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Il treno della libertà
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E-book337 pagine4 ore

Il treno della libertà

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Info su questo ebook

Borgo Settecase è un paesino montano del Canton Ticino, pochissimi abitanti, tutti conoscono tutti. La maggior parte della gente vive nel timore di Dio, sforzandosi di condurre un’esistenza apparentemente perfetta, ma spesso nascondendo peccati noti comunque a tutti. San Nicola è la città più vicina e per i ragazzi di Borgo Settecase e dell’intera valle è il luogo del divertimento, mentre per gli adulti è la porta dell’Inferno. Omar e i suoi coetanei vivono in questa realtà, innamorati della natura che li circonda e della pace delle vallate, ma desiderosi, appena possibile, di evadere in città per sfuggire al bigottismo e alla monotonia paesana. Da adolescenti sprovveduti diventano giovani uomini e per gli uomini, si sa, è più complicato affrontare le maldicenze e le accuse di un intero paese. D’altra parte Omar desidera solo vivere liberamente, senza catene, ma il paese gli permetterà questo? Un avvincente e appassionante romanzo, scritto dalla graffiante penna di Christian Giovanettina, una narrazione ricca di dettagli ed emozioni che ci farà inevitabilmente affezionare ai suoi protagonisti.
LinguaItaliano
Data di uscita27 dic 2016
ISBN9788856781045
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    Anteprima del libro

    Il treno della libertà - Christian Giovanettina

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2016 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatrosilfilo.it

    ISBN 978-88-567-8104-5

    I edizione elettronica novembre 2016

    «La natura genera tutti liberi.

    E in tutti è naturale l’amore per la libertà.»

    (Plauto)

    Grazie di cuore

    a Swing e a Gongy,

    inesauribili fonti di amicizia

    Introduzione

    Ho deciso di scrivere questo libro perché avevo una storia da raccontare, una storia vera.

    Sono un uomo assolutamente comune, come milioni d’altri in tutto il mondo. Eppure, tra l’estate del 1983 e l’autunno del 1989, fui testimone di eventi straordinari e al tempo stesso terribili, il cui epilogo devastò l’anima del mio tranquillo paese – Borgo Settecase – e dell’intera valle.

    Nell’autunno del 1989 le cronache del Ticino riferirono di un tragico destino che strappò la vita a un ragazzo di vent’anni, mio coetaneo e amico d’infanzia. Dalle indagini condotte all’epoca dagli inquirenti non emersero dubbi sulle cause di quella morte violenta e il caso venne rapidamente archiviato come un suicidio. Nonostante intorno alla vicenda aleggiassero ombre pesanti, la società di allora non era affatto desiderosa di conoscere la verità, cosicché – tutti d’accordo – ci s’impegnò a scordarsi dell’accaduto nel minor tempo possibile.

    Negli anni si consolidò una sorta di tacita intesa che proibiva anche il semplice fatto di parlarne, come se il morto fosse colpevole lui stesso di qualcosa che era meglio tacere. Ammetto che, essendo anch’io ragazzo, non mi presi la briga di capire e mi piegai supinamente a quei dettami omertosi senza farmi troppe domande.

    Finché una mattina d’autunno – e ormai erano passati più di vent’anni – in città incontrai per caso un amico, anche lui cresciuto tra le montagne, in quel paese dimenticato da Dio. Bevemmo volentieri un caffè insieme, tuffandoci inevitabilmente nel passato, quand’ecco che, all’improvviso, il vaso di Pandora che racchiudeva il voto di silenzio di tanti anni prima venne scoperchiato. Non senza emozione, mi confidò i contorni agghiaccianti che contribuirono a provocare quella morte. «Amico mio» confessò tra le altre cose, «suicidio non è affatto la parola giusta...», sottintendendo a denti stretti che quel ragazzo fu vittima di un delitto.

    Le sue parole continuarono a riecheggiare nella mia testa per tutto il giorno, senza darmi tregua, tanto da sentirmi moralmente in obbligo di ricercare quella verità che per troppi anni la gente di paese si era affannata a occultare per ragioni non proprio cristalline. Così avviai delle personali ricerche.

    Quanto scoprii mi sconvolse: quel giovane compaesano fu davvero la vittima incolpevole di un delitto!

