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Metafrenia: Inganno dentro o fuori di te
Metafrenia: Inganno dentro o fuori di te
Metafrenia: Inganno dentro o fuori di te
E-book624 pagine7 ore

Metafrenia: Inganno dentro o fuori di te

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Info su questo ebook

Metafrenia - Inganno dentro o fuori di te
L'horror psicologico più inquietante di sempre

È estremamente raro sentir parlare di persone sopravvissute all’impatto con un meteorite, eppure questo sembra essere giustappunto lo sfortunato caso della ventottenne scozzese Chloe Mabon. L’incidente, avvenuto nel 2013 a Chelyabinsk, in Russia, dove si trovava da qualche giorno col marito Frank, le ha provocato una perdita di memoria pressoché totale, ma nulla di più, almeno all’apparenza. La speranza è che col tempo il danno possa essere sanato grazie anche all’immancabile supporto dello stesso Frank.
Ricordare può però comportare danni peggiori in certi casi. C’è più di un’ombra infatti nel passato di Chloe: come tasselli di un puzzle recuperati dall’oblio, un intrico di episodi violenti e traumatici non del tutto dimenticati si delineerà nella sua memoria attraverso gli incubi notturni, ripercuotendosi sulla sua realtà con colpi di scena a non finire. Non solo, un mistero losco e dai contorni surreali si annida anche nel presente. Quando Chloe rievocherà le fattezze di una figlia piccola che non dovrebbe esistere, prenderà in considerazione l’idea che Frank non sia affatto chi dice di essere. Allora, pur di fare luce sul suo passato, inizierà a dubitare dell’onestà di molte persone, tanto da arrivare a ritenere di essere vittima di una cospirazione di proporzioni inaudite.

Sito web dell'autore: www.barozziromanzi.com
LinguaItaliano
Data di uscita16 feb 2019
ISBN9788832518832
Metafrenia: Inganno dentro o fuori di te

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    Anteprima del libro

    Metafrenia - Luca Barozzi

    ImmagineImmagineImmagine

    Luca Barozzi

    Metafrenia

    Inganno dentro o fuori di te

    Serie: Tumulto #1

    Autore: Luca Barozzi

    Prima edizione: 15 febbraio 2019

    Editing, illustrazioni e impaginazione a cura dell'autore.

    Tutti i diritti sono riservati

    © 2023 Luca Barozzi

    Quest'opera è protetta dalla legge sul diritto d'autore.

    È vietata ogni duplicazione anche parziale non autorizzata.

    Attribuzione immagine di copertina: kolibri5/Pixabay.com

    Font titolo: Bazar by Olinda Martins, Creative Commons Attribution-No Derivative Works 2.5 Portugal License: https://creativecommons.org/licenses/by-nd/2.5/pt/deed.en

    Le vicende descritte in questo romanzo non hanno mai avuto luogo. Per quanto le ambientazioni esistano realmente e si sia cercato di rappresentarle nella maniera più realistica possibile, le vicende, la loro ubicazione e i personaggi sono opera della fantasia dell’autore.

    Il romanzo contiene parole volgari e argomenti forti, in qualità di horror psicologico, che potrebbero ferire la sensibilità del lettore.

    ISBN paperback: 9781796640632

    Immagine

    Sito web gestito dall'autore:

    www.barozziromanzi.com

    Indice

    PROLOGO

    PARTE 1

    I

    Come quando si nasce

    II

    Il primo sogno

    III

    Un tatuaggio inaspettato

    IV

    Un nuovo impiego

    V

    Espressioni bizzarre

    VI

    Rumore bianco

    VII

    Lo strangolamento

    VIII

    Le ragioni del primo sospetto

    IX

    L'ostinata ricerca della verità

    X

    Una rischiosa astinenza

    XI

    Molto più che un giramento di testa

    XII

    Pallina bianca e pallina nera

    XIII

    Senza certezze

    XIV

    La sfuriata di Frank

    XV

    Il portafoglio smarrito

    XVI

    Telefonate indesiderate

    XVII

    Un motivo per correre

    XVIII

    Il nodo scorsoio

    XIX

    Le cose più strane

    XX

    Un nome sotto la pioggia

    XXI

    Emarginata

    XXII

    Il grattacielo senza uscite

    XXIII

    Il terremoto

    XXIV

    Recidiva

    XXV

    Al ladro

    XXVI

    Finalmente qualcosa quadra

    XXVII

    Lo strizzacervelli

    XXVIII

    Dialogo con uno sconosciuto

    XXIX

    Seduta del 2 giugno: mostri

    XXX

    Seduta del 2 giugno: allucinazioni

    XXXI

    Seduta del 2 giugno: l'energumeno

    XXXII

    Chi è più matto tra di noi?

    XXXIII

    L'ombra dietro la finestra

    XXXIV

    Il messaggio di Bryan

    XXXV

    La collera di Poppy

    XXXVI

    O la va o la spacca

    XXXVII

    I nomi tornano a galla

    XXXVIII

    Un risvolto allarmante

    XXXIX

    Metafrenia

    XL

    Il vero scopo del Kriptios

    XLI

    Sorveglianti in borghese

    XLII

    Omicidio plurimo

    XLIII

    Quesiti urgenti

    XLIV

    Il cofano sfasciato

    XLV

    Un uomo dall'oltretomba

    XLVI

    Spazi stretti

    XLVII

    Il primo trauma

    XLVIII

    L'ultimo residuo di coscienza

    PARTE 2

    I

    Bocche brillanti

    II

    Mezzanotte

    III

    Il faro delle mie speranze

    IV

    Il calendario

    V

    Il piano B

    VI

    Lo spiraglio

    VII

    Forestiera

    VIII

    Il ritorno di Derek

    IX

    L'ospite a sorpresa

    X

    Addio caro Frank

    XI

    Il nascondiglio

    XII

    Il Vurg

    XIII

    I corvi assassini

    XIV

    Il blu violento

    XV

    L'indizio

    XVI

    Il capo dei glasmok

    XVII

    L'assalto

    XVIII

    Lo scatto finale

    XIX

    Si torna a casa

    XX

    Gloria

    VERBALE DEL 22 GIUGNO 2014

    AUTORE

    DELLO STESSO AUTORE

    NOTA DELL'AUTORE

    Mi è successa una cosa incredibile. Tempo fa, nella sala d'attesa di un aeroporto, sono casualmente entrato in possesso di un plico di fogli scritti a macchina e in lingua inglese.

