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In fuga dai nazisti
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E-book274 pagine4 ore

In fuga dai nazisti

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Info su questo ebook

La storia vera che ha ispirato il film In darkness, candidato agli Oscar

Nel pieno della seconda guerra mondiale i nazisti stanno mettendo a ferro e fuoco il ghetto della città ucraina di Leopoli: tutti gli ebrei devono essere uccisi o spediti nei lager. Non c’è via di scampo, le SS sono ovunque.
I bambini vengono trucidati, le madri si suicidano, le esecuzioni sommarie si ripetono con fredda precisione. Ma un gruppo di ebrei, tra cui due bambini, trova un modo incredibile per sottrarsi alla tragedia: se le strade non sono più sicure, la salvezza può essere solo sottoterra. Decidono così di calarsi nelle fognature della città, e qui rimangono – al buio, tra ratti, fango ed escrementi – per ben quattordici mesi. Il loro unico contatto con il mondo esterno, la sola fonte di cibo, di informazioni e di speranza è Socha, addetto alla manutenzione delle fogne. Ha un passato oscuro alle spalle, ma è deciso a salvare gli ebrei in fuga, con l’aiuto di due colleghi. Si fa pagare profumatamente per i suoi servizi, ma finirà per aiutarli a sopravvivere anche mettendo a rischio la sua stessa vita. Saranno però in molti a morire: alcuni saranno travolti dalla furia delle acque, i più fragili si suicideranno, altri ancora non reggeranno alle condizioni fisiche estreme. Quando finalmente i russi libereranno la città, i coraggiosi superstiti rivedranno la luce. Un inferno di oscurità durato dal primo giugno 1943 al 28 luglio 1944. Ormai ridotti a scheletri irriconoscibili, riemergeranno come spiriti tornati sulla Terra dall’oltretomba.

Da questo libro il film In darkness, candidato agli Oscar come miglior film straniero

Sopravvissero per 14 mesi nascosti nei sotterranei della città per scampare all’orrore dell’Olocausto
Un libro indimenticabile

«Un gruppo di ebrei scende nell’Inferno: le caverne, i fiumi, i pericoli delle fogne sotto le strade della città. Il racconto spietato di come riescono a sopravvivere, affrontando la sporcizia, i ratti, l’oscurità, la morte di tanti compagni.»
Library Journal

«Una storia entusiasmante di sopravvivenza nelle più terribili difficoltà, basata su testimonianze verbali e scritte e narrata con l’intensità di un romanzo.»
Kirkus Reviews
Robert Marshall
scrittore, autore e regista, ha collaborato per anni con la BBC e ha firmato innumerevoli opere teatrali e televisive. Tra i suoi libri ricordiamo All the King’s Men, opzionato all’epoca da Stanley Kubrick, e Storm From the East, rimasto in cima alla classifica del «Times» per due mesi. In fuga dai nazisti è il frutto di lunghe ricerche e di interviste ai protagonisti sopravvissuti e ai loro parenti, realizzate in prima persona. Da questo libro è stato tratto il film In Darkness, che ha ottenuto una nomination agli Oscar come miglior film straniero.
LinguaItaliano
Data di uscita30 mag 2014
ISBN9788854168442
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    Anteprima del libro

    In fuga dai nazisti - Robert Marshall

    Capitolo 1

    Se salite sulla collina che domina la città di Leopoli e osservate il sole che tramonta sopra i tetti vi sarà facile credere per un momento di trovarvi da tutt’altra parte. Dispiegati davanti a voi, un miscuglio di tetti di terracotta: una veduta dal sapore quasi italiano, interrotta di tanto in tanto da un’occasionale macchia di alberi o dalla spoglia volta di una chiesa. Torri e guglie si alzano dai banchi di nebbia, si stagliano contro le luci della sera, proclamano solennemente che il cuore della città appartiene all’Europa occidentale. Potrebbe benissimo essere Firenze.

    Più giù, un intrico di strette strade acciottolate che curvano e serpeggiano seguendo il perimetro delle chiese medievali. Edifici che sbocciano dalle loro fondamenta fissano con aria accigliata e severa la pavimentazione, ascoltando l’incessante calpestio dei pedoni sui ciottoli. Improvvisamente, queste piccole viuzze tortuose svoltano e si spalancano in ampi boulevard cosmopoliti. Una passeggiata per piazza Teodor, o attraverso i giardini comunali, verso il teatro dell’opera, richiama immagini di Parigi o di Berlino. I tram rossi e bianchi che sferragliano per le strade evocano ricordi di Vienna. Il municipio, un crudo esemplare di utilitarismo del diciannovesimo secolo, si erge nel centro di una grande piazza, cinta da bancarelle di commercianti e da statue della Roma classica.