    Ho impiegato oltre dieci anni per ricostruire fedelmente, nei minimi dettagli, la sua travagliata vicenda, fino agli ultimi istanti della sua vita. Dieci anni trascorsi a raccogliere testimonianze drammatiche, a rincorrere segreti inconfessabili, ad ascoltare maldicenze deliranti; e tutto ciò per tentare di disegnare il volto dei responsabili che si sono macchiati di un crimine tanto efferato.

    Oggi quegli assassini hanno un nome. Tuttavia non saliranno mai sul banco degli imputati, poiché per la giustizia ordinaria non sussistono gli estremi per istruire un processo a loro carico. Mandanti, fiancheggiatori, esecutori: rimarranno tutti impuniti, se la caveranno senza patemi d’animo, senza groppi in gola. Senza neanche un giorno di galera.

    Ora però intendo rivelare tutta la verità. E quanto realmente accadde trent’anni fa a Borgo Settecase, rivive oggi in queste pagine.

    1

    «Spingi più forte, avanti!» e rincarò, con voce concitata, «di più, di più, non sono mica una femminuccia! Guarda adesso, perfino senza mani!»

    La mia sopportazione – il cui basso livello costituiva il massimo della mia generosità – era al limite: non solo mamma Iris mi aveva obbligato con un losco ricatto a trascorrere il pomeriggio al parco giochi con Paolo, mentre io avevo di meglio da fare, come oziare, ma quel giorno d’estate fui anche costretto a sciropparmi una filippica da papà Alberto sulle responsabilità che un primogenito riveste all’interno della famiglia.

    Ero appena stato punito perché avevo nascosto due innocui topolini campagnoli nella mia camera. Quando la mamma li scoprì, dissimulati in modo maldestro sotto il letto, in una scatola di cartone avvolta da un lenzuolo di lino bianco, ci fu un attimo in cui vibrarono anche i vetri di casa: sia per le sue urla di terrore nel vedere quelle bestiacce puzzolenti, ricettacoli di malattie che per i sonori rimproveri che ne seguirono. Una volta ripreso il controllo dei propri nervi, mi ordinò di sbarazzarmene rassicurandomi tuttavia che non avrebbe raccontato della mia prodezza a papà. Mi sentii sollevato. All’epoca mio padre era impegnato in una complessa causa in tribunale, spesso rientrava a casa dall’ufficio a notte fonda, stanco e con pesanti faldoni da consultare, e la mamma non desiderava soffocarlo inutilmente con altri pensieri.

    Oltre a proibirmi di uscire di casa la sera per una settimana intera e all’obbligo di sbrigare una serie infinita di faccende domestiche, sapevo che un giorno mia madre mi avrebbe chiesto un ulteriore favore che non le avrei proprio potuto negare. In cambio avrei beneficiato del suo silenzio e, forse, del suo perdono. E quel giorno arrivò. Ero intento a riordinare la mia camera, espiando così un’altra delle mie pene, quando la sua sagoma affaccendata comparve sulla porta. I lunghi capelli castani erano raccolti in un foulard verde e indossava un dozzinale grembiule a quadrettoni che le conferiva un aspetto trasandato. Spesso, quando cucinava, era solita salmodiare vecchi canti popolari dal sapore vagamente gospel. Ogni volta che la vedevo conciata in quel modo, con la pelle abbronzata, me la immaginavo di ritorno da un campo di cotone dell’Alabama.

    «Tuo padre resterà allo studio fino a tardi,» esclamò, «fammi un favore, va’ al parco giochi con tuo fratello, io non ho tempo di badare a tutt’e due, domani zia Clara ci farà visita, la casa dovrà essere uno specchio!»

    Nella mia testa di quattordicenne quella richiesta suonava né più né meno come un ricatto: o porti Paolo al parco o racconto la storia delle pantegane a tuo padre.