    Non ho mai capito chi li avesse messi nella mia valigia. Alcune pagine però erano macchiate di sangue. All’epoca la cosa mi aveva sì spaventato, ma decisi lo stesso di non sporgere alcuna denuncia.

    Nel testo, una donna di nome Chloe Mabon racconta una serie di sconcertanti vicende svoltesi durante l’anno 2014. Francamente non so chi sia questa persona. Ho provato a domandare di lei anche in Scozia, dove racconta di aver vissuto, ma non l'ho mai rintracciata. Nessuno ne sa niente, per quanto dovrebbe essere piuttosto famosa. Penso che quello che ha usato possa essere uno pseudonimo. Temo che la sua possa essere una storia vera.

    Fatto sta che a un certo punto ho cominciato a ricevere delle lettere anonime. Mi si intimava di pubblicare il manoscritto a mie spese, con tanto di minacce di morte qualora mi fossi rifiutato. Stavolta non ci ho pensato due volte e mi sono rivolto alla polizia. La mia mossa non ha però portato a niente di buono. Da un giorno all’altro, diverse persone a me care sono scomparse nel nulla senza lasciare traccia e tuttora non si sa più che fine abbiano fatto. Neppure si dispone di una pista che possa guidare ai responsabili del loro rapimento.

    Le cose hanno cominciato ad andare piuttosto male anche a me e perciò, alla fine, li ho accontentati, sperando che potesse servire a qualcosa. Mi sono impegnato a tradurre il manoscritto in italiano, pubblicandolo poi mediante un servizio di editoria self-publishing. Poche vendite e tanta paura. Questa storia mi ha veramente rovinato la vita.

    Tempo dopo, mi sono visto recapitare un’altra lettera, scritta a penna stavolta. Questa non aveva i toni minatori delle altre. L’ho riportata di seguito e ciò che dice risulterà abbastanza esplicito per chiunque abbia letto il libro.

    Francamente non so cosa pensare. Io stesso mi sento in pericolo; ma, nonostante ciò, adesso ho deciso di ripubblicare il manoscritto seguendo alla lettera le ultime istruzioni. Sento di non avere più molto da perdere e non ho paura di quello che potrebbe accadermi. Li voglio sfidare.

    Lascio a te ogni interpretazione, amico mio.

    Prima di proseguire, un avvertimento: stai per immergerti nella lettura più folle, ambigua e inquietante che tu possa aver mai visionato. Non è uno scherzo, né un’esagerazione. Se non vuoi restare fortemente turbato, ora che sei ancora in tempo, lascia perdere e dimentica tutto quello che hai letto sin qui. In caso contrario, ti invito caldamente a guardarti le spalle.

    L.B. - febbraio 2019

    "ASCOLTAMI! HANNO CONTRAFFATTO LA MIA STORIA, QUELLA CHE TU HAI PUBBLICATO, CERCANDO DI FARMI PASSARE PER PAZZA. MA NON LO SONO! NON È OPERA MIA! SE DEVI CREDERE A QUALCOSA, CREDI A QUESTO.

    HO AVUTO UN’INFANZIA FELICE, TE LO GIURO. NON DEVI PRENDERE PER ORO COLATO TUTTO QUELLO CHE PUOI AVER SENTITO SU DI ME. SE STAI LEGGENDO QUESTO MESSAGGIO È SOLO PERCHÉ LORO NON SONO RIUSCITI A IMPEDIRMI DI FARTELO AVERE.

    FA PRESTO, SE PUOI! DEVI RIPUBBLICARE IL LIBRO, INTEGRANDO IL VECCHIO TESTO CON QUESTO MESSAGGIO. I SOPRUSI CHE HO SUBITO NON SONO FANTASIE. QUELLI SONO ACCADUTI REALMENTE E, PURTROPPO, LORO ADESSO SONO ANCHE INTORNO A TE, NELLO STESSO FOTTUTO MONDO IN CUI SEI TU. SE NE STANNO NASCOSTI NELL’OMBRA E POSSONO SENTIRTI RESPIRARE. È COLPA LORO SE TI SONO ACCADUTE DELLE COSE BRUTTE, DEVI CREDERMI. NON METTERTI A CERCARMI E NON CERCARE NEANCHE LORO: SONO SENZA SCRUPOLI E NON VERRANNO A PATTI CON TE. TIENITI ALLA LARGA DAL BUIO PIÙ CHE PUOI E AIUTAMI A SPARGERE LA VOCE. DICO SUL SERIO! FAI SAPERE A TUTTI CHE SONO OVUNQUE E DECISAMENTE PERICOLOSI".

    Parte 1

    Immagine

    I

    Come quando si nasce

    Forse sarà capitato anche a voi stamattina, o almeno una volta nella vostra vita. Aprite gli occhi all’improvviso, senza rendervi ancora conto di esservi svegliati. Fissate il soffitto come se fosse un cielo stellato, senza pensarci, perché una buona parte di voi è ancora annebbiata dal sonno; fintanto che non vi viene spontaneo porvi la domanda: dove sono?

    Avrete visto quell’intonaco decine, centinaia, migliaia di volte. Eppure, specialmente in certi casi, c’è un attimo, che può essere più o meno lungo, nel quale non potete fare a meno di interrogarvi su quali circostanze e accadimenti hanno preceduto il vostro riposo.

