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Acciaio e magia
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E-book362 pagine5 ore

Acciaio e magia

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Info su questo ebook

In una distopica Galilea dell'anno zero un gruppo di eroi combatte contro le forze del male per garantire un futuro migliore al genere umano.

Ad ostacolarli si frapporranno militari corrotti, sovrani privi di scrupoli ed un'orda di creature demoniache.

Riusciranno questi eroi a prevalere, grazie all'acciaio e alla magia?
LinguaItaliano
Data di uscita29 gen 2019
ISBN9788831600460
Acciaio e magia

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    Anteprima del libro

    Acciaio e magia - Alan Masala

    PREFAZIONE: UNA VECCHIA STORIA

    Il vecchio tossì, guardò con affetto il ragazzino che gli era accanto, poi, lentamente, dispose le tre statuine che aveva in mano una dietro l'altra, come se dovessero fare una piccola processione. Pazientemente l'anziano signore ordinò la piccola fila indiana verso una capanna sopra la quale era stata posta una piccola stella di  legno con una lunga coda. Sopra il tetto della povera ma sobria abitazione in miniatura non vi era solo questa strana stella, ma anche dei piccoli angioletti di terracotta. Guardando quella strana composizione pareva che le ultime aggiunte, ovvero le tre statuine che il vecchio aveva appena messo, fossero fuori posto. Gli altri elementi di questa composizione erano solo miniature di animali, pastori e contadini, tranne un gruppetto, posto vicino alla capanna, e quest'ultimo, messo al margine della scena. Le ultime tre statuette aggiunte erano riccamente vestite, come fossero grandi re o principi e recavano in mano quelli che sembravano essere dei doni per un dignitario di alto rango.

    «Nonno, chi sono questi?» Chiese incuriosita la voce infantile, indicando le ultime aggiunte.

    «Questi? Caro figliolo, questi sono i magi, ovvero tre dei grandi saggi e dei nobili principi che andarono a rendere omaggio al Re Bambino, il nostro Salvatore... colui il quale era stato indicato nelle profezie!»

    «Perché magi? Facevano le magie?» Chiese con aria interrogativa il ragazzino, aggrottando le sopracciglia.

    «No» Rispose ridacchiando l'anziano, sforzandosi di bloccare la tosse, «Cioè, sì, alcuni conoscevano anche la magia, ma il termine magi viene dal greco... magos mi pare... sta ad indicare, se non sbaglio, i sacerdoti, o perlomeno coloro che sono ferventi credenti.»

    «Ma perché sono tutti differenti? Non assomigliano ai greci e sembrano provenire ognuno da una terra diversa!» Continuò il giovinetto.

    «Perché quando il Signore venne al mondo, tutte le genti della terra andarono a salutarlo.» Rispose pacatamente il vecchio, aggiungendo «I magi rappresentavano tutti i popoli della terra.»

    «Ma allora dovevano essere di più, molti di più!» insistette il giovane.

    «Huff, quante domande che fai ragazzo mio, assomigli a tua madre quando aveva la tua età... non che ora sia cambiata poi molto!» disse l'anziano sistemando gli ultimi dettagli sulla sua composizione e prendendo in braccio il nipotino. «Comunque sì, hai ragione, all'inizio erano di più... non molti di più...e con loro c'erano anche dei servi, o meglio, delle guardie del corpo, e qualche volta questi guerrieri e maghi che accompagnavano questi grandi savi vengono confusi con quest'ultimi.» Dicendo questo e sistemando il ragazzino sulle sue ginocchia il vecchio sospirò profondamente, poi l'anziano sorrise e cominciò a spiegare «Vedi? Qui ci sono i pastori con le loro greggi, qui una fattoria...» L'uomo si bloccò di colpo quando gli cadde l'occhio sul gruppetto di statuine che stavano al margine. Anche queste, cinque in tutto, stonavano rispetto alle altre, perché parevano rappresentare agguerriti combattenti e maghi.

    «Che hai nonno, stai bene? Sei diventato pensieroso?» Squittì il bambinetto, guardando all'insù il volto corrucciato dell'anziano.