    Leopoli ha un’anima particolare, metà mediterranea e metà germanica, e oggi è una specie di anomalia, situata ai confini occidentali dell’impero sovietico. Per gran parte della sua storia è stata una città polacca, annidata in un’area intensamente abitata da contadini ucraini. Era una città di polacchi, ebrei e ucraini, l’avamposto orientale dell’impero austroungarico, e per secoli è stata un centro propulsivo di cultura occidentale e commercio ai confini delle steppe russe. A quei tempi, il suo nome ufficiale era Lemberg; gli ucraini la chiamavano Lvov. Oggi, i polacchi sono una minoranza che invecchia sempre più, gli ebrei sono praticamente scomparsi e la città è dominata da russi e ucraini.

    Al calar della sera, quando lunghe ombre raffreddano le strade strette, dopo che i commercianti hanno richiuso le bancarelle, hanno spazzato per terra e se ne sono andati, si sente il rumore dell’acqua corrente che ripulisce la strada dai rifiuti. Quando i vagoni dei tram sono silenziosi, ecco di nuovo il suono dell’acqua che gorgoglia dalle fontane alle due estremità della piazza deserta; Diana in mezzo ai fiori, Nettuno con il suo tridente. I rumori sembrano risalire verso la collina che sorge dietro la piazza e torreggia in lontananza sopra la città.

    Se si sale in cima a quella collina, chiamata Wysoki Zamek, ovvero Alto Castello, e si guarda la città sottostante, si può vedere il fiume Poltva, lontano, che serpeggia in mezzo alle colline che delimitano i confini occidentali. Il fiume si getta nella vallata che accoglie la città, ed ecco, è già creata un’altra illusione. Il fiume scorre in mezzo alla nebbia, e la città sembra giacere all’imbocco di un grande porto. Se guardate verso ovest, in mezzo alla nebbia, avrete quasi la sensazione di percepire la presenza del mare. Ma non c’è nessun mare, e il fiume che ha appena varcato le soglie della città improvvisamente scompare, diventa invisibile, nascosto.

    Dalla cima di Wysoki Zamek potete vedere le luci delle strade che cominciano a lampeggiare nella nebbia della sera, e potete quasi sentire il calore della città che si riposa. I rumori si attenuano davanti al soffio gentile del vento che disturba gli alberi, mentre il tram, l’ultimo forse, sbuffa su per i viali. E potete sentire, lontano, lontano, i fischi dei treni che riecheggiano a lungo nella notte.

    Era il marzo del 1943.

    A intervalli regolari, di giorno e di notte, treni a lunga percorrenza arrivavano da ovest, carichi di soldati provenienti dai Balcani, dall’Italia, dalla Cecoslovacchia, dall’Austria e naturalmente dalla Germania. Poi se ne andavano, riprendevano il viaggio, verso est, fino a Kiev e oltre. Altri treni arrivavano a Leopoli, con un carico molto diverso. Lunghe processioni di vagoni merci, solidi, robusti, con una sola finestra in alto, completamente avvolti dal filo spinato. Ogni vagone trasportava ottanta passeggeri, o giù di lì, uomini, donne e bambini, tutti schiacciati gli uni contro gli altri nel fetore degli escrementi. La loro destinazione era a nord di Leopoli, più o meno a settantacinque chilometri di distanza: Bełżec. Quei vagoni trasportavano uomini partiti dall’Olanda, dalla Francia, dal Belgio, persino dalla Norvegia.

    Dopo aver lasciato la stazione principale, che a volte veniva chiamata stazione Vienna, nella parte occidentale della città, i treni si dirigevano a nord attraverso i vari scali merci, entravano in una strettoia e passavano sotto via Janowska. Anche se erano sotto il livello della strada, i passeggeri non potevano assolutamente non accorgersi dell’imponente complesso cinto da mura che si ergeva sulla destra. La sera, il complesso era illuminato da una ragnatela di proiettori che battevano incessantemente il perimetro.