    «Dove sono?» fu appunto la domanda che mi posi quando mi svegliai la mattina di venerdì 3 gennaio 2014.

    Ero avvolta fin sulle spalle dalle calde coperte di un letto d’ospedale in una stanza grande, funzionale, capace di ospitare altri cinque pazienti. C'ero solo io però.

    Ogni memoria pareva svanita. Neppure il mio nome mi fu chiaro in quel momento.

    Ancora stranita dal sonno, mi guardai intorno, tastando il bicchiere di plastica e le riviste che si trovavano sul tavolo più prossimo. Ero debolissima. Le mie braccia lottavano per resistere alla gravità che cercava di farle cadere a penzoloni. La schiena era un pezzo di legno. Mi girava la testa e non ritenni fosse saggio rialzarsi tanto in fretta dal letto. Frizionai così la parte del capo dolente sul guanciale per lenire il fastidio provocato dal mio sisma cerebrale.

    Sopraggiunse poi una giovane infermiera che, meravigliata di trovarmi con gli occhi aperti, con un'incertezza forse eccessiva, mi venne incontro. Mi prese il polso e cominciò a rilevare la mia frequenza cardiaca. Non contenta, mi sbottonò un po’ il camice che indossavo e si permise di auscultarmi il cuore con uno stetoscopio. Subito dopo mi misurò la pressione e nel frattempo mi chiese come mi sentivo. Come mi sentivo? Come se mi avessero appena risuscitata, probabilmente. Non le risposi questo però, bensì un generico: discretamente.

    In realtà, fu fin troppo sbrigativa. Era molto fredda per essere un’infermiera. Avevo l'impressione che non fosse affatto a suo agio a stare lì da sola con me. Diciamocelo: era anche un po’ imbranata. Magari era stata assunta da poco. Non faceva che voltarsi ripetutamente in direzione dell'ingresso della stanza, come se aspettasse l’arrivo di qualcuno, forse un dottore. E, in effetti, poco più tardi fece la sua comparsa un uomo sulla quarantina. Non era sicuramente lì per lavorare, almeno a giudicare da come era vestito. I suoi capelli erano castani e ben pettinati. Aveva un aspetto affascinante e due occhi azzurri come il mare. Notai un guizzo nel suo sguardo appena mi vide. Non credevo di conoscerlo. Non aveva proprio nulla di familiare, anche se niente per la verità mi dava questa desiderabile impressione. Nondimeno, c'era qualcosa in lui che mi suscitava una particolare attrazione. Era proprio un bell’uomo.

    Si precipitò da me a grandi falcate.

    «Chloe, finalmente! Come stai?» mi domandò, approssimandosi fino ad abbracciarmi in modo caloroso. Mi lasciai stringere, ma ero esterrefatta. Gli occhi mi schizzarono fuori dalle orbite, dal momento che costui era per me uno sconosciuto.

    «Io… io non lo so» risposi. Ero paonazza e scossi la testa con trepidazione quando si fu allontanato un poco.

    «Non ricordi niente?» mi chiese con un po' di perplessità. Io scossi timidamente il capo, anticipando uno sbuffo di scoraggiamento da parte sua.

    Si scostò di qualche passo per scambiare due parole a quattrocchi con l’infermiera, la quale appena più tardi abbandonò la stanza per lasciarci in intimità.

    Dunque, l'uomo prese la sedia da sotto il tavolo più prossimo e la spostò per accomodarsi vicino a me.

    Era un po’ come se fossi venuta al mondo quella mattina. Aspettai di attingere da lui qualche informazione sul mio conto. Non aveva l’aria del malintenzionato e, forse a causa del fatto che si comportava gentilmente, diffidai sempre meno di lui. Trasse un profondo respiro e mi fece: «Sforzati, ti prego: proprio non hai memoria di nulla?».

    «Non credo. Cosa dovrei ricordare?» gli chiesi.

    «Il mio nome? Non ti ricordi di me?».

    «No» dissi ancora. Perciò lui, chiudendo gli occhi e sospirando, affermò: «Non voglio correre troppo e neanche voglio innervosirti. So che adesso sei disorientata e confusa. So che non è facile per te, sì, ma… ci riprovo: non ricordi neanche vagamente cosa ti è capitato?».

    «No, le ho detto. Adesso non so neppure chi sono» risposi, cercando di contenere il panico il più possibile. Mi limitai a non mirare il mio interlocutore negli occhi e fissai invece la coperta blu che stringevo tra le mani. Non mi ero neanche accorta che lo stessi facendo.

    «Ehi, guardami. Adesso risolviamo ogni cosa. Con calma riaggiustiamo tutto, d’accordo?» disse l’uomo, accentrando l’attenzione che desiderava. Ero visibilmente spaventata e ogni mia frase era un flebile sussurro, colmo di incertezza.

    «Dunque, Chloe… proprio così. È Chloe il tuo nome. Ti chiami Chloe Mabon e sei nata qui, a Inverness, in Scozia, dove hai sempre vissuto per la bellezza di ventisette anni».

    «Ho ventisette anni?».

    «Quasi ventotto, in realtà. Li farai il prossimo mese».

    «Figli?» domandai con voce dimessa. L’uomo fece una pausa in cui mi guardò con titubanza. Quindi rispose con decisione, come per dissipare i miei dubbi: «Nessuno. Non ne hai mai avuti».

    «Ma lei chi è? Un dottore?».

    «Ebbene, Chloe: il mio nome è Frank Severn e… sono tuo marito. Perdonami se prima ti ho abbracciata, ma è stato più forte di me: ti chiedo scusa».

    «Io… non so che dire» mormorai con imbarazzo. Avevo un po' di bruciore di stomaco.

    «Non fraintendermi» riprese. «Mi avevano già descritto le conseguenze della tua commozione cerebrale. Mi avevano anche spiegato che c’era il caso che non mi avresti più riconosciuto, ma, in tutta sincerità, speravo che si sbagliassero.