    «No, non ti preoccupare, stavo solo pensando. La vuoi sentire invece una storia?»

    «Sì, dai! Raccontamene una!» Rispose entusiasticamente il ragazzino agitando entrambe le braccia, cascando quasi dalle ginocchia del nonno.

    «Vuoi che ti racconti uno dei grandi prodigi che fece nostro Signore?»

    Il ragazzino aggrottò la fronte pensoso e disse «me li hai già raccontati tutti, e più di una volta... perché non mi parli invece di quelle statuette laggiù? Chi sono loro?»

    «Loro chi? Quei cinque che stanno al margine, dietro la capanna del Redentore?» chiese il vecchio indicando il gruppetto.

    Il viso del ragazzino si illuminò con un gran sorriso e con la sua voce acuta, con un tono baldanzoso rispose energicamente «sì nonno, parlami di loro!»

    «Veramente... bhé, non so se questa sia la storia per un ragazzino. Sai figliolo, questi sono i servi dei magi, le loro guardie del corpo. A volte sono stati confusi con il loro padroni, tuttavia loro erano soltanto degli araldi.» Rispose l'anziano soffermandosi un attimo per riprendere fiato, poi, titubante, riprese «Mio bel giovanotto, io potrei raccontarti qualcosa, questa però è una storia per gli adulti!»

    «Ma io ho ben otto anni, non sono più un bambino!» sentenziò giudiziosamente il giovanotto, tirando indietro la pancia e gonfiando orgogliosamente il petto.

    «Io so che gli uomini vanno a letto a presto perché la mattina si devono alzare per andare a lavorare!» Rispose di rimando dallo stipite della porta una anziana voce femminile. Il tono era amorevole ma autoritario, così come solo chi accudisce, o ha accudito, dei bambini può avere. «Forza David, è ora di andare a dormire, il sole è già tramontato da un pezzo. Cosa mi direbbero tua mamma ed il tuo papà se arrivassero qui ora e ti trovasse ancora alzato!» continuò ancora la voce.

    «Ma nonna, gli uomini restano alzati fino a tardi!» Replicò David

    «Nonna Miriam ha ragione David, vai a dormire, se sarai bravo domani, quando arriveranno la tua mamma e il papà, andremo insieme al mercato e compreremo dei dolci. Ti piace l'idea?»

    «Hmm, posso sceglierli io i dolci?» Chiese il ragazzino.

    «Certo che puoi, non ti ho forse detto così? Non deve sempre mantenere la parola data un uomo?» Asserì seriosamente l'anziano.

    Il ragazzino annuì con un sorrisetto e disse «Va bene nonno, ora vado a dormire, notte!»

    «E ricordati di ringraziare il grande Ahura Mazdā» Sentenziò la nonna.

    Il bambino lasciò la stanza per andare in camera a dormire e la nonna seguì con l'udito i passi del giovanotto fino alla camera.

    «E a me non la racconti una storia mio anziano principe?» Chiese Miriam al suo compagno.

    «Sai che non amo parlarne, poi tu neppure ci credi!» Replicò il vecchio scuotendo la testa, tenendosela nella mano destra. «Ogni volta che ho iniziato a parlartene tu sei sempre saltata su, dicendo che era un'eresia e che dovevo onorare Ahura Mazdā e non una divinità straniera... eppure... lo stesso Zoroastro aveva annunciato la sua venuta, così come altri profeti di altre religioni. Tutto questo non può essere solo un caso! Io credo che...»

    «A me interessa solo sentire la tua storia marito mio.» L'interruppe l'anziana prendendogli delicatamente la mano. «Il fuoco è ancora alto e ci impiegherà un po' a diventare brace e spegnersi... abbiamo tempo e questa volta non ti interromperò, promesso, raccontami la tua storia.»

    «Perché? Perché proprio ora? Ho cercato di raccontartela mille volte quando eravamo giovani... perché stasera?» Chiese incuriosito l'anziano, portandosi una mano al petto ansimante.

