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La volta di Giulia
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E-book169 pagine2 ore

La volta di Giulia

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Info su questo ebook

Tutto torna. Ammonimento o predizione che sia, rispetta l’impressione che durante l’esistenza azioni e reazioni seguono una sorta di schema, di modello comportamentale con cui la vita ripropone situazioni che sembrano casuali e avversità camuffate da punizioni.

Giulia stenta a credere che la sua vita sia una scatola cinese, in cui ogni scoperta ne nasconde un’altra facendola entrare in un labirinto di coincidenze, strani incontri, realtà fantastiche in grado di svelarle la verità e apparenze incapaci di chiarirle l’evidenza.

E intanto il tempo scorre, ma a Giulia regala un’opportunità unica: quella di nascere una seconda volta nella stessa vita. Si comporterà sempre nel medesimo modo? Aprire l’ultima scatola cinese la aiuterà ad uscire dal labirinto.

Un romanzo dal passo lento, che accompagna il lettore lungo il corridoio di un’esistenza multiforme, scoprendo le porte delle stanze nascoste.
LinguaItaliano
Data di uscita3 ott 2018
ISBN9788827847121
La volta di Giulia

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    Anteprima del libro

    La volta di Giulia - Gabriella Orlandi

    male.

    1. La vita di prima

    - Dio, che fatica!- stavo ripetendo quella frase nella mente almeno da un’ora, ormai le braccia si muovevano quasi per forza d’inerzia; la dolenzia e la pesantezza delle gambe incitavano la mia determinazione ad arrivare più in fretta alla fine dell’allenamento.

    La lentezza e il mio scarso rendimento non erano passati inosservati e sotto la doccia le mie compagne non mancarono di farmelo notare.

    - Hei Giulia, è più di una settimana che nuoti come una vecchia di trent’anni, cos’hai?- chiese Chiara, mentre si sfilava il costume bagnato.

    - Alla sorella di una mia amica hanno trovato che era anemica forte, gli hanno fatto persino delle endovene di ferro. Era pallida come te, sicura che non butti via il cibo di nascosto come faceva lei?- si intromise Simona.

    - No, sto come sempre.- risposi, sputacchiando l’acqua della doccia,- E’ il solito dolore sotto la scapola, ogni tanto mi punta come un coltello e insiste per intere settimane. In più, i vicini di sopra fanno un gran casino fino a notte fonda e io riesco a prendere sonno che è quasi mattina!.- mentii.

    Uscii dagli spogliatoi in compagnia delle mie amiche, scherzando come al solito, nonostante sentissi la testa come affondata in una matassa d’ovatta, in cui il mio cervello faticava a muoversi. Comunque, ero intenzionata a non dare troppo peso al mio malessere, ero abituata a sopportare sforzi ben più sfinenti che un leggero stordimento insistente, sapevo ignorare il dolore come la fatica, dopo anni di nuoto agonistico il mio corpo ubbidiva prontamente ad ogni mio comando. 

    Appena fuori dall’impianto sportivo chiamai al cellulare Alberto, il mio ragazzo, chiedendogli se avesse organizzato l’imminente serata del venerdì.

    - Mah… e se ce ne stiamo a casa mia belli tranquilli, non è meglio?- mi rispose tergiversando,- Sono stanco già oggi… figurati domani!.-

    Sopportavo malvolentieri la sua indolenza e anche se mi sforzavo di comprendere la sua dedizione al lavoro, che lo teneva occupato anche per dieci ore al giorno nell’officina di suo padre, era pur sempre un giovane di venticinque anni, doveva per forza aver voglia di divertirsi il fine settimana!.

    - Ma… Alberto me lo avevi promesso… che lagna che sei!- protestai stizzita.