    So di non poterti imporre di tornare a essere la stessa di prima perché… io adesso sono uno sconosciuto per te». Dicendo ciò Frank si commosse, tant'è che gli si strinse un nodo in gola e faticò a proseguire. Io, pur avendo ancora diversi dubbi sulla sua onestà, mi lasciai intenerire per quanto fosse estremamente convincente.

    «Mi dispiace» dissi, portando una mano su una delle sue spalle. Allora Frank rialzò la testa e, trattenendo le lacrime, seguitò: «Potrei sembrarti oltremodo mieloso, ma… ma noi ci amavamo. Tu mi amavi e io… io vorrei stare con te per sempre perché sei la donna che ho sposato. D’altronde, non posso pretenderlo. Mi sembra così assurdo!

    Ci tengo ad assicurarti che eravamo felici insieme, però non voglio che tu adesso ti senta in dovere di assecondarmi solo perché ti piango addosso. Penserai che stia esagerando, o che sia qui per importunarti».

    L'atteggiamento di Frank denotava una certa tensione, della quale cercava pian piano di liberarsi.

    «Al contrario, mi sembri una brava persona, Frank» gli risposi in una circostanza che aveva scambiato i ruoli: ora infatti era lui a essere maggiormente ansioso. Lo guardai dritto negli occhi. Sì, sembrava sincero; tuttavia, rimanevo molto confusa. Avevo davvero bisogno di ulteriori chiarimenti.

    «Che cosa mi è capitato?» domandai. Frank emise un sospiro stentato. Si appoggiò allo schienale della seggiola e rispose con voce grave: «Un grave incidente. Non credo che tu voglia sentirmi parlare di questo».

    «A dire la verità, mi interesserebbe. Ti prego» gli dissi. Avevo bisogno di trovare degli appigli. Non mi piaceva affatto la sensazione di non ricordare nulla.

    «È stato lo scorso anno, in febbraio» seguitò Frank, accontentandomi. «Eravamo stati tre giorni a Chelyabinsk, in Russia, non lontano dal confine col Kazakistan. Non è certo una meta turistica delle più gettonate, è indubbio, ma vedi… un mio caro amico che vive là da tanto tempo con la moglie, originaria di quei luoghi, ci aveva dato ospitalità in casa sua. Era una buona occasione per rivedersi dopo anni di lontananza ed eravamo entrambi molto contenti di farlo.

    Accadde la mattina del 15 febbraio. Come dimenticarlo? Il sole era ancora basso e c’era la neve sui bordi delle strade. Dovevamo arrivare in aeroporto entro un’ora. Ci aspettava un lungo viaggio per fare ritorno in Scozia. Chelyabinsk-Mosca, Mosca-Edimburgo, Edimburgo-casa. Tu eri già in macchina. Avevi freddo. Sei sempre stata un po’ freddolosa, a dire il vero. Io invece, come al mio solito, mi sono attardato un po’. L’ultima cosa che mi dicesti fu proprio: non metterci tanto. Volevo però salutare il mio amico come si deve, scambiare le ultime battute con lui. A un certo punto, proprio mentre gli parlavo, sulla soglia di casa, mi fa, guardando in alto, alle mie spalle: cos’è quello? Io allora mi volto e… beh, cosa vedo? C’era una scia bianchissima in cielo. Una sfera luminosa che veniva in nostra direzione, velocissima. Non ci siamo azzardati a dirlo, ma credo che in quel momento entrambi sapessimo cosa stavamo guardando, pur non avendo mai assistito a niente del genere in passato: un meteorite. Siamo rimasti a contemplare quello spettacolo luminoso. Per qualche attimo quella cosa è stata anche più brillante del sole. Bello, sì! Memorabile, ma se fosse stata la fine? Forse stavamo per finire arrostiti come era capitato ai dinosauri milioni di anni fa. E così, anche in un lasso di tempo tanto breve, ho pensato che dovesse esserci un’altra spiegazione. Non è un meteorite, mi sono detto. Non può essere la fine. Dev’essere un aereo che sta precipitando. Oppure è un missile lanciato da qualche paese ostile alla Russia, magari il primo atto di un nuovo conflitto mondiale.

    All’improvviso, il primo botto. È stato una cosa pazzesca, indescrivibile. Mai sentito niente del genere. Siamo stati sbalzati dentro la casa dall’onda d’urto, tutti e due. I vetri delle finestre sono andati in frantumi in un attimo. Ci sono piovuti addosso. Qualche graffio, ma niente di importante. Quel primo scoppio è stato assordante. Mi fischiavano le orecchie. Poi ce n’è stato un altro, più piccolo, e altri ancora in rapida successione. Sembrava un bombardamento.

    Ho pensato a te, là da sola in macchina, nel parcheggio. Quando il peggio sembrava passato sono corso fuori. Ho visto il finestrino rotto e il cuore mi è finito in gola. Tu eri lì, dentro l’auto, priva di sensi. Perdevi sangue, tanto sangue. La tua fronte…». Frank si interruppe. Stentava a raccontare la scena per quanto drammatica ricordava che fosse.

    «Si era creata una fossa, come quando si schiaccia troppo un uovo e ne si fa crepare il guscio… proprio qui» disse ancora Frank, tastando piano il mio capo sul punto in questione, il quale attualmente era sistemato in maniera inappuntabile; non c’era nemmeno una piccola cicatrice. «Non mi capacitavo di intendere che cosa fosse accaduto. Vedevo una sorta di bruciatura sulla tua fronte. Tu non rispondevi. Sembravi come morta, anche se respiravi ancora.

    Non riuscivo a trovare un colpevole. Era come se ti avessero sparato. Con chi avrei dovuta prendermela? Il meteorite era caduto altrove; lì per lì non pensavo potesse essere quello. Ero imbestialito e scosso e… il mio amico ha cercato poi di chiamare un’ambulanza, ma le linee telefoniche erano in tilt; troppe chiamate in quel momento. Allora ti ho portata io in ospedale.