    Alcuni treni si fermavano agli scali e vomitavano dei passeggeri. Con i loro effetti personali sotto il braccio, venivano fatti entrare nel complesso, fino al piazzale dell’appello, al centro, illuminato dai riflettori. Credevano di essere lì per lavorare, ma un’ora dopo, più o meno, venivano spinti di nuovo verso i vagoni. Nudi. La scena era osservata da una certa distanza dai residenti del complesso, che, una volta che i viaggiatori erano ripartiti, sbucavano fuori dai loro rifugi per cominciare a frugare in mezzo alle pile dei beni abbandonati nel piazzale.

    Una volta superato il campo di Janowska, il treno iniziava a compiere una traiettoria arcuata in direzione sud-est, come per tornare verso il centro della città. Risbucava fuori dalla strettoia e si inerpicava su, in alto sulle strade, lungo il ciglio di una ripida banchina. Lasciandosi alle spalle il distretto industriale per tornare in città, i treni facevano tremare le finestre ai primi piani degli appartamenti e degli uffici che costeggiavano la zona gradevole della città.

    A sinistra dei binari, ai piedi della banchina, giaceva un quartiere di semplici abitazioni e caseggiati di lavoratori. Niente si muoveva lungo le stradine, nessuna luce scintillava, nessun passante notturno si godeva l’aria della sera. I treni sfrecciavano sul ponte sopra via Peltewna e assordavano con la forza di un tuono quelle strette gole di case.

    Gli abitanti del ghetto erano tutti ebrei. Da lungo tempo si erano abituati a quei treni che passavano sopra le loro teste, di giorno e di notte. Quelli che trasportavano soldati erano diretti a est, a Ternopil’, a Kiev, alla guerra. Durante l’inverno, quei treni si conquistarono il nome di carne congelata. Quelli che invece si trascinavano dietro i desolanti vagoni merci, ormai familiari, venivano semplicemente chiamati i treni degli ebrei.

    La maggior parte degli abitanti del ghetto conosceva la destinazione di quei treni. Avevano sentito i resoconti di chi aveva fatto il salto: creature terrorizzate, che erano sgusciate fuori da un vagone merci ed erano balzate giù, nude come vermi. Chi sopravviveva alla caduta, alle fucilate dei soldati di guardia al treno, chi sfuggiva alla cattura e non veniva consegnato di nuovo alle guardie, insomma, chi sopravviveva – e qualcuno ogni tanto ce la faceva – arrivava al ghetto, dove chiedeva asilo. I loro resoconti avevano avvertito coloro che li avevano voluti ascoltare.

    Fendendo la periferia settentrionale della città, i treni sbucavano infine in campagna, a est, e poi imboccavano la diramazione verso nord. Verso Bełżec, un viaggio di meno di due ore. Si diceva che tutto il terreno lungo i binari che portavano a Bełżec fosse cosparso di ossa umane, le carcasse di chi aveva tentato il salto¹ e aveva fallito.

    La temperatura era già scesa, quella sera di marzo. Un solo fischio squarciò l’aria: su via Peltewna gruppi di donne si affacciarono alle porte delle case, cominciarono a mettersi in fila verso il centro della strada, mentre giù, vicino al ponte della ferrovia, una piccola orchestra attaccava una vigorosa marcia. Le accese melodie dei clarinetti e dei cembali riecheggiavano discordanti. L’orchestra era stata una miglioria introdotta da uno dei precedenti comandanti del ghetto, l’Obersturmführer delle SS Heinrich.

    Gli ultimi ritardatari caracollavano fuori dagli edifici e avanzavano verso l’orchestra, sorvegliati da soldati armati disposti a intervalli regolari lungo la strada. Le donne, curve e dimesse a causa della malnutrizione, si stringevano i vestiti troppo larghi intorno al corpo. Si radunavano a formare una brigata, una squadra di una cinquantina di persone, mentre un giovane uomo con un anonimo berretto, un kapo della polizia giudaica, passava in rassegna le file, costringendo tutti a stare al proprio posto. La stessa identica scena si ripeteva ogni giorno, mattina e sera, lì all’ombra del ponte della ferrovia.

    Sotto al ponte, la strada era sbarrata da un paio di imponenti cancelli di legno, sormontati da filo spinato. Dai cancelli partiva una palizzata di legno alta tre metri, anch’essa protetta da filo spinato: seguiva il corso dei binari in entrambe le direzioni. Correva su fino al ponte di via Zamarstynowska, seguiva quella strada verso nord fino a via Graniczna, poi voltava a sinistra e attraversava di nuovo via Peltewna, per continuare in un pigro arco indietro, verso i binari. Nel marzo 1943, novemila anime vivevano dietro quella palizzata.