    Ormai i suoi occhi videro enormi ratti di fogna, assetati di sangue, e non innocui Mus musculus di campagna, ma purtroppo dopo il fattaccio non mi trovavo certo nella posizione di poter dibattere su sfumature semantiche. Oltretutto non ci tenevo proprio ad approfondire la questione perché in realtà le due tenere bestioline non erano sole. Infatti facevano parte di una colonia ben più numerosa, composta da almeno dodici fertilissimi esemplari, catturati con diligente pazienza nell’arco di quattro o cinque giorni e che avevo nascosto per tutta la casa. Ma vista la malaparata, non ero affatto interessato a conoscere la reazione della mamma se li avesse scoperti, così li liberai nei boschi prima che potesse accorgersene. La punizione appena ricevuta era più che sufficiente.

    Questi e altri pensieri albergavano la mia mente in quella torrida estate del 1983, quando un tonfo sordo mi riportò alla realtà. Protesi le mani in cerca della schiena di mio fratello da sospingere, ma tutto ciò che riuscii ad agguantare fu il seggiolino dell’altalena, inspiegabilmente vuoto. Paolo strillava disperato a circa cinque metri da me. Nei frangenti in cui il mio cervello era impegnato a elaborare la visione di quella scena surreale, mi ritrovai a pensare che diavolo, ma subito mi riebbi e m’inginocchiai turbato accanto a lui.

    «Ahi, ahi, mi fa male il braccio!» Paolo si lamentava come una prefica a un funerale e tra le lacrime che gli inondavano gli occhi azzurri ripeteva: «mamma, mamma! Dov’è la mamma?»

    Lo spavento tirò un sipario di gelo sul mio cuore. Paolo si contorceva a causa di dolori lancinanti, strepitava e invocava l’aiuto di nostra madre. La gente del parco, intanto, aveva incominciato a radunarsi a grappolo attorno al suo corpicino per decifrare l’origine di quella confusione, pareva che i suoi ululati avessero richiamato tutti gli abitanti di Borgo Settecase.

    «Povero bambino» commentò la signora Soldati, la nostra vicina di casa ficcanaso. Alle sue parole se ne aggiunsero altre, ugualmente inutili come dei forconi per spalare la neve: «sei caduto dall’altalena», «com’è successo?», «ti fa male?», «hai fatto le vaccinazioni?», «oh, ma che belle scarpe!»

    La noia che di solito serpeggiava a Borgo Settecase fu felicemente interrotta da quel piccolo dramma, così ognuno desiderava dire la sua, avventurandosi in inservibili consigli.

    Alla fine quel coro insignificante di gente che parlottava a vanvera fu sovrastato da una voce decisamente più rispettabile, quella del signor Agustoni, che tutti in paese chiamavano dottore. In realtà il signor Agustoni non era dottore in medicina e, anzi, nel suo curriculum non figurava alcun titolo accademico. Possedeva un’autofficina in città, a valle, e i clienti che gli portavano vecchi catorci da riparare sostenevano che le sue mani, per quanto tozze, dentro un motore danzavano con perizia chirurgica. Sotto i suoi ferri nessun paziente era mai passato a miglior vita, anzi veniva dimesso con tanto di garanzia. Era un omone imponente, gigantesco, superava abbondantemente i cento chili. Il suo timbro di voce basso ma intenso ne esaltava la figura austera, mentre la fronte ampia rilevava che la calvizie era all’opera già da tempo. L’orecchio destro appariva leggermente più grande di quello sinistro e aveva una piccola cicatrice sotto il mento barbuto. Con una benda sull’occhio e una feluca sul capo, poteva essere scambiato per un pirata.

    «Paolo, dove ti fa male? È il braccio, vero?» chiese con una dolcezza angelica che mal si accostava alla sua enorme stazza. Con la medesima apprensione amorevole che solo una mamma conosce, il dottor Agustoni sfiorò l’arto dolorante di mio fratello con le sue mani possenti. Paolo, che ormai continuava a dimenarsi, nel momento in cui si sentì tastare il braccio destro ebbe un sussulto, ma poi, quando diede un nome a quelle mani, osservai che il suo volto arrossato – per un attimo – si quietò.

    Alti faggi si allungavano sopra le nostre teste riparandoci dal sole infuocato, mentre tra i rami un gruppetto di zigoli neri discuteva animatamente emettendo sonori cinguettii.