    Sei stata ricoverata d'urgenza. Solo successivamente mi è giunta la risposta alla quale sulle prime non seppi credere. Un piccolo frammento del meteorite, mi dissero. Un sassolino, schizzato a velocità supersonica dal corpo principale che si stava sbriciolando a contatto con l’atmosfera, aveva centrato l’auto e ti aveva trapassato il cranio. Arriverai mai a crederlo? Io ho impiegato settimane. Dicevano che fossi davvero fortunata a essere ancora viva dopo un urto del genere. Fortunata, dicevano. Idioti! Come si poteva parlare di fortuna? Nessuno se l’era vista brutta come te. Le probabilità di essere centrati da un meteorite sono irrisorie. Pur avendoti colpita abbastanza di striscio, quel detrito ti aveva ridotta in condizioni impietose. So che sembra fantascienza, ma è così che è andata.

    Ho passato momenti angoscianti perché per tre giorni non era sicuro che ce l’avresti fatta. Mi dicevano di prepararmi al peggio. Al tempo stesso mi confortavano, sostenendo che non fosse colpa mia. Ma, diamine! Se ti avessi dato retta… se non ci avessi messo tanto, se fossimo partiti prima, quel pezzo di roccia non ti avrebbe neanche sfiorata.

    Un potere più grande di quello che un uomo può fronteggiare voleva questa sorte per te. Ti trovavi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Non so altrimenti come esplicartelo.

    Sono riuscito a riportarti in Scozia con l’ausilio di un’aeroambulanza. Ho speso una follia per farlo, certo, tuttavia mi auguravo che le cure che avresti trovato da noi sarebbero state abbastanza efficienti per salvarti la vita. La cruda verità è che sei rimasta in coma farmacologico per mesi; e quando poi ti sei risvegliata… deliravi. Non è stato un bello spettacolo».

    «Deliravo?» sillabai. «In che senso?».

    «Non eri cosciente e dicevi cose strane, accostando sillabe a caso. Ma pure io ero sulla strada maestra per la pazzia, ti giuro.

    Quel che conta è che pian piano sei andata migliorando. Ti sei stabilizzata e, malgrado ogni volta fosse impossibile comunicare con te, proprio per via dei tuoi deliri, ora finalmente stiamo comunicando… e tu sei di nuovo te stessa. I farmaci hanno funzionato. Non puoi immaginare quanto sia grande la mia gioia. Ogni singolo giorno, per quasi un anno, sono venuto in questo ospedale, perché tu… tu sei tutto per me, Chloe. Proprio tutto. So che ai tuoi occhi posso sembrare soltanto colui che hai trovato al tuo risveglio, come potrebbe esserlo il primo infermiere di passaggio. Perciò… ecco, se vorrai del tempo per riflettere, te ne darò in abbondanza. Non m’importa della tua amnesia: io non voglio che tu rimanga da sola. È l’unica cosa. Sappi che io ci sono e ci sarò sempre per qualsiasi necessità».

    Non mi occorsero conferme aggiuntive. Anche se non ricordavo nulla di ciò che Frank mi aveva raccontato, gli credevo sulla parola. Così come alla nascita il neonato non può far altro che affidare se stesso, docile e innocente, alle cure della madre, io qualificai Frank come il mio primo accompagnatore verso un ignoto avvenire.

    II

    Il primo sogno

    Furono sufficienti quattro giorni di attesa precauzionale per poter essere dimessa dall’ospedale di Inverness. L'infermiera che mi aveva assistita dichiarò che avrei potuto accusare ancora repentini giramenti di testa; perfino gli svenimenti non sarebbero stati da escludere. Al verificarsi di ogni minimo peggioramento avrei dovuto contattare direttamente il mio psichiatra, il dottor Paul Cochrane . Ovviamente la speranza era che d'ora in poi sarebbe filato tutto liscio.

    La più grande raccomandazione che mi si fece fu quella di ingerire ogni sera, prima di cena, due compresse di un particolare farmaco, il Kriptios. Perché dico particolare? Perché non era venduto nelle comuni farmacie ed era proprio il mio dottore a procurarmelo. Lui parlava di sperimentazione clinica, però diceva che era totalmente sicuro, che non c’erano rischi per la mia salute. Aveva superato tutti i test, sennonché non era stato ancora immesso in commercio per una questione prettamente burocratica. Non sapevo effettivamente se fosse lecito per lui prescrivermi un simile medicinale; chissà che non fosse contro la legge! Comunque mi aveva ammonita con rigore di non trascurare mai di farne uso. Per il resto, nessuno ebbe dubbi sul fatto che Frank avrebbe saputo prendersi cura della sua amata mogliettina nel migliore dei modi.

    Non appena misi piede fuori dall’ospedale, il primo sprazzo di mondo che i miei occhi catturarono, inteso come luogo all’aria aperta, assunse un aspetto sconosciuto e simultaneamente familiare. Gli edifici, le auto, la mise dei passanti, ma anche il cielo e gli alberi, trasmettevano nell’insieme questo effetto bizzarro. La falba luce del sole agiva come un soave massaggio sulla pelle. Era un pomeriggio d’inverno e, benché somigliasse molto a una giornata di maggio per la limpidezza del cielo, faceva parecchio freddo.

    Intanto che mi accompagnava verso l’automobile, Frank mi consigliò di coprirmi bene per paura che mi prendessi un raffreddore. Fu lì, nel momento stesso in cui individuai la vettura, che si manifestò, energico come una frustata, una specie di ricordo: quella che sarebbe stata la prima briciola di pane lungo il mio travagliato percorso. Rimasi stordita per qualche attimo come se fossi stata abbagliata da un flash. Ciò nonostante, Frank non ci fece nemmeno caso. Io continuai a muovermi e decisi di serbare il ricordo per un altro po’.