    In realtà non era tanto la rinuncia al venerdì con gli amici ad indispormi, quanto la prospettiva di trascorrerlo in compagnia di un ragazzo troppo casalingo, totalmente indisposto a lasciare il tetto famigliare, costringendomi a subire la presenza dei suoi genitori tutte le volte che andavo a casa sua. A parte la sua stanza, attaccata a quella di suo fratello minore, non c’era altro spazio che ci consentisse di rimanere soli e comunque dovevo sloggiare prima di mezzanotte, come una mia lontana parente amica… di zucche e topini.

    - Ma perché esci con quello?- mi chiese Chiara, camminando sull’asfalto bagnato dalla pioggia ,- Guarda che voi due fate una coppia del tutto stonata, che so… tipo un pinguino con un cammello… il cammello è lui, naturalmente. Infatti ha lo stesso sguardo pronto e intelligente di quell’inutile animale!.- rise sguaiatamente.

    La mia amica non eccelleva certo in delicatezza e discrezione, era famosa per i suoi modi spicci e irriguardosi, ma soprattutto tra gli amici era ricercata per la sua capacità di mettere tutti di buon umore e, in pizzeria come a scuola riusciva sempre a creare caricature divertenti, pochi riuscivano a sfuggire al suo contagioso e provocatorio umorismo da bar.

    - Non essere cattiva,- protestai risentita,- Alberto è uno in gamba, non sarà brillante e sveglio come il tipo a cui fai il filo tu da un anno, e che mai ti degnerà di uno sguardo, ma è… bravo. Bacia bene, ha i soldi per pagare qualche weekend al lago ogni tanto, sopporta i miei sbalzi d’umore… cosa vuoi di più da un uomo?.-

    - O cazzo!… non hai nemmeno vent’anni e parli già come faceva mia madre, prima che si separasse da mio padre nel 2005. Adesso ha cambiato registro e… non si accontenta più.-

    - Infatti è sola come un cane!.- la ripresi, con spirito di rivalsa.

    Finimmo per ridere entrambe, sapevamo che non c’era una ricetta valida per tutti, gli affari di cuore erano complicati solo per chi voleva renderli tali, per me invece era tutto… chiaro.

    Ci avviamo verso la fermata, l’autobus era in ritardo, ma per noi non era un problema. Appoggiate alla parete della pensilina di alluminio la nostra unica preoccupazione era quella di scaricare l’ennesima applicazione per modificare le foto sul cellulare. Un passatempo come un altro, che allenava fantasia e immaginazione tenendoci piacevolmente occupate.

    La luce abbagliante e malferma dei fari distolse il mio sguardo dallo schermo del cellulare, il rumore stridente dei freni mi confermò che l’attesa era terminata.

    Casa mia era un appartamento di poco più di novanta metri quadrati, dotato di un solo bagno, due camere da letto, una piccola cucina e un soggiorno tutto sommato abbastanza ampio da consentire a me e ai miei genitori di convivere piacevolmente il tempo sufficiente per guardare un film alla tv. Per il resto… i vicini erano anonimi quanto il condominio in cui abitavo, distante un paio di centinaia di metri dal Duomo cittadino, il cui grande difetto era quello di suonare le campane ogni santa mezz’ora, richiamando costantemente l’attenzione sul trascorrere del tempo e ricordare la temporaneità dell’esistenza. Questa era stata la spiegazione che mi aveva dato anni addietro il parroco don Carlo, quando gli avevo chiesto se fosse stato possibile abolire quel prepotente avvertimento almeno nelle ore notturne. Sorrisi, ricordando l’ingenua rassegnazione con cui accolsi quella banale scusa, a quei tempi non avevo motivi di dubitare delle parole di un uomo che andavo ad ascoltare tutte le domeniche. Tuttavia… odiavo quelle campane!

    - Si vede che la mamma si è dimenticata di accendere la caldaia, qui dentro fa un freddo cane!- sbottai tra me, entrando nel soggiorno buio. A quell’ora i miei genitori avrebbero dovuto essere a casa, ma probabilmente si erano trattenuti più del dovuto da qualche parte, magari avevano deciso di andare insieme al supermercato perdendo il senso del tempo, era già capitato!.