    «Forse perché con l'età diminuiscono certe necessità ed aumenta la curiosità» Rispose maliziosamente la donna. «Quando eravamo più giovani, ma non tanto più giovani, non mi interessavano le storie del padre dei miei figli... ora, le storie del nonno dei miei nipoti sono più interessanti...»

    «E sia allora, anche se forse ti deluderò moglie mia. Non ti racconterò di quello che accadde a quella gente, ai magi. Conosci già la loro storia e non serve spendere su di loro altre parole. Ti parlerò invece di ciò che accadde alle loro fidate guardie, durante il mese di Tēbēth, mentre attraversavano la Galilea di Erode Antipa. Stanotte ti narrerò dunque di quelle persone  che la storia ha così ingiustamente dimenticato, » Rispose l'altro e cominciò a raccontare.

    Fuori dalla casa le tenebre avevano ormai carpito il posto del sole. Chi era nell'abitazione però non poteva vederlo perché, com'era usanza all'epoca, le porte e le finestre erano state sbarrate e lo sarebbero rimaste fino all'alba. Con il sorgere del sole i servi avrebbero rimosso le imposte e lasciato entrare la luce nelle sale. Aggirasi nella città, tra quelle costruzioni basse e senza luce, era ancor meno rassicurante che stare all'aperto nel deserto. All'interno delle abitazioni, nascoste dal mondo, le persone continuavano però le loro vite, amandosi, litigando e raccontandosi storie.

    In quella notte stellata, nell'abitazione più ricca di Saba, Miriam udiva per la prima volta, dalla voce ormai fioca del suo amato marito, i risvolti segreti di una vicenda che aveva dell'incredibile. Tutti conoscevano i magi, ma nessuno sapeva di chi li accompagnava, o meglio, li precedeva, e dei grandi pericoli che avevano corso e le grandi imprese che avevano compiuto.

    CAPITOLO UNO: L'ARRIVO DEI SERVI DEI MAGI

    Adam guardò il paesaggio brullo innanzi a sé sbuffando, come al solito non succedeva mai nulla! Erano ormai passati quattro anni, dopo la morte di Erode il Grande e la disastrosa ribellione contro la legione romana del vecchio procuratore della Siria, Sabino, di stanza a Gerusalemme. Dopo quegli eventi egli era stato relegato come guardia di confine ai margini orientali del regno di Galilea. Ufficialmente, questo piccolo stato, ormai de facto un protettorato romano di scarso valore politico e militare, non aveva preso parte alla sollevazione. Non solo, all'epoca della ribellione, quando dalla vicina provincia della Siria arrivarono altre due legioni per sedare i disordini, i soldati del regno di Galilea aiutarono i romani. Non che la cosa fosse particolarmente dispiaciuta ai galilei, d'altronde non era mai corso buon sangue tra loro ed i giudei. Fin troppo a lungo gli abitanti della vecchia capitale gli avevano dimostrato alterigia e disprezzo. D'altronde anche la sacra Torah lo diceva: occhio per occhio e quindi la Giudea aveva solo avuto ciò che gli spettava!