    Una volta all’interno dell’abitacolo, iniziai a sentire prurito all'anulare sinistro, proprio in corrispondenza della fede nuziale che portavo. Era come se fosse intorpidito. Anche se Frank, con la sua congeniale pacatezza, non mi proibiva di togliere l’anello, preferii tenerlo al dito. Inoltre, provai pure la fugace sensazione di non avere realmente il controllo del mio corpo. Per un po’ fu come se fossi stata ancora addormentata, seppure non avessi affatto sonno. Per fortuna passò in fretta.

    «Andrei molto più veloce per portarti a casa nel minor tempo possibile» disse Frank, ridendosela mentre guidava con gli occhi fissi sulla strada. «Non sto più nella pelle, tante sono le cose che ti devo mostrare. Ultimamente però su queste strade stanno installando un mucchio di autovelox. Non intendo sperperare altri soldi in multe per eccesso di velocità».

    Col suo umore allegro cercava di influenzare il mio, di sgretolare la solida corazza di dubbi da cui era avviluppato; quella corazza che mi rendeva seria e prudente. Iniziava a riuscirci, per quanto avessi ancora la mente intasata di interrogativi.

    «Tutto ok?» mi chiese, ispezionando al volo la mia espressione. «C’è qualcosa che non va? Hai mal di testa?».

    Mi accinsi allora a tirare in ballo l'unica memoria che finora avevo riguadagnato.

    «Sto bene» affermai. «È che credo di aver ricordato qualcosa».

    «Di già?! Fantastico! Di che si tratta?».

    «Penso sia un sogno».

    «Un sogno?» domandò Frank di nuovo, ruotando lestamente il capo per osservarmi con uno sguardo aberrante. Staccò a lungo gli occhi dalla strada.

    «Credo di averlo fatto prima di risvegliarmi» aggiunsi con fare titubante, guardando in basso.

    «Beh, racconta! Sono curioso» esclamò Frank con entusiasmo, spegnendo la radio che rumoreggiava in sottofondo.

    «Ecco, mi trovavo al volante di un’auto come questa… da sola però. Era notte e pioveva a scroscio. La radio era spenta, come ora. Ero anche un po’ assonnata.

    Ti suonerà assurdo, ma, all’improvviso, il parabrezza ha cominciato a scricchiolare, come se la potenza dell'acqua fosse irresistibile e il vetro troppo sottile e fragile. Lo ha fatto prima piano, quindi sempre più forte, come se stesse crepando, finché non è esploso completamente con un botto.

    Ho frenato bruscamente. Le ruote avevano poca aderenza sull’asfalto e io ho cercato di sterzare per non finire fuori dalla carreggiata. Ci sono riuscita, ma c’erano aria, acqua e vetri che mi turbinavano addosso. Era come se stessi passando attraverso un ciclone».

    Mi interruppi un attimo per provare a evocare meglio quelle sfuggenti memorie. Frank continuava a guidare. Senz'altro mi ascoltava, però lo faceva in religioso silenzio, con un’espressione cupa, senza zittirmi affatto, perfino quando dichiarai: «Non ricordo bene cos'è accaduto dopo, ma mi sono ritrovata a correre a perdifiato in strada, come se qualcuno mi stesse inseguendo.

    Penso di ricordare anche una via. Gler… Glenu… Glenurquhart road. Era quella, sì, ma era notte. Non ho visto bene ciò che c’era intorno a me. Fatto sta che ero bagnata fradicia, piuttosto turbata. Sono scivolata sull’asfalto e mi sono ritrovata carponi. Non transitava nessuno a quell'ora ed era buio pesto. Ricordo gli alberi ai lati della carreggiata che amplificavano ulteriormente l'ombra della notte.

    C’era qualcosa di inquietante in quella zona: mi faceva molta paura. Stavo fuggendo disperatamente, non so da cosa. Poi, ecco che all’improvviso un’auto mi si è parata davanti e qui… qui stentavo a tenere gli occhi aperti perché i suoi fanali erano come fuochi… occhi di fuoco di una luce accecante.

    Avevo il cofano a meno di due passi da me e udivo il rombo del motore; l’acceleratore pressato con forza in folle. Me lo sentivo: chiunque fosse alla guida di quell'auto era certamente lì per uccidermi, o almeno per farmi del male. Ma per qualche motivo esitava.

    La luce era un crescendo di intensità. Ogni mio sforzo di capire chi sedesse al volante era vano. Volevo soltanto scappar via. Eppure mi rialzai a fatica, come se quella pioggia mi tenesse inchiodata all’asfalto. Non sapevo né cosa fare, né dove andare.

    A un tratto, ho voltato la testa da un’altra parte, verso il bosco, come per gridare aiuto. Qui c’era un uccello… un gufo, credo, appollaiato su un ramo. Era anch’esso illuminato dalla macchina e i suoi occhi… pure i suoi occhi si erano messi a brillare di luce propria. Una luce rossa, spaventosa.

    L’ultima cosa che ricordo è che, subito dopo, quel gufo ha spiccato il volo, spiegando le ali sopra la mia testa. Poi più niente».

    «Agghiacciante!» commentò Frank. Aveva l’aria di non essere più di tanto sorpreso e aggiunse nell’istante appresso: «Chloe, gradirei che non ti lasciassi suggestionare da simili incubi. Insomma, normalmente i sogni possono dire qualcosa di una persona, rappresentarne interessi e pulsioni. Eventualmente anche ricordi rimossi. Questo sarebbe positivo per te, visto che, com’è giusto che sia, intendi scoprire qualcosa di più sul tuo passato. Lascia però che ti dica che i sogni sono anche fantasie iperboliche, cristallizzazioni illusorie di angosce remote e… assolutamente non sono premonitori di fatti che devono ancora verificarsi. Addirittura, talvolta sono soltanto il riflesso delle nostre paure più recondite; paure che vengono espresse per enigmi. Per come la vedo io, credo che il fine di molti incubi sia quello di spingerci ad apprezzare di più la realtà da svegli: una realtà che magari tendiamo spesso a considerare di per sé spiacevole. È un po’ come se il nostro subconscio cercasse di dirci che potrebbe andare peggio se fosse così. Per cui, in un certo senso, è come se intendesse consolarci.