    Mi stravaccai sul divano coprendomi con il plaid per scaldarmi più velocemente possibile e cercare di calmare il dolore che insisteva sotto la scapola. Ormai non ricordavo più un periodo libero da quella punta di coltello, come la definivo io, che mi premeva più o meno a metà schiena e che non mi abbandonava nemmeno la notte. Mi aveva già oppresso in passato, durava mesi, poi all’improvviso se ne andava come era venuto, senza nessuna terapia. Alla TAC non risultava nessuna lesione, né alle vertebre né ai legamenti e nemmeno alla cistifellea, come sospettavano i dottori, così mi ero rassegnata a sopportarlo, finché non se ne fosse andato via da solo.

    Ultimamente, però, mi capitava anche un altro tipo di disturbo: durante l’allenamento avvertivo un senso di stordimento che non avevo mai sentito prima: mi sembrava di avere l’acqua nel cervello, oltre che nelle orecchie, e davanti agli occhi si creavano delle immagini sfumate nei contorni, ma vivide di sensazioni, come se stessi assistendo ad un film muto attraverso le lenti degli occhialini da nuoto.

    Quella sera non riuscii a mangiare, un senso di nausea mi opprimeva lo stomaco, lasciandomi la bocca amara e priva di saliva. Mi addormentai prima del solito, senza, per altro, riposarmi bene, colpa di un indolenzimento che avvertivo diffuso in tutto il corpo e che imputai alle settanta vasche a dorso che avevo fatto nel pomeriggio.

    Piombai in un sonno profondo, ma entrai subito in un sogno enorme popolato da persone che non conoscevo, vestite in un modo strano, che richiamava molto… gli antichi egiziani.

    Nei sogni non si può rifiutare o cambiare lo svolgimento dei fatti, l’unica possibilità è di assistervi in qualità di inerte spettatore: in un ambiente che, nel repertorio del mio immaginario, poteva essere un tempio o un palazzo, vedevo radunate una decina di persone dal volto olivastro, un po’ scarno e dal profilo allungato, con il torace nudo e le cosce coperte da una specie di grembiule che dava appena sopra le ginocchia. Tre di loro dovevano essere prigionieri, dal momento che avevano le braccia dietro la schiena e i polsi legati; a fianco a loro c’erano delle guardie con delle lance tenute dritte, appoggiate a terra; infine, su un piccolo palco attorniato da bracieri accesi, un uomo, vestito in modo più elaborato degli altri, inveiva furiosamente contro uno dei prigionieri, ordinandogli di parlare per difendersi dalle accuse di cui erano imputati. Il suo tono era autoritario, ma a tratti supplichevole, come se lo pregasse di fornirgli il pretesto per sottrarlo alla pena capitale che avrebbe inevitabilmente subito. Intuii che doveva essere una sorta di magistrato, anche se mi parve strano che un’autorità si prendesse la briga di cercare di evitare con tanta foga l’esecuzione di una condanna.

    Sapevo di sognare, ma non riuscivo a svegliarmi, anzi quella strana scena continuava a svilupparsi coinvolgendomi sempre di più, al punto che mi parve addirittura di impersonare la figura dell’uomo che stava giudicando i tre imputati. Senza capire come avvenne, mi ritrovai davvero nei panni del funzionario del faraone, a cui erano stati conferiti il potere di giudicare e condannare chiunque si fosse reso colpevole di atti contro l’integrità del regno o di congiurare contro la persona del faraone.

    I tre uomini che stavano di fronte a me dovevano essersi ribellati a qualche ordine o qualcosa di peggio, ma non era l’entità del reato ad inviperire il magistrato, cioè me, bensì il fatto che uno dei tre fosse… un suo amico, un amico molto importante, dal momento che la sua incitazione aveva assunto un tono implorante, oltre che adirato. Egli ordinava al prigioniero di trovare delle giustificazione alla sua disobbedienza, di chiedere il perdono del faraone, che, forse, avrebbe commutato la pena capitale in una più mite.