    Rimasi per tutto il tempo accovacciato accanto a mio fratello, senza proferire parola, sebbene la mia bocca fosse spalancata. Ero pietrificato. Non ebbi nemmeno la forza di dire una frase rincuorante che, per quanto banale, potesse far capire a Paolo che sì, dannazione, ero lì accanto a lui, che non doveva preoccuparsi, che l’avrei salvato. Invece niente. Ancora oggi, a distanza di tanti anni, quando Paolo e io ricordiamo scherzosamente quell’episodio, non so dire chi dei due fosse più atterrito. Paolo era un bambino, io ero poco più che un bambino, ma mi consideravo già grande. Era questa l’unica differenza.

    A quattordici anni il mondo cambiava continuamente. O meglio, lui era sempre lo stesso, ero io semmai a vederlo in modo diverso. E pensare che in quel periodo avevo la presunzione di ritenermi onnipotente: vittima della pubertà, il mio umore era una giostra fuori controllo sulla quale improvvisi stati di gioia si alternavano ad attimi di sconforto, da momenti di lucidità passavo rapidamente a istanti di disordine mentale; nella mia testa turbolenta il caos regnava come un dittatore e la mia supponenza conviveva forzatamente con mille paure. Insomma, altro che una divinità, ero un normalissimo adolescente, insopportabile e ingestibile, con una gran voglia di crescere.

    Mentre me ne stavo lì a fare scena muta, immobile, con gli occhi pallidi spalancati sul nulla, Paolo riceveva un’infinità di attenzioni dal signor Agustoni. Lo aiutò ad alzarsi, con calma, accompagnandolo in ogni suo gesto affinché non facesse movimenti bruschi. Gli piegò dolcemente il gomito ad angolo retto, estrasse dalla tasca dei pantaloni uno straccio di stoffa e lo annodò con cura dietro al collo per sostenergli l’avambraccio. Si trattava di un cencio intriso di olio e grasso che sarebbe sicuramente stato bandito da qualsiasi sala operatoria, ma mi guardai bene dal farglielo notare.

    «Tu!» ruggì con tono greve, guardandomi fisso negli occhi, «corri a casa e avverti tua madre! Dille che Paolo probabilmente si è rotto il braccio, passo a prenderla dopo che avrò sistemato tuo fratello in auto.» Poi la sua voce tornò lieve, «ormai hai otto anni e sei un ometto, vero?» gli sussurrò. «Adesso ci asciughiamo quelle lacrime e andiamo all’ospedale, dove presto starai bene.»

    Nel breve tragitto verso casa i miei piedi presero la forma di ali che mi sostentavano in ampie falcate. Mi sentivo il Carl Lewis della situazione, anche se in palio non c’erano medaglie da vincere ma solo una madre da spaventare.

    Giunsi davanti al portico di casa ansimando. Esitai un istante. Ero certo che, una volta superato il panico, mamma e papà avrebbero escogitato il modo di incolpare me dell’incidente. Già li sentivo distintamente investirmi come un treno impazzito con invettive aspre, condite da prediche sulla mia inguaribile irresponsabilità e sulla mia incurabile incoscienza. Benché i rimproveri non fossero ancora stati pronunciati, le parole acuminate dei miei genitori mi tormentavano già lo stomaco. Inoltre ero persuaso dal fatto che Paolo fosse il cocco di mamma (cosa di cui ero profondamente geloso) e non mi avrebbe sorpreso se si fossero spinti oltre, accusandomi di averlo fatto ruzzolare volontariamente dall’altalena. Dentro di me sapevo che ora di sera i vetri di casa avrebbero vibrato ancora e a lungo...

    Attraversai l’uscio indugiando. Mia madre era intenta a strofinare l’argenteria in soggiorno, l’indomani zia Clara vi si sarebbe specchiata compiaciuta, o almeno così sperava la mamma.

    «Non è stata colpa mia...» bofonchiai cingendomi forte la testa tra le mani, quasi non fosse saldamente ancorata al resto del corpo e stesse per saltarmi via da un momento all’altro.

    «Eh? Che succede?»

    «Paolo... Paolo è...»

    «Avanti, che avete combinato voi due?»

    Silenzio.