    A ogni modo, nessuno ti inseguirà mai e, anche qualora ciò dovesse accadere, stai pur certa che ci sarò io a proteggerti. Resta vicina a me e nessuno ti torcerà un capello».

    «Il fatto è che quell’incubo sembrava molto, molto reale» sussurrai.

    «Non escludo che tu possa aver ragione» continuò Frank. «Ma se lo credi è solo perché hai subito un grosso trauma. Col tempo ti riprenderai, te lo assicuro. Nel frattempo, prova a farci l’abitudine e, quando avrai altre manifestazioni oniriche da descrivere, non essere restia a parlarmene».

    «Senz’altro».

    In quel momento Frank curvò a sinistra, facendo capo in un vicolo cieco. Intanto che rallentava, asserì: «Ci tengo a ricostruire un dialogo con te. Ci tengo davvero molto.

    A proposito, bentornata a casa. Vediamo se riesci a ricordare qualcosa anche di quella. Sarebbe un buon inizio».

    III

    Un tatuaggio inaspettato

    Inverness è indubbiamente il centro abitato più importante delle Highlands scozzesi: una regione montuosa tra le più pittoresche d'Europa per le meraviglie paesaggistiche che riserva. Nonostante il Regno Unito sia complessivamente caratterizzato da un'alta densità di popolazione, la parte settentrionale della Scozia preserva ancora un legame antico con la natura, in larga misura incontaminata dagli agenti antropici.

    L'ubicazione della città di Inverness è suggerita già dall'origine celtica del toponimo, Inbhir Ness, che significa appunto Foce del fiume Ness. Guarda caso, Inverness si trova a sudovest del fiordo Moray, il più esteso di Scozia, presso il quale il suddetto fiume sfocia. È un emissario che scarica le acque di uno dei laghi più popolari del mondo per via della storia che lo riguarda: il Loch Ness, distante suppergiù dieci chilometri da Inverness. Chi infatti non ha mai sentito parlare dei presunti avvistamenti di Nessie, il leggendario mostro gigante che si anniderebbe da decenni nelle acque del lago? In realtà, il fatto che io vivessi qui non era altro che una mera coincidenza. Non aspettatevi perciò che avrò da raccontare anch'io di qualche avvistamento. Nondimeno, per quanto il negativismo scientifico sia acuto e decisamente influente sull’opinione delle persone ragionevoli come lo sono io, a rimarcare l'impossibilità dell'esistenza di un dinosauro estinto ormai da diversi milioni di anni, non posso negare che una parte di me, ogniqualvolta mi capitava di osservare le acque del lago Ness o dei fiordi Moray e Beauly, fosse curiosamente attiva nella sua ricerca. Loch Ness è insomma una prova arcinota di come talvolta l'immaginabile riesca a incastrarsi bene in una realtà dai contorni sfumati, dove le credenze vengono parzialmente screditate dal dubbio. A breve, questo discorso mi avrebbe riguardata direttamente.

    Erano quasi le quattro del pomeriggio del 7 gennaio e il sole si apprestava già a tramontare. Frank mi aveva già fatta accomodare in casa per la prima volta. Naturalmente dico prima sulla base di quel che ricordavo. Mi offrì tè e biscotti.

    Era una villetta a schiera di due piani, con maestose finestre che davano sulla strada. La si raggiungeva in auto unicamente imboccando una traversa di Balloan road, ossia Glendevon road, nella quale era inclusa con il numero civico 12.

    Nei pressi del garage, specialmente davanti alla bianca facciata, erano presenti delle splendide aiuole ornamentali dalle bordure in pietra che riuscivano ad accrescere l’aspetto già abbastanza accogliente dell’edificio. A detta di Frank erano state una mia idea. L’altro lato della casa, invece, non era impreziosito, come ci si potrebbe aspettare, da un grande giardino. C’era giusto lo spazio per farci crescere un piccolo orticello e degli agrifogli. A dispetto di ciò, proprio al di là di esso, si poteva accedere tramite un lucido lastricato negli accoglienti prati di Castle Heather park. Era un posto tranquillo, contrassegnato da una piacevole e invitante armonia, se si escludevano le grida lontane di qualche bambino scalmanato di tanto in tanto. Sarei andata spesso a sedermi su una delle panchine del parco, giusto per rilassarmi con qualche libro tra le mani. Leggere sarebbe rientrata proprio tra le mie attività preferite.

    Frank mi presentò ogni stanza di casa nostra, istruendomi dettagliatamente su dove fossero disposti i vestiti, le posate, le pentole, gli elettrodomestici e quant’altro, così che potessi ambientarmi in fretta.

    Oltre alla fede nuziale, che in realtà non fungeva più di tanto da prova incontrovertibile della nostra unione, Frank mi mostrò alcuni quotidiani locali che aveva conservato. C’erano degli articoli in cui si parlava espressamente di me e di ciò che mi era accaduto a Chelyabinsk. Non c'erano equivoci: la donna ritratta nelle immagini in bianco e nero ero proprio io.

    Più tardi, Frank si emozionò non poco nel mettermi sotto il mio naso un album fotografico. Lasciò che lo sfogliassi da sola, pagina dopo pagina. Venivamo immortalati entrambi, come i protagonisti principali di mille storie raccontate per immagini. Ogni volta lui si sforzava di descrivere in modo pittoresco il contesto in cui erano state scattate le foto su cui soffermavo la mia attenzione. Mi piaceva il suo modo di raccontare. Riusciva a catturare il mio interesse dando l’impressione di essere un autentico cosmopolita. Riusciva a teletrasportarmi col pensiero in luoghi remoti nel tempo e nello spazio.