    Dopo che la conta della brigata era stata effettuata, le donne si mettevano in marcia, attraversavano i cancelli aperti e si riversavano in strada. Nel suo resoconto di quella giornata, Paulina Chiger ricordò di non aver visto suo marito, quando era stata convocata tra le fila della brigata. Ma prima di andarsene aveva parlato con sua figlia Kristina, di sette anni, e le aveva impartito precise istruzioni, spiegandole bene dove dovevano nascondersi lei e il suo fratellino se ci fossero stati dei problemi. Molte volte avevano ripassato insieme il piano: non appena avesse udito rumore di passi, Kristina avrebbe dovuto prendere il piccolo Pawel, che aveva solo quattro anni, e spingerlo dentro una valigia che lei poi avrebbe fatto scivolare sotto al letto. Subito dopo avrebbe dovuto correre all’angolo dove era sistemata la vestaglia di sua madre, appesa a un chiodo. E si sarebbe nascosta lì dietro. Mentre aspettava, Kristina avrebbe dovuto contare i secondi prima di correre da Pawel e salvarlo dal soffocamento.

    Le donne si tenevano al centro della strada, i sorveglianti procedevano sui marciapiedi su entrambi i lati. Mentre la colonna di disperate marciava, le donne dovevano subire le beffe e gli insulti di gruppi di uomini, e venivano derise dai bambini che giocavano in strada. Ma continuavano a marciare, il capo chino, stringendosi ancora di più gli abiti sulle spalle. Non era insolito che un passante più sfrontato assalisse qualche sfortunato membro della colonna, rubando un cappotto, o una giacca. Non era reato rubare agli ebrei.

    Continuavano a marciare nel cuore della città fino alla Schwartz und Comp., una fabbrica di abbigliamento in via Uichala. Molte grandi imprese erano fiorite grazie al lavoro di quelle persone. Leder, Pelz-Galenterie Le-Pel-Ga, Hazet (una fabbrica dolciaria), Rucker (carne in scatola), Staedtische Werkataetten (servizi pubblici), Reinigung (raccolta e gestione dei rifiuti), Ostbahn (manutenzione ferroviaria) e altre. Alla Schwartz und Comp. si producevano uniformi militari. In estate, migliaia di magliette, giacche e pantaloni di un verde delicato; in inverno, uniformi bianche. Più di tremila persone, soprattutto donne, facevano turni di dodici ore per rispettare le quote di produzione. Lavoravano su macchine da cucito o su nastri trasportatori, sotto gli occhi di supervisori che mantenevano la disciplina e l’efficienza con manganelli di gomma.

    La fabbrica era attiva ventiquattro ore al giorno, e chi non riusciva a rispettare la quota doveva continuare a lavorare, quattordici, sedici ore, fino al raggiungimento dell’obiettivo. Nonostante quel regime, la Schwartz era uno dei luoghi di lavoro migliori, e c’era sempre la fila ai cancelli per accaparrarsi ogni posto che si liberava. L’alternativa al lavoro era la deportazione.

    Una giovane donna di diciassette anni, Klara Keler, ebbe un impiego alla Schwartz. Il padre e il fratello erano stati presi molti mesi prima ed erano morti nel campo di Janowska. Poco dopo, Klara aveva assistito alla morte di sua madre: uccisa sotto i suoi occhi. Klara e la sua sorellina, Manya, dovevano quindi cavarsela da sole. Quasi immediatamente vennero separate. Klara fu condotta al campo di Janowska. Nella sua testimonianza, Klara ricordò che fu costretta a restare in piedi al centro del piazzale dell’appello con centinaia di altre donne, mentre un ufficiale attraversava i ranghi a passo di marcia, ordinando a ognuna di fare un passo a destra o a sinistra.

    Come le innumerevoli altre donne che si erano sottoposte all’esame su quella stessa piazza, Klara non aveva idea di che cosa significassero quegli ordini. Ma quella volta, c’era qualcuno che capiva cosa stava succedendo. Una persona che conosceva le regole. Mentre Klara osservava l’ufficiale che si avvicinava lentamente verso di lei, risalendo la fila, quella persona le sferrò un calcio deciso dietro la coscia. Poi una donna le sussurrò all’orecchio da dietro: «Digli che sai cucire», le ordinò.

    Klara si voltò senza dare nell’occhio e fissò la donna alle sue spalle.

    «Di’ che sai cucire».

    «Ma io non so assolutamente nulla di…».

    «Di’ che sai cucire e basta!».

