Marinella: Una piccola storia ignobile
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Sua madre Teresa riuscirà ad allontanarla dal genitore e da Napoli, città in cui vivono, fuggendo in un paese montano dell’alta Italia.
La storia di Marinella è raccontata da lei stessa in prima persona. Sullo sfondo la strage di Bologna, pretesto per Teresa di confutare la verità sulla menomazione della figlia.
Quando le loro vite sembrano aver trovato la giusta serenità un evento inaspettato si presenterà loro, divenendo il preludio di un nuovo dramma.
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Anteprima del libro
Marinella - Rossana Carturan
uscii.
I
Era un dicembre freddo, uscite dalla scuola, io ed Emma percorremmo a piedi la breve salita di ciottoli mal assestati che mi facevano barcollare ma che con contegno e ironia superavo, salmodiando maledizioni in napoletano e facendo ridere di gusto la mia compagna.
Arrivate al negozio di mamma ci congedammo con la promessa di rincontrarci il pomeriggio per prepararci all’evento che a breve avrebbe coinvolto tutta la scuola. Se ne parlava da mesi e ormai era prossimo. Il liceo Manzoni ha vinto un Concorso Letterario grazie alle proprie allieve, Marinella ed Emma per l’esattezza, che con grande capacità narrativa hanno scritto un racconto sulla strage di Bologna, ed essendo stata Marinella protagonista vera, suo malgrado, il premio non poteva che andare a lei e alla sua compagna di scrittura , questo ci disse la preside tronfia d’orgoglio, dinanzi alla classe.
Non sapevamo bene in cosa consistesse il premio ma l’ansia di essere primedonne per un giorno, a scuola e forse per tutto il paese, ci eccitava terribilmente. Avremmo dovuto preparare un discorso, scegliere l’abito adatto e affrontare la popolarità che già iniziava a farsi sentire.
«Ciao, sei già di ritorno? Non dovevi andare da Emma?», chiese mamma sentendomi arrivare alle spalle, mentre era intenta a spazzolare con cura la signora Milena, la proprietaria dell’unico hotel del paese.
«Ci andrò dopo pranzo, ho una fame… salgo su».
«Non si saluta?», replicò mia madre stizzita.
«Scusami, ciao... e buongiorno Signora Milena».
La signora, stupita e sorpresa, non riuscì a trattenersi: «Ma come fa?».
«Come fa, cosa?».
«Come fa… a sapere che sono io».
«Ha fiuto!», sentii replicare mia madre, suscitando nella signora un risolino imbarazzato. Certo, noi due eravamo bizzarre ma sapevamo districarci con eccentricità anche nelle situazioni più scomode.
L’appartamento era proprio sopra il negozio, collegato dall’interno da una piccola scala a chiocciola. Per me non era il massimo della comodità, ma era l’unico negozio nel paese ad avere questo vantaggio. Sapere che la propria figlia non vedente, se avesse avuto bisogno, doveva solo suonare il campanello collegato al locale di sotto, aveva subito convinto mia madre ad acquistarlo. Lei era fatta così.
Non era un alloggio molto grande: due stanze piccole ma abbastanza capienti da contenere letto, armadio e scrivania, una cucina e un bagno confortevole. Per due donne sole era più che sufficiente.
Il negozio aveva la stessa metratura dell’appartamento ma era un unico ambiente spezzato da alcune colonne portanti. Su ogni colonna, quattro in tutto, poster di modelle acconciate all’ultima moda che mia madre sostituiva periodicamente con le ultime tendenze e i ritratti incorniciati dei suoi filosofi più amati: Schopenhauer, Kant, un disegno raffigurante Ipazia e una foto di Simone Weil con un fucile a tracolla che le ricordava tanto se stessa, cosa che puntualmente sottolineava.