    La mamma incalzò nuovamente. «Non mi pare che le notizie migliorino se te le tieni per te!» La mamma è sempre stata ironica. Anche quando, in futuro, avrebbe affrontato momenti infelici, l’ironia le sarebbe stata di conforto, alleviando le tempeste di dolore che divampavano nella sua anima. «Incupirsi non serve a nulla, no?», ripeteva spesso. Era una qualità che ammiravo.

    «Paolo è caduto dall’altalena, il signor Agustoni dice che si è rotto un braccio e sta venendo a prenderci in macchina per andare all’ospedale!» Mi liberai di tutta la verità d’un fiato.

    «Oh, Gesù!» esclamò smarrita, tenendosi una mano sulla bocca e lasciando cadere a terra la teiera d’argento che stava lucidando. Sebbene cristiana, la nostra non era proprio una di quelle famiglie che divulgavano la parola di Dio a ogni piè sospinto, però in determinate circostanze Santi e Madonne erano scomodati in svariati modi a casa nostra, specialmente quando papà veniva a sapere della visita di zia Clara.

    Sgraziata e rumorosa, nel vialetto comparve la vecchia Alfasud grigia del signor Agustoni, pesantemente inclinata dal lato del guidatore. Si arrestò sotto l’imponente ciliegio che, da quasi settant’anni, vegliava sulla nostra casa come una sfinge egizia. La mamma e io prendemmo posto alle estremità del sedile posteriore, Paolo sedeva al centro, con la testa placidamente annidata nel petto materno. Il signor Agustoni innestò la prima e partì.

    Il sole splendeva alto e solitario, incorniciato nel cielo terso. L’estate era appena iniziata e la scuola non rientrava tra le mie priorità, almeno non ancora. Aspettavo con impazienza la fine della settimana, quando la mamma avrebbe revocato i miei arresti domiciliari (compresi i lavori forzati) e avrei potuto bazzicare per il paese con Omar, sempre che fossi stato assolto da una probabile accusa di negligenza verso mio fratello. Al momento non ero ancora stato formalmente incriminato e rimanevo un semplice sospettato, anche se spesso a casa, quando c’ero di mezzo io, le due cose erano imprescindibili l’una dall’altra.

    2

    L’ospedale si trovava a valle, alla periferia di San Nicola, e distava una decina di chilometri dall’assonnata frazione di Borgo Settecase. Si ergeva in tutta la sua fatiscenza e bruttura lungo la sponda ovest del lago Serìceo. Costruito negli anni quaranta cambiò veste per ben tre volte: originariamente fu pensato come scuola militare e centro amministrativo, attorno alla metà degli anni cinquanta fu convertito a polo assistenziale e, infine, negli anni sessanta divenne il tetro ospedale che è ancora oggi. Ricordo che dopo il parto, quando andai con mio padre a prendere la mamma e il neonato Paolo, il cielo era caliginoso, era inverno e tirava vento. Dal lago plumbeo si stagliavano banchi di nebbia che si inanellavano minacciosamente attorno alla sommità dell’edificio, mozzandone la cima. Quella visione avrebbe spaventato qualsiasi bambino, perché era come guardare un film dell’orrore.

    Una volta scesa dall’auto, la mamma ebbe un lampo: a causa del trambusto si era dimenticata di avvertire papà dell’incidente capitato a Paolo. Strano, ma la sua mente non considerò neppure per un istante le peculiari risorse che offriva il nostro microscopico e comunicativo paesello montano... Infatti i nostri operosi concittadini, capeggiati dall’indiscreta signora Soldati, nel frattempo avevano già attivato l’intelligence e quando il signor Agustoni parcheggiò nell’area riservata alle urgenze del pronto soccorso, un bene informato papà già attendeva il nostro arrivo.

    Il braccio di Paolo, intanto, si era gonfiato come un canotto. Camminando lungo il corridoio lo presi per mano, teneramente. Da qualche anno ormai, più o meno quando spuntarono i miei primi peli sotto le ascelle, mi guardavo bene dall’esternare certe effusioni, specialmente in pubblico. Niente carezze, niente abbracci, niente smancerie da bambini. Ero troppo grande per queste cose. Ma in quell’occasione la pena per il mio fratellino prese il sopravvento e feci quel gesto senza rendermene conto.