    Sapevo di stare sognando, ma in quel momento ero anche dentro a quell'autorevole personaggio pubblico, che non poteva disattendere i suoi doveri verso il faraone, così come non poteva evitare la condanna a morte del suo amico, se lui stesso non si fosse difeso. Incrociai lo sguardo del prigioniero, per nulla spaventato, ma, al contrario, sollevato e sereno.

    Mi sorpresi a provare dentro di me un disperato sgomento per l’inevitabile sentenza che da lì a poco sarebbe stata eseguita, lo vivevo in modo vivido e intenso, tanto che mi parve che quell’angosciante sensazione prendesse corpo e diventasse un urlo incontenibile e assordante, un’onda d’urto capace di distrugge ciò che investe. Mai, prima di quel momento, avevo sperimentato una sensazione di resa tanto disperata e attraverso gli eventi a cui stavo, mio malgrado, partecipando, ne diventavo consapevole. Quando i prigionieri furono accompagnati dalle guardie fuori dal tempio, il funzionario si ritirò nelle sue stanze e qui diede sfogo alla sua rabbia indignata lanciando a terra suppellettili e scagliando statue di legno contro il muro. Infine, prese tra le mani un grosso vaso dipinto con bellissimi colori brillanti e con un urlo di feroce rassegnazione lo gettò con forza contro una lastra di metallo, molto somigliante ad uno specchio, riducendolo in mille pezzi, di cui uno rimbalzò conficcandosi nella carne del suo dorso. Il magistrato, dolorante e in ginocchio, si ritrovò a radunare con lo sguardo i frammenti di vetro sparpagliati per terra, quasi volesse ricostruire l’immagine della sua identità, ormai mutata per sempre.

    Mi svegliai di soprassalto sgranando gli occhi e respirando affannosamente, non misi subito a fuoco la stanza, le lacrime impedivano una visione chiara ed immediata del mio ambiente di sempre. Quando mi ripresi del tutto buttai di lato le coperte e, nonostante il forte indolenzimento in tutto il corpo, iniziai a prepararmi per andare a scuola. Non intendevo farmi prendere la mano da un sogno in 3D, avevo un’interrogazione importante e una verifica di recupero e in più era venerdì…  nessun faraone mi avrebbe impedito di divertirmi!.

    Dopo aver ingurgitato la minuscola bottiglietta di jogurt liquido, che secondo mia madre mi avrebbe preservato da qualsiasi malanno invernale, uscii salutando velocemente mio padre che, lavorando in banca,poteva partire più tardi da casa rispetto a me e a mia madre. Lui era quello che definivo un metodico, annotava ogni passaggio della giornata su un piccolo notes che riponeva nella tasca destra della giacca, consultandola ogni cambio dell’ora, per evitare di dimenticarsi qualcosa. Non che avesse molto da fare, oltre al suo lavoro, ma pianificava la sua quotidianità in modo da non lasciare tempi morti, improduttivi, diceva lui. Roba da sfigati, dicevo io.

    - Che noia la prof di italiano!- sbuffò Chiara, mentre sgranocchiava lo snack dell’intervallo,- Ogni volta che c’è la sua ora faccio finta di essere al primo giorno del primo anno e conoscerla per la prima volta, è l’unico modo per sopportare la sua voce odiosa e le sue lezioni tediose. Quanto manca alla fine?-

    - La fine? Sei più noiosa tu di lei!- risposi divertita,- Sono cinque anni che mi ripeti la stessa cosa, che ti costa ascoltarla e basta? E pensare che lei è così ben disposta con te, dovresti approfittarne!.-

    - E’ quello che faccio! Me la sto lisciando in vista della maturità, dopo di che… non la filerò mai

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