I primi giorni mi aveva obbligato a camminare su e giù tra casa e salone, in autonomia e senza aiuto, perché a suo avviso ogni oggetto, parete, ostacolo, doveva essere stampato nella mia mente, non voleva che lasciassi nulla di oscuro. Disse proprio oscuro e poi la sentii deglutire per la gaffe, ma la mia risata la tranquillizzò. Tutti ne facevano di gaffe, era inevitabile. Moltissimi vocaboli hanno in sé il buio anche se non in maniera così esplicita.
Quella sera volli stupirla, cucinai della pasta, scaldai il sugo preparato il giorno prima e apparecchiai la tavola. Sapevo che sarebbe salita di lì a poco e volevo farle il regalo di aspettarla. In realtà volevo chiederle dei soldi per il vestito e quel piccolo gesto d’amore mi assicurava una comprensione immediata. Non si fece attendere molto, la sentii chiudere il negozio, rassettare veloce e salire la scala.
«Ah, bene, ogni tanto mi piace essere sorpresa! Sentiamo, che ti serve?», mi disse mentre lavava accuratamente le mani al lavandino della cucina. La quantità d’acqua che scrosciava mi fece capire che aveva passato la tinta sui capelli di una cliente senza usare i guanti, cosa che detestava, ma spesso la sua aiutante, e addetta a rifornire il negozio, dimenticava di acquistarli.
«Insomma, pensi sempre che mi serva qualcosa…».
«E non è così?».
«Sì. Lo sai vero che la prossima settimana ci sarà la premiazione… e io non ho niente di nuovo da mettermi».
«A parte il fatto che questa storia non mi piace affatto, non mi piace che tu abbia usato la tua…. Storia… per farne un racconto».
«Ancora? Se siamo state vittime mica è colpa mia! E poi ti farei notare che il regalino che mi ha lasciata questa Storia – o forse vuoi che dica Lui? – non è cosa da poco!» e sull’ultima frase spinsi la sedia contro il tavolo e me ne andai in camera. Ancora una volta l’avevo colpita, lasciandola sanguinante come il primo giorno. Un sangue senza sangue, caldo e feroce, sangue marcio che non cola via per sanare il passato, per lasciare respiro al futuro. Certi dolori rimangono dentro, è più facile trattenerli che sfidarli.
Sottolineare che il regalino non me lo avesse fatto la bomba ma lui, era un gioco meschino per ricordarle che ero consapevole, che era stata lei ad imbastito quella messa in scena e ora non poteva tirarsi indietro. Metterlo in evidenza mi garantiva quella buona dose di pietismo che ogni tanto mi serviva per ottenere qualcosa. Per mia madre anche chiamarlo semplicemente Lui
era troppo dignitoso, per tanto tempo si era chiesta con quale aggettivo definirlo, ma non le era venuto in mente nulla di più adeguato di bastardo
, anche se poi più ci pensava più capiva che fermarsi su quel dettaglio significava portarlo sempre con sé e lei invece voleva, doveva, mandarlo via.
Da quel giorno non lo avevamo più nominato, nemmeno per sbaglio. Forse per questo, per tanto tempo, mi ero convinta che la mia menomazione fosse dovuta davvero alla bomba e mia madre non faceva nulla per smentirla.
Avevo solo quattro anni e ancora una volta la chiamarono perché venisse di corsa a prendermi all’asilo, avevo un po’ di febbre. La preside della scuola dove insegnava era sempre più contrariata per tutti quei permessi che chiedeva così all’improvviso, adducendo spiegazioni sempre al limite del verosimile che non suscitavano più alcuno stupore. Provava un continuo senso di disagio che non riusciva a camuffare.
Mi trovò in braccio alla maestra, stringevo il mio calzino preferito e, tenendolo tra le piccole dita, me lo passavo sotto il naso inspirando profondamente, una debolezza che portai con me negli anni a seguire.
«Credo abbia la febbre alta», disse la maestra.
Era spaventata, mi prese e mi strinse forte. Ero molto piccola ma sapevo che quello che veramente aveva temuto, e che per tutto il tragitto in macchina l’aveva atterrita, era che spogliandomi per controllarmi la febbre qualcuno si rendesse conto di quello per cui provava vergogna.