    Klara fece come le era stato ordinato e la guardia si chinò su di lei.

    «Possiedi una macchina da cucire?»

    «Ne possediamo una entrambe». Quella risposta proveniva dalla giovane donna dietro di lei. Klara annuì.

    «Sì, possiedo una macchina da cucire».

    «A destra».

    Vennero riportate tutte e due al ghetto. La sua nuova compagna si chiamava Esther. Quando Klara e Manya si ricongiunsero si trasferirono nella casa in cui Esther viveva con la sua famiglia, in una zona in cui sorgevano edifici di lavoratori che loro chiamavano le baracche, vicino ai cancelli del ghetto. Anche se i loro nuovi vicini sembravano dei brutti ceffi piuttosto rozzi, le due ragazze sapevano di essere al sicuro.

    Trovarono una macchina da cucire per Klara, che dovette essere donata alla Schwartz und Comp. in cambio dell’assunzione. Manya non riuscì mai a ottenere un permesso di lavoro e quindi dovette restare nascosta nelle baracche: là, alcuni uomini sapevano sempre come nascondere gente dalle grinfie dell’autorità.

    Nella stessa brigata c’era un’altra giovane, che si sforzava di tenere il passo. Si chiamava Halina. Non era il suo vero nome. Era nata come Fayga Wind, ma, nel tentativo di salvarsi la vita, era diventata Halina Naskiewicz, impeccabile ragazza polacca e cattolica. Per un po’ aveva funzionato, e da brava cattolica si era tenuta lontana dai guai, sbirciando dalla sua stanza a Leopoli quelle povere donne che si riversavano nelle strade per andare al lavoro. Quello spettacolo le spezzava il cuore: «Era straziante osservare quelle donne che venivano costrette a marciare, con i frustini e i cani».

    Non ci volle molto, comunque, prima che l’inganno di Halina venisse scoperto. Fu costretta a unirsi a quelle stesse donne. Confusa, stupefatta e spaventata, nascose il volto da quegli sguardi che la deridevano. Aveva tenuto il nome di Halina, aveva ripudiato Naskiewicz e adesso si faceva chiamare Halina Wind.²

    Prima dell’inizio del nuovo turno, le donne vennero chiamate da un ufficiale delle SS del campo di Janowska. Il messaggio che portava era semplice: quella notte avrebbero fatto il loro ultimo turno. Avrebbero trovato altre occupazioni per loro, ma quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrebbero dovuto compiere il tragitto serale fino alla Schwartz und Comp. La notizia non riscosse troppo interesse.

    «Non hanno più bisogno di uniformi? Che tipo di lavoro hanno in mente? Che altro c’è da fare in questo posto, a parte le uniformi?».

    Lavoravano davanti alle loro macchine da cucire, contando le ore che le separavano dalla pausa per la cena di mezzanotte: una ciotola di zuppa calda e un po’ di pane. La notte scorreva lentamente, di tanto in tanto lanciavano un’occhiata alle finestre congelate, in cerca di un segno che indicasse che il turno stava per finire. Poi, appena la grigia luce dell’alba faceva capolino, la stessa parata di donne esauste, sfinite, tornava ai cancelli del ghetto. Da gennaio, da quando era stato dichiarato Juden Lager, o Julag, il loro quartiere era stato spogliato di tutti i ricordi di quando era una normale zona di cittadini liberi. A marzo, era stato affisso un nuovo cartello all’entrata: Ju-Lag RW Lemberg.

    Ovvero, campo ebreo, mentre la r stava per ruestung, munizioni, e la w per wirtschaft, che significa produzione economica. Era stato effettivamente trasformato in un campo di concentramento, un luogo in cui i confinati dormivano quando non erano al lavoro. La gente che viveva lì doveva avere un impiego in un’impresa approvata; venivano sistemati in alloggi ben precisi, a seconda del posto di lavoro. Se non avevi un lavoro, eri morto.

    Il comandante del ghetto era l’Obersturmführer delle SS Grzymek, soldato di nazionalità germanica proveniente dai Sudeti. Il suo predecessore, Heinrich, non aveva resistito che pochi mesi prima di contrarre il tifo. L’arrivo di Grzymek aveva profondamente trasformato le loro vite, a causa della sua insana ossessione per la pulizia. Insisteva fortemente perché ognuno si attenesse ai più alti standard di igiene. Aveva fatto affiggere in tutto lo Julag dei cartelli che proclamavano:

    Ordine e pulizia!