    Non serbai più molti dubbi: trovando pure le foto del nostro matrimonio, accertai definitivamente che Frank fosse proprio mio marito.

    Una cosa più di ogni altra lasciò il segno: quanto più mi rivedevo in quelle foto, tanto più ammiravo la mia passata espressione. Certo, avevo un look un po’ punk, ma non stavo poi così male. Sentivo di essere più invidiosa che nostalgica della vecchia me, poiché apparivo felice insieme a Frank, piena di vita, e mi auguravo di poter tornare a esserlo presto.

    Sebbene la versione di mio marito acquistasse sempre più valore, non ero ancora in grado di concedermi a lui pienamente come una moglie normalmente farebbe. Accettava pure lui che non vi fosse ancora alcun bacio, bensì soltanto tanta ritrosia da parte mia, come se fossi una ragazzina al primo appuntamento. Istintivamente esigevo di conoscerlo meglio prima di azzardare un qualsiasi altro passo successivo.

    In ogni modo, Frank mi aiutava a camminare, rispondeva a ogni mia domanda, cucinava per me e poi aveva uno spiccato senso dell’umorismo. Insomma, nella più totale disponibilità, assecondava ogni mio bisogno perché auspicava (e me lo disse espressamente) che recuperassi un po’ di fiducia nei suoi confronti, nonché la consapevolezza che lui fosse l’appiglio al quale avrei potuto aggrapparmi in qualsiasi momento per non precipitare nel baratro della solitudine.

    La prima volta che mi chiusi a chiave nel bagno di casa, intenta a farmi una doccia, restai per parecchio tempo immobile a mirarmi davanti allo specchio. Si ripresentò la stessa sensazione che avevo avuto nel parcheggio dell’ospedale: vedevo nella mia faccia qualcosa di familiare e allo stesso tempo di vagamente sconosciuto. Non sapevo chi avrei dovuto essere, ma mi sentivo in qualche modo distante, diversa da quell’altra me: un’estranea in un corpo che non mi apparteneva, senza punti di riferimento, senza sapere cosa volevo dalla mia vita.

    Mi toccai la parte alta della fronte nel punto in cui ero stata colpita dal frammento di meteorite di cui mi aveva parlato Frank. Non c’era più la benché minima traccia di deformazioni; neanche una cicatrice e questo era veramente strano.

    Osservai poi il mio fisico snello, la pelle chiara e liscia che tastavo delicatamente come per accertarmi che fosse davvero mia. Osservai i capelli: mori, dritti e non molto lunghi; poi ancora la mia enigmatica fisionomia, dove si leggeva un sottofondo che non riuscivo a decifrare. Era come uno squarcio di malinconia latente; un miscuglio di profondissimi ricordi, ghiacciati dietro a quel viso opaco e asciutto, i quali trasparivano flebilmente, in un linguaggio ineffabile, attraverso i miei occhi smeraldini.

    Avvertivo un senso di vuoto dentro di me, come se fino adesso non avessi mai vissuto, come se fossero gli atti del nostro passato, covati nella memoria, a decretare la qualità della vita presente.

    Insomma, ero davvero io quella? Quello specchio stava forse ritraendo un’altra persona? Che stupidaggini! Certo che ero io. Al massimo, la questione era che non mi sembrava di poter incarnare la stessa Chloe raggiante delle fotografie che avevo visto. Rivolsi a me stessa un desolante sorriso.

    Dopo essermi spogliata, mi accorsi subito di un tatuaggio dietro alla spalla destra.

    «Che schifo!» mormorai d’impulso non appena lo vidi. Non mi sembrava neanche possibile che avessi potuto lasciarmelo fare. Aborrivo i tatuaggi e quello specialmente non era di mio gradimento. Rappresentava un serpente dal corpo intrecciato che pareva essere stato colto nell’atto di mordere chi lo guardava, come se potesse protendersi oltre la superficie della mia pelle. Artisticamente era ben fatto, lo ammetto, ma restava qualcosa di inquietante. Qualcosa che non era da me. Mi domandai allora se non mi portassi dentro dei truci retaggi dalla vecchia Chloe; se fosse il caso o meno di tentare di ricordare chi ero, con il rischio di essere soggiogata dalla losca personalità che un tempo probabilmente mi caratterizzava. Per molti giorni ancora avrei vissuto irrimediabilmente il tormento di fissarmi allo specchio, chiedendomi quale fosse la vera me e se mai quell’orrido serpente avrebbe morso di nuovo il mio interesse.

    Nel frattempo però avevo Frank. Ringraziavo il cielo di non essere sola perché, in un momento del genere, con l’angosciante subbuglio che avevo in testa, non avrei sostenuto la pressione di un silenzio rotto esclusivamente dal rivoltolio dei miei pensieri contorti.

    I momenti con Frank divennero sempre più necessari: avevo bisogno di sfogare le mie preoccupazioni, di dialogare con una voce umana che volesse confortarmi e lui non mi deludeva mai. Era capace di esprimermi così tanto affetto e fiducia con i suoi discorsi incoraggianti che ogni angoscia, lo garantisco, si affievoliva. Sempre più frequentemente, già durante la prima settimana, mi accoccolavo su di lui in salotto, adagiando il capo sul suo petto. Mi lasciavo blandire come farebbe una bambina in cerca di coccole e, quando ciò avveniva, sentivo il piacere immenso della sicurezza che lui, uomo senza lati oscuri, era in grado di infondermi. Giorno dopo giorno, il nostro amore, pur senza sapere se mai lo avesse mai fatto in maniera tanto intensa, cominciò a fiorire.

    IV

    Un nuovo impiego

    Frank era professore

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