    Quello su cui tuttavia Adam continuava a rimuginare era che questa riprovevole situazione, ovvero l'aver impugnato le armi contro i propri fratelli, ai tempi del vecchio tetrarca, Erode il Grande, non sarebbe mai accaduta. Mai, durante il suo illuminato regno, gli abitanti delle due terre, nonostante la reciproca antipatia, erano arrivati alle armi! Nella mente del soldato facevano poi capolino altri pensieri. Tra tutti ve ne era però uno in particolare: la vera disgrazia era che alla morte del precedente sovrano, il reame era stato diviso in tre piccoli deboli regni, ognuno assegnato ad uno dei legittimi eredi del tetrarca. Ad Archelao, avuto con la quarta moglie, Maltace, andarono la  Giudea, la Samaria e l'Idumea. A Filippo, avuto con la quinta moglie, Cleopatra di Gerusalemme, spettarono invece la Batanea, la Traconitide ed alcuni territori della Paniade. La Galilea e la Perea furono dati  ad Antipa, nato anch'egli dall'unione tra Erode e Maltace. Tutti temevano la perfida Maltace. Si vociferava inoltre che l'ex regina, scaltra e sanguinaria, dimorasse proprio con il figlio Antipa in un nuovo palazzo, costruito con il sangue ed abitato dagli spiriti. Pareva inoltre che egli stessa si fosse occupata di far arrivare a tutti gli altri contendenti al trono, i figli di Erode che non avevano avuto un regno, ma che avrebbero potuto reclamarlo in futuro, la loro giusta parte di eredità: una spanna di acciaio persiano nel cuore. Erano questi i pensieri su cui rimuginava costantemente questa povera guardia di confine. Lui e un'altra quarantina di militari, che fedelmente avevano servito tra le fila del precedente sovrano, erano stati dimenticati e messi da parte sul limitare della zona che i romani chiamavano Decapolis, che faceva parte della provincia siriana. Un tempo la via carovaniera che passava di lì e che congiungeva Hippos, e quindi la Persia, con Gerusalemme era molto affollata. Ora, invece, quelle terre erano abitate solo da predoni e scorpioni. Persino le colonne di mercanti romani erano rare da vedersi da queste parti, anche perché erano zone molto pericolose! D'altronde, ma queste erano solo insinuazioni, il loro comandante, Asaph, avrebbe fatto un patto con i predoni locali, per poter saccheggiare le carovane ed i viandanti di passaggio.

    Di certo questo posto non era come più a nord, nella Fenicia. Per quella terra, più remissiva e tollerante nei confronti degli invasori romani, passavano la maggior parte dei commerci: un costante afflusso di tessuti, pelli, schiavi, spezie, oli e gioielli. In fondo l'Impero Romano era un impero basato sullo scambio e sul commercio. I porti di Byblos, Sidone e Sarepta, ora estremamente ricchi, erano divenuti i nodi strategici di questo sistema di scambi. Da lì si apriva poi la via per Damasco, il principale snodo per la Persia e tutto l'oriente. Il regno di Giudea era stato invece dimenticato e smembrato. «Troppo irrequieto e bellicoso e quindi non utile per il commercio.» Così aveva scritto  Publio Quintilio Varo, il governatore della Siria, a Roma e, la caput mundi, come ben si sa, riesce sempre a trovare una soluzione ad ogni problema. Agli occhi del senato questo caso era molto semplice: smembrare la Giudea! In fondo il vecchio adagio divide et impera non aveva sempre funzionato? Archelao, Antipa e Filippo, i nuovi sovrani dei nuovi regni sorti dalle ceneri della Giudea, dal canto loro, non si erano opposti a questa scelta calata dall'alto. In fondo un pezzo di terra nelle proprie mani era pur sempre meglio di un pezzo di acciaio nella schiena! Maltace, la madre di Antipa, aveva abilmente orchestrato la transizione, approfittando della rivolta di Gerusalemme, per far passare sotto l'ala protettrice di Roma i suoi due figli: Antipa ed Archelao. Anche a Filippo e a sua madre Cleopatra, tutto sommato, non era andata poi così male. Le altre mogli di Erode, Doride, Mariamne I, Mariamne II, Pallade, Fedra ed Elpide erano state tutte raggiunte dalla lunga mano di Maltace ed avevano pagato con la vita.

    Mentre il soldato, appoggiato al parapetto della cima della torre di guardia, continuava nei suoi pensieri, qualcosa apparve all'orizzonte. «Predoni?» pensò il veterano. Chi altri poteva esserci in quest'angolo sperduto di mondo? Aguzzò meglio la vista e vide stagliarsi all'orizzonte tre sagome a cavallo, due su cammelli, e una mezza dozzina di muli belli carichi a seguito...

    «No, questi non sono predoni, speriamo solo che non siano guai!» Mormorò tra sé Adam.

    «Allarmi, gente in vista! Pare Stiano venendo qui!» Urlò Ichabod, l'altro militare che era di turno con Adam sulla cima della torre.

    «Sono predoni?» Domandò di rimando una voce.

    «No, non sembra, portano dei muli carichi!» Rispose Adam.