    È tassativo mantenere ordine e pulizia!

    L’ordine prima di tutto!

    Passava personalmente in rassegna le strade, entrando in tutti gli edifici per ispezionare ogni singola casa mentre gli abitanti erano al lavoro. Un velo di unto su un bicchiere, delle briciole, un mucchietto di cenere nella stufa: erano motivi sufficienti per una punizione. Grzymek era un assassino. Per un’ombra di barba non perfettamente rasata era capace di ammazzare un uomo con le sue mani; alla minima traccia di una malattia era pronto a condannare a morte tutti gli abitanti di un palazzo e radere al suolo tutto il povero e cadente edificio. Il suo folle comportamento fece nascere nella popolazione una frenetica devozione verso l’igiene: pulivano, spazzavano, lucidavano ogni superficie dei tristi rifugi che erano costretti a chiamare casa.

    Quella mattina le donne fecero ritorno dall’ultimo turno di notte e attraversarono i cancelli molto prima del solito. Klara ricordò che «erano le cinque del mattino e stava succedendo qualcosa». I loro sorveglianti si radunarono in un piccolo gruppo compatto, si muovevano come una fisarmonica suonata con tutta la forza. Guardavano fissi davanti a sé. Stava davvero succedendo qualcosa, era evidente. Pian piano se ne accorsero anche le donne. In fondo alla strada, soldati imprecavano e ringhiavano ordini, coprendo i lamenti e i pianti dei bambini. Stavano prendendo i bambini.

    Il comandante Grzymek, con una brigata di SS e sciami di miliziani ucraini, stava radunando tutti i piccoli del ghetto.

    Tutti si paralizzarono per un momento, mentre la verità si faceva largo nei loro cuori. Un gran numero di camion era parcheggiato in fondo alla strada. Stavano caricando a bordo i bambini. Grzymek in persona camminava avanti e indietro latrando ordini. Ogni tanto indicava la strada, e subito uno sparo lacerava l’aria, coprendo ogni altro rumore, e qualcuno cadeva a terra. Nel frattempo i soldati continuavano a spingere piccoli gruppi verso i camion. Ecco il resoconto di Klara di quelle brutalità: «Alcuni erano morti, alcuni vennero fucilati. Ma il modo in cui li sollevavano e li buttavano via… come si butta via un pezzo di carne».

    Klara vide i feriti e i morti che venivano semplicemente presi per i piedi e trascinati in strada. Le donne osservavano, ammutolite dall’orrore, mentre i loro bambini venivano portati via per le braccia e le gambe, sollevati da terra, gettati sul retro del camion.

    Finalmente alcune madri si lanciarono in una corsa disperata verso i camion, urlando i nomi che avevano dato ai loro giovani figli. Alcune si arrampicavano sui camion, altre furono costrette a fermarsi e poi gettate sui camion assieme ai loro piccoli. Grzymek aveva il controllo assoluto. Non ci sarebbe stato caos, niente affatto, anche se le urla e gli strepiti delle donne che piangevano e gridavano erano così forti da lacerare l’alto dei cieli. Klara rimase con un piccolo gruppo di testimoni, terrorizzata dall’orrore che si consumava sotto i loro occhi. Guardò i soldati in piedi accanto a loro. «Persino le guardie che erano tornate al ghetto insieme a noi rimasero in silenzio. Se ne stavano lì, muti, e basta», ricordò Klara.

    In fondo alla strada, l’isteria continuava, implacabile. Nel panico, nella fretta di trovare i propri cari, quasi tutte le madri evitavano i camion: avevano il terrore di trovare lì coloro che stavano cercando. Invece, correvano dritte a casa, ai nascondigli sicuri in cui avevano lasciato i loro bambini la notte precedente. Spalancavano porte, aprivano armadi e credenze, guardavano sotto i letti, mentre un inesauribile coro risuonava per le scale, per i piani, sui tetti: i nomi dei bambini, urlato a squarciagola. I letti erano ancora caldi, le sedie erano state ribaltate. I bambini erano scomparsi.

    Paulina Chiger arrivò nel suo appartamento e lo trovò deserto. Le sue urla si unirono a quelle delle altre donne mentre controllava, ancora e ancora, nel guardaroba e nella valigia sotto il letto. Tornò nel corridoio e si lanciò di corsa per le scale, fino all’officina nel seminterrato. Ignacy, suo marito, era il caporeparto, supervisionava le riparazioni dei mobili e di tutto ciò che aveva

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