A casa si tranquillizzò. Nessun segno sul corpo, la febbre sì era davvero alta ma lei sapeva come affrontarla, conosceva tanti rimedi naturali; ero intollerante a moltissimi farmaci e avevo imparato presto a difendermi da sola. Mi fece un bagno tiepido, si rassicurò nel vedere la mia pelle nitida, mi lavò con acqua e aceto e piano piano la febbre scese. Passammo il resto del pomeriggio a guardare cartoni animati e mangiare pizza. Una serata bella e la notte sarebbe stata solo un vecchio mostro seppellito dalla risata squillante della nostra complicità.
La notte era il suo peggior incubo, di notte Lui
arrivava più arrabbiato che mai, di notte sfogava la sua violenza, indifferente che io potessi sentire o addirittura farne parte se sbadatamente mi svegliavo e correvo nella loro camera. Non si accontentava, allora, solo di lei.
Quella sera, restai chiusa nella mia stanza, arrabbiata, delusa, rimandai anche l’appuntamento con Emma. Dissi a sua madre, che era al negozio, di avvertirla che non mi sentivo bene.
Non c’erano più cartoni animati né pizza a distrarmi. Sapevo che il miglior ricatto era sottolineare la mia invalidità, in quel preciso istante aveva la consapevolezza che sua figlia non aveva affatto dimenticato, né confuso, prendeva solo, ogni tanto, una pausa dalla verità ma mai apertamente.
Si avvicinò alla mia stanza. «D’accordo, hai vinto, quanto costa questo vestito?».
Mi alzai di scatto, girai la chiave nella toppa e aprii velocemente: «Poco, lo giuro!».
«Il tuo poco non corrisponde mai al mio, comunque andremo insieme… non mi fido di te».
«Va bene! Grazie!». Le schioccai un bacio sonoro sulla guancia. Lei mi passò una mano tra i capelli. Mi vedeva bellissima anche in quegli occhi vuoti che facevano capolino ogni tanto dall’onda dei capelli lunghi e neri con cui tentavo di nasconderli. «Hai un viso morbido, tondo – spesso mi ripeteva – e poi questa fossetta sola soletta sulla guancia e questo nasino piccolo e perfetto!» e io sentivo la sua voce incrinarsi leggermente, bastava un piccolo attrito sulla lingua per capire che stava trattenendo le lacrime.
Il pomeriggio dopo raggiunsi Emma al bar di Gino, l’unico locale verso il quale riuscivo a spingermi senza troppi pericoli. Detestavo il bastone, anche se ogni tanto ero costretta a usarlo, e così alcuni tragitti li avevo imparati a memoria, calcolando ogni distanza, ogni ciottolo, ogni muro, ogni albero, ogni buca, ogni palo.
«Allora? Sei in ritardo!».
« Mia madre…», replicai alzando le spalle.
«Va beh, dai siediti». Prendemmo una Coca Cola ed Emma tirò fuori un block notes. Buttammo giù tante di quelle parole osannanti le insegnanti, autocelebrative, ossequiose verso gli organizzatori del premio, che ebbi quasi un conato per quanto fossero stucchevoli. Ridondanti ma essenziali per mettere in risalto l’evento. A fine pomeriggio ci ritenemmo soddisfatte, dovevamo solo avere il coraggio di pronunciarle. Entrambe timide, cercammo vari espedienti per fare in modo che fosse qualcun altro a parlare per noi e l’unico che si sarebbe prestato al gioco, incapace di dire di no, era Giovanni. Innamorato di Emma avrebbe fatto qualsiasi cosa per compiacerla. Purtroppo però era troppo goffo e avrebbe rischiato di farci sfigurare, concludemmo così di pensare a qualcos’altro. Eravamo certe che un’idea sarebbe saltato fuori. Tornammo a casa insieme, Emma si coprì gli occhi con la fascia che aveva sui capelli, mi prese sottobraccio e disse: «Bene, adesso portami tu