spaventare i cavalli, già piuttosto innervositi dall’angustia del luogo e dalla irresolutezza della situazione, col loro cauto intervento riuscivano a farli lentamente marciare a ritroso e a riportarli all’aperto. E infine a rimetterli sulla retta via. Un vero miracolo. Guai se un cavallo particolarmente irritato si fosse impennato e, agitando scompostamente le zampe anteriori, avesse comunicato il panico al resto del gruppo! Sarebbe stato un disastro.

    Ma se gli equini potevano essere considerati occasionali, se non addirittura eccezionali ospiti degli uffici, ospiti consueti erano invece i rospi e le rane, specie dopo un acquazzone. Era buffo veder quegli animali, molto più grossi dei nostrani, saltellare sulle piastrelle del pavimento. Meno appariscenti dei cavalli, quando venivano individuati avevano già invaso tutti gli uffici. Liberarsi di quegli anfibi, per la loro natura salterina, invadente e praticamente inafferrabile, era più difficile che non liberarsi dei cavalli.

    Il Camino General Belgrano

    Se non fosse stato a due corsie, avrebbe potuto essere considerato un’autostrada per

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