    A un cenno di saluto di mio padre ammiccò cordiale il primario di pediatria, medico e amico di famiglia, il quale si avvicinò con fare indagatore, grattandosi la testa. Si trattava del dottor Mezzasalma. Il nome, di per sé, era tutto un programma, specialmente se si considera il lavoro che faceva il professore. Nome a parte, veniva considerato un luminare della medicina, unanimemente apprezzato dal circuito scientifico internazionale. L’odore pungente di fenolo, tipico degli ospedali, aveva già iniziato a nausearmi.

    «Paolo, ti sei battuto a braccio di ferro?» domandò il primario, inforcando gli occhiali e spingendoli sopra il naso.

    «No... Sono caduto dall’altalena...»

    Stralunai gli occhi. Ecco una risposta in grado di scagionarmi. E pensai trionfante: avete sentito? Ha fatto tutto da solo! Io non c’entro!

    Il signor Agustoni, mio padre e io ci accomodammo in un’angusta saletta in fondo al corridoio principale, mentre il professor Mezzasalma accompagnò Paolo in una delle sale per le visite, seguito dalla mamma che era angosciatissima. Un’infermiera corpulenta sgattaiolò nella stanza e consegnò a papà un formulario da compilare con i dati anagrafici e la storia medica del paziente. Il signor Agustoni aveva la fronte imperlata di sudore, camminava irrequieto avanti e indietro nello stanzino, intanto gli occhi studiavano il pavimento.

    «Esco per qualche minuto, ho bisogno di sgranchirmi le gambe, mi sento soffocare qui dentro!» esclamò.

    Mio padre, che per tutto il tempo non si era mai scomposto, gli fece subito eco. «Certo, qui andrà per le lunghe. Ti chiamo se dovessero esserci delle novità e... grazie mille, grazie di cuore.»

    «Ci mancherebbe!» e si dileguò con passi pesanti.

    Papà faceva l’avvocato. In quel periodo patrocinava la ricchissima famiglia Baroschi. L’influente capostipite, sostenuto da buona parte della discendenza, sospettava che uno dei suoi nipoti avesse raggirato una zia che non ci stava più con la testa, così decise di fargli causa perché l’anziana signora aveva sottoscritto una procura che permetteva a questo nipote di accedere liberamente a svariati conti bancari dai quali si erano volatilizzati tre milioni di franchi. I giornali citavano spesso il nome di papà, qualche volta le notizie erano persino accompagnate da una sua fotografia che lo ritraeva seduto in ufficio oppure mentre saliva la scalinata del tribunale, con l’immancabile borsa di cuoio scuro sottobraccio.

    «Racconta, cosa è successo?» mi interrogò papà. La sua fronte aveva già iniziato a corrucciarsi e sul volto incombevano nubi nere, preludio di chissà quale temporale.

    «Eravamo al parco. Paolo ha voluto andare sull’altalena e mi ha chiesto di spingerlo forte, sempre più forte e poi...»

    «E poi?»

    «...e poi è caduto.» Era solo questione di tempo prima che si scatenasse la tempesta? Rimasi in attesa, preoccupato ma pronto a difendermi.

    Invece si mise a ridere.

    «Quando avevo l’età di tuo fratello è capitata la stessa cosa anche a me!» aggiunse con tono divertito. «Ho portato la stecca al braccio per quattro settimane, però era quello sinistro. Per fortuna Paolo è mancino... E tu, dimmi, come stai?»

    «A me dispiace tanto per quello che è successo, davvero...»

    «Sta’ tranquillo, vedrai che si risolverà tutto per il meglio...» e per rassicurarmi mi strofinò il palmo della mano sui capelli. Poi iniziò a scarabocchiare sul foglio, dimenticandosi di me.

    Fui sorpreso dalla sua reazione benevola, il suo sguardo non era più oscurato dalle nubi, che nel frattempo si erano dissolte, anzi al loro posto comparve il più bell’arcobaleno che avessi mai visto. In men che non si dica l’immagine dei vetri di casa che vibravano svanì felicemente, anche lo stomaco aveva smesso di tormentarmi.