    «Stanno venendo qui? Ma chi diavolo è l'idiota suicida che si aggira per queste terre maledette! Prepariamoci, tutti pronti a riceverli, potrebbe essere una stupida trappola di quelle teste calde dei briganti, o peggio, un controllo da parte del tetrarca di Tiberiade!» Urlò Asaph, il comandante della guarnigione, cercando di indossare il più velocemente possibile il suo corpetto di bronzo.

    «Non mi piace, di solito non arriva mai nessuno qui... stanno accadendo strane cose ultimamente.» Disse  Ichabod al suo compagno di vedetta, indicando con gli occhi verso l'alto.

    «Ti riferisci  forse alla strana stella con la coda?» Chiese con timore il suo compare.

    «Già, non mi piace, porta sfortuna! Ora però prepariamoci ad accogliere i nostri ospiti, altrimenti Asaph ci farà togliere la pelle a frustate! Prendi gli archi e le frecce che stanno sotto!» Grugnì tra i denti Ichabod.

    «Tranquillo, cosa vuoi che possano fare quelli là? Sono solo in cinque! Se sono dei predoni sono dei veri idioti a darci fastidio. La torre è alta e non ci sono pattuglie in perlustrazione, quindi siamo a ranghi pieni! Già... se sono dei malintenzionati, sono capitati proprio nel momento sbagliato e poi... qui ci si annoia, non sarebbe male menare un po' le mani!» Cantilenò allegramente ed in tono sprezzante Adam scendendo per la scaletta che conduceva dalla sommità della torre fino alla sala sottostante per prendere gli archi e le frecce.

    Quando lo strano gruppetto, riccamente vestito, arrivò alla torre di confine,  uscì dalla costruzione un ometto in armatura di bronzo, con un elmo con un lungo pennacchio rosso. Ad accompagnarlo vi erano tre soldati in armatura di cuoio grezzo, ognuno con uno scudo di legno ed una lancia.

    I cinque uomini sulle cavalcature, senza degnare di attenzione l'ufficiale, si guardarono intorno. Erano arrivati al posto di confine che segnava l'entrata nel neonato regno di Galilea, poche leghe a sud ovest del lago Tiberiade, o come lo chiamavano pomposamente gli abitanti del luogo Mare di Galilea. Accanto alla torre dal tetto piatto, su cui garriva uno sciupato stendardo del locale sovrano, vi erano i baraccamenti dei soldati. In tutto erano tre basse costruzioni in mattoni di terracotta, anch'esse con il tetto piatto. Accanto vi era un pozzo con un grande abbeveratoio e poco distante una stalla, un recinto per le capre con dentro qualche animale ed una stia per i polli. L'intera zona era circondata da un basso muricciolo a secco, utile per impedire agli animali di uscire, ma non per fermare chiunque volesse entrare. A prima vista, più che di un'installazione militare, poteva benissimo trattarsi di un insediamento rurale. L'unica cosa che dava un'aria marziale a questo gruppetto di abitazioni era la malconcia torre. Mentre i cinque, arrivati in prossimità delle costruzioni, si guardavano attorno con un'aria scettica, l'ufficiale e tre guardie gli andarono incontro mentre altri soldati uscivano dai baraccamenti.

    «Chi siete? State entrando nel glorioso regno di Galilea, fedele e glorioso alleato della grande e potente Roma!» Gracchiò l'ufficiale con lo strano elmo, in direzione dei cinque, cercando di darsi contegno. Non ricevendo risposta  Asaph rimase alquanto perplesso. Forse questi stranieri non parlavano l'ebraico... d'altronde lui non conosceva altre lingue, se non qualche parola in uno o due dei dialetti dei filistei!

    «Non... non parlate l'ebraico?» Chiese titubante l'ufficiale, sempre nella sua lingua.