    Papà era intransigente ma nella giusta misura. Tanto ostentava severità, altrettanto dosava indulgenza e comprensione. A differenza di me, che ero estroverso e avventato, papà era profondamente riflessivo. Quando se ne stava rintanato sulla poltrona del portico con un bicchiere di vino in mano, ne intuivo l’umore semplicemente guardandolo. Se aveva le labbra aperte e dal naso si allungavano due rughe che arrivavano giù fino alla bocca, voleva dire che era sereno. Se invece bocca e labbra erano serrate, gli occhi socchiusi e le sopracciglia abbassate si univano al centro, significava che era in collera. Quando era arrabbiato e pronto a esplodere, sentivo pulsare la sua giugulare a un metro di distanza. In tutta la sua vita, per punirmi, non mi toccò mai, neanche con un dito. D’altronde la sua abilità di oratore, rafforzata da anni di pratica legale, faceva sì che ottenesse risultati più che eccellenti con le parole, le quali – in base alla circostanza – suscitavano in me una gamma vastissima di sentimenti che potevano a loro volta ferire, rincuorare, avvilire. Se dovevo essere punito, papà era un maestro a colpirmi a suon di parole.

    Aveva quarantatré anni e qualche capello iniziava a imbiancare, soprattutto alle estremità delle basette. Ero talmente abituato a vederlo vestito in modo elegante, con la giacca fatta su misura, i polsini e il colletto della camicia inamidati, la cravatta annodata alla perfezione e le scarpe lucide, che quando si metteva in tuta, per esempio nel fine settimana, oppure un paio di jeans e una maglietta, mi sembrava un estraneo.

    Anche se il più delle volte mi cullavo nella convinzione di essere ormai grande, ogni tanto rimpiangevo gli anni d’oro della mia infanzia, quando Paolo non era ancora venuto al mondo. I miei genitori non avevano occhi che per me, mi trovavo al centro del loro universo di attenzioni e mi perdevo beato in una sterminata galassia di capricci che venivano sempre assecondati. Se mi ostinavo a ottenere qualcosa, facevano a gara per coccolarmi sulle ginocchia e anche quando combinavo autentici disastri gongolavo nella mia consapevole e sublime immunità. Ma poi nacque Paolo e... la festa finì. Da quel momento, senza volerlo, fui promosso a fratello maggiore e lui mi usurpò il trono di figlio prediletto, conquistato faticosamente con anni di ingannevoli piagnistei. Da allora la regola era tanto drastica quanto semplice: lui poteva strepitare e io dovevo rimanere calmo, lui poteva provocare pasticci e io dovevo scongiurarli, lui poteva trasgredire tutti i precetti e io dovevo seguirli alla lettera. Passarono tante altre estati e molti altri anni perché io potessi comprendere che quelle presunte iniquità erano soltanto il frutto della mia acerba immaginazione.

    «Vado in accettazione a consegnare questo modulo e poi a vedere come sta Paolo. Tu rimani qui per favore.» Mi sorrise, si alzò e uscì dallo stanzino.

    Le vacanze scolastiche incidevano sulla frequentazione del pronto soccorso. La gente trascorreva giornate intere al lago oppure si accalcava lungo le rive dei fiumi, i colpi di calore erano diventati un monotono passatempo per i medici. Ma anche chi lavorava la terra o era impegnato nella fienagione poteva rientrare nella folta schiera di potenziali candidati del pronto soccorso. Tra escoriazioni, lussazioni e traumi di varia natura, quel giorno le urgenze – o presunte tali – intasavano il minuscolo ufficio dell’accettazione. Così pazientammo quasi un’ora perché Paolo, dopo essere stato visitato, fosse condotto nella sala delle radiografie, mentre medici e infermieri affollavano i diversi reparti dell’ospedale, rincorrendosi in un convulso andirivieni.

    La diagnosi non fu del tutto inattesa né troppo preoccupante: frattura composta dell’omero, ossia un mese di gesso ma nessuna operazione chirurgica. La notizia fu di conforto per tutti.

    Mio padre aveva l’ufficio vicino al nosocomio, quattro traverse più in giù rispetto al centro. Congedò quindi il signor Agustoni, ringraziandolo nuovamente per il suo intervento e dicendogli che avrebbe camminato fino al parcheggio

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