    «Apri gli occhi mentecatto!» Gli grugnì rabbiosamente uno dei cinque, che dopo il pesante epiteto proseguì «Non vedi chi hai di fronte? E per quanto riguarda la tua stupida domanda, la risposta è sì, parliamo la tua lingua!» Chi aveva risposto era un gigante dalla pelle scura, coperto di cicatrici e con delle folte basette, molto lunghe. Portava sul capo un safa di stoffa estremamente pregiata. Girava, nonostante il freddo, a petto nudo, portando sulle spalle solo una pelliccia dello stesso colore delle dune del deserto, con numerose grosse striature nere ed alcune più piccole bianche. La pelle apparteneva ad uno strano e grosso animale, che l'ufficiale non aveva mai visto ma che gli ricordava un enorme gatto. Sulla schiena lo straniero aveva un'enorme ascia bipenne color nero, la cui apertura era più ampia della schiena su cui era appoggiata. I calzoni rossi erano anch'essi di stoffa pregiata. A tenerli su era una cintura di cuoio borchiato nero, da cui pendevano alcuni sacchetti e, sulla parte sinistra, trovavano posto una scimitarra ed un pugnale la cui lama ricordava una fiamma allungata. Ai polsi non portava nulla, però sugli avambracci vi erano dei bracciali da guerra di cuoio neri. Ai piedi aveva dei calzari alti e chiusi, una vera rarità nella Giudea! Al collo vi erano una mezza dozzina di collane d'oro e alle mani numerosi anelli. Sull'orecchio destro un orecchino di perla dava un tocco di gentilezza alla burbera e rude figura.

    «Personaggio estremamente singolare, sembra pericoloso, però anche pieno di soldi!» rimuginò tra sé e sé l'ufficiale. «Forse oggi riuscirò a cavarne qualche cosa di buono da questo stupido lavoro! Anche gli altri sembrano ricchi, sicuramente strani, ma, dal vestiario, sembrano estremamente ricchi!» Pensando questo, Asaph si avvicinò al cavallo di quello che gli sembrava il più particolare del gruppo. L'individuo che più colpiva la sua l'attenzione e la sua curiosità era un piccoletto dalla testa rasata e dagli occhi a mandorla. Anche la barba era stata tagliata ed il viso era tutto liscio, tanto che poteva benissimo essere scambiato per quello di un bimbo. Non aveva armatura e portava degli strani abiti, di un tessuto leggerissimo e con dei bellissimi ricami che ricordavano delle esotiche creature mistiche.

    L'ufficiale aveva sentito dire che dall'est i romani importavano per i loro re ed i loro principi uno strano tipo di stoffa che chiamavano seta. Questa però era estremamente costosa e pochi erano coloro i quali potevano permettersi un intero completo, come quell'uomo dalla testa rasata! Se era però un principe, perché non portava né armi, né gioielli? L'unico oggetto che teneva nella mano destra era un lungo bastone liscio e ben levigato. L'asta di legno era alta come lui, circa quattro piedi e mezzo, se non cinque, e poteva benissimo essere usata sia per difendersi, che per passeggiare. Sicuramente un oggetto simile non era per portare le greggi al pascolo.

    Sotto la casacca l'ufficiale aveva notato alcuni sacchetti oltre ad una piccola borsina legata alla cintola, ma nulla che sembrasse offensivo. Nonostante l'uomo apparisse disarmato e sembrasse apparentemente innocuo, Asaph rimase intimorito da questa figura. Il suo animo da veterano lo avvertiva che la persona che aveva davanti era pericolosa!

    A guardare bene questo straniero, un attento osservatore poteva notare che aveva un corpo muscoloso e flessuoso, come quello di un gladiatore e l'aura che emanava era quella di un guerriero!

    Fu proprio il piccolo uomo, poco più alto di un ragazzino e dagli occhi a mandorla, che, passando il suo bastane nella mano sinistra ed appoggiando con leggerezza la sua mano destra sul braccio del gigante dalla pelle bruna che prese per primo la parola.

    Anzitutto cercò di calmare il compagno con parole pacate ma decise: «Calmati nobile Balthasar, accendere gli animi servirà a poco. Cerchiamo invece di ragionare con questa gente, in fondo noi qui siamo stranieri in terra straniera.» La sua voce era calma e suadente e la sua parlata era in corretta lingua ebraica. Dopo che il burbero amico cominciò a tranquillizzarsi, sul viso dell'orientale si aprì un grande sorriso, come quello di un fanciullo e, sceso da cavallo si chinò leggermente in direzione dell'ufficiale in segno di rispetto. A quel punto disse «Anzitutto, mio onorevole interlocutore, mi voglio scusare se la mia conoscenza della vostra lingua non è perfetta. Il mio maestro, il venerabile Wui Cho, diceva sempre che la comprensione deriva da una reciproca conoscenza e da un reciproco dialogo. Credo per cui che parlare la vostra onorata lingua sia, oltre che una forma di cortesia, anche il modo migliore per non essere stranieri l'uno per l'altro. Anche il saggio Sun Tzu diceva che il nemico rimane tale finché non lo si conosce. Per tale ragione, mio venerabile ospite, chiedo il permesso di presentarmi: io mi chiamo Hang-Fei e sono un monaco. Provengo dal Dorso del Mondo, una terra con le montagne più alte che gli dei abbiano mai creato. Il mio nobile compagno dall'aspetto burbero è Balthasar, stimato principe e grande guerriero del Rajastan, la terra dei principi. Gli altri miei onorevoli compagni di viaggio sono: il venerabile Gasphar, saggio e mistico del culto di Zaraustra, di nobili origini persiane. L' onorabile uomo dalla pelle chiara è invece considerato anch'egli una persona sacra. Egli è uno studioso e la sua vita è votata al rispetto delle forze della natura. La sua gente gli conferisce il titolo di druido. Il suo nome è  Vaughan e proviene dalla Gallia Comata, o Transalpina, una delle provincie dell'Impero Romano. Appartiene anche al ceppo della gens Aurelia, perché il nobile Marco Flavio Aurelio, riconoscendo il suo valore, lo ha voluto come figlio e lo ha adottato, dandogli la cittadinanza romana. L'onorevole uomo dalla pelle scura è invece un wulumo, un nobile principe, uno studioso, nonché un guerriero sacro ed un protettore delle sue genti. Il suo nome è Melkior e proviene da delle terre a sud. Luoghi così lontani che per arrivarci ci si impiegherebbe una vita. Sfortunatamente non sono in grado di dire il loro nome, perché per me risultano impronunciabili.»

    L'ufficiale, mentre Hang-Fei parlava, cominciò a studiare i nuovi arrivati. Il persiano, di altezza media, era brizzolato, con i capelli lunghi ed aveva un pizzetto ormai quasi bianco. In testa aveva un turbante ornato di pietre preziose, così come lo erano gli abiti, tipici delle genti di Babilonia. Come da tradizione per i principi di quel popolo, indossava molti anelli, collane e braccialetti e ad entrambi i lobi portava degli orecchini. Era paffutello, ma non grasso, con due occhietti scuri, vispi e vivaci. Il tutto conferiva al suo aspetto l'aria di una persona estremamente colta, oltre che intelligente. Al suo fianco portava un pugnale ricurvo, dal manico ingioiellato, accanto a numerosi sacchetti.

    Sicuramente la figura apparentemente più trasandata del gruppo sembrava essere il tizio a cui era stato dato il titolo di druido. Era biondo ed aveva la barba lunga e non curata e sotto uno strato di sporcizia aveva la carnagione chiara, con molti tatuaggi. Gli occhi erano azzurri e freddi come il ghiaccio, come quelli di chi aveva visto mille volte la morte.  Non aveva gioielli, tranne una strana collana che pareva fosse fatta con dei rametti, pietre preziose grezze e fiori secchi intrecciati. Accanto a questo strano monile, sempre sul collo, portava anche un piccolo sacchetto di pelle, su cui, a fuoco, erano state incise delle rune. Questo era legato attorno al collo con una sottile striscia di cuoio non lavorato. Anche l'armatura che portava era di cuoio e, cosa estremamente curiosa, per renderla più solida, erano stati inseriti dei pezzi di guscio di tartaruga. Nonostante l'aspetto scialbo doveva trattarsi di un uomo molto ricco. Solo un individuo estremamente facoltoso poteva permettersi un'armatura simile!

    Sotto il corpetto di cuoio vi era una lunga tunica di un colore marrone, tendente, in alcuni punti, a causa del sudiciume, al grigio, al nero ed al verde. Per coprirsi dal freddo l'uomo aveva una pelle di cervo. Oltre alla pelle, aveva tenuto anche il teschio dell'animale, con tanto di impalcatura, in modo che potesse fungergli da elmo. Sulla schiena teneva uno scudo fatto di vimini intrecciati ed al fianco aveva una clava di legno ad una mano riccamente intagliata su cui erano state incastonate delle pietre preziose grezze. Accanto alla clava, una corta lama di selce completava l'equipaggiamento dell'eccentrico viaggiatore.

    L'ultimo uomo rimasto era sicuramente quello delle terre del sud, il wulumo. Aveva la pelle color ebano e due occhi scuri e profondi come il mare in tempesta.  L'aspetto era fiero e regale ed anche lui, come gli altri, sembrava un tizio da cui stare molto alla larga! Portava un'armatura di cuoio rinforzato con sopra incise a fuoco degli strani simboli. Al fianco destro un fodero riccamente ornato di preziosi conteneva una spada corta mentre sulla sinistra, in un fodero simile, ma più grande, vi era una spada lunga. Aguzzando la vista, Asaph notò che l'impugnatura delle due armi era di avorio, su cui erano state incastonate delle pietre che non aveva mai visto prima. Erano di una bellezza incredibile! A guardarle erano trasparenti, quasi come il vetro, con degli incredibili riverberi. In base alla luce che le colpiva, le pietre proiettavano attorno delle luci che andavano dall'azzurro al giallo.

    «Possibile che esista una pietra simile?» Pensò il veterano.

    Alcuni mercanti venuti dall'Egitto avevano sentito dire da altre genti provenienti dall'Etiopia, che in una terra molto più a sud si estraevano queste pietre, che venivano chiamate diamanti!  Alcuni di questi preziosi erano anche sugli anelli, pochi ma estremamente ben lavorati, che il guerriero portava alle dita. Sulla testa, coperta da degli ispidi e corti capelli neri e corti, non vi era alcun elmo o copricapo.

    L'uomo non aveva barba e sulla guancia sinistra portava una cicatrice. Non indossava orecchini. ma al collo vi erano numerose e preziose collane e  monili. Indossava una tunica corta color marrone. E sotto il gonnellino si potevano notare un paio di braghe di lino dello stesso colore.

    Sulla parte bassa delle gambe facevano bella vista degli schinieri di cuoio riccamente lavorati.

    Sulle spalle un mantello con cappuccio grigioverde ed una arco lungo, con accanto la faretra piena, completavano il vestiario e l'armamento del viaggiatore.

    Sulla spalla destra dell'uomo delle terre del sud se ne stava  appoggiato un cardellino, probabilmente addomesticato, che si guardava intorno incuriosito.

    «Bene, io sono Asaph, ufficiale comandante di questa guarnigione, nonché l'incaricato di riscuotere le tasse di entrata nel grande e potente regno di Galilea!» Disse malignamente l'ufficiale e, continuando a bofonchiare con un tono poco rassicurante, aggiunse «Ora che abbiamo fatto  reciproca conoscenza, penso che possiamo cominciare a sbrigare le pratiche amministrative per la vostra entrata in Galilea.». Dicendo ciò l'uomo dall'armatura di bronzo fece cenno con un braccio ai cinque di dirigersi verso il bancone della gabella.

    CAPITOLO DUE: SANGUE SUL CONFINE

    Adam, dalla cima della torre, fissava con attenzione i nuovi venuti. Portavano tutti vestiti da nobili o da ricchi mercanti, tuttavia, nei modi di fare, negli atteggiamenti e nello sguardo erano in tutto e per tutto persone votate alla guerra! Che si trattasse forse di ex mercenari? Capitani di ventura arricchiti in qualche sanguinosa campagna contro i Parti? O erano forse predoni che avevano assalito

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