Al Dio che non conosco
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Info su questo ebook
Laura è una ragazza spezzata. Ha sempre vissuto nell’ombra, oppressa dalla morbosa educazione impostale dai genitori, incapaci di comprendere il disagio che cresce dentro di lei. Un giorno, però, Laura si ritrova catapultata in una realtà che non le appartiene. Non ha idea di dove si trovi, di quale sia il suo posto in questo nuovo mondo. Il muro che ha costruito attorno a se stessa crolla, facendola sentire inadeguata e in pericolo, eppure, grazie all’incontro con persone di origini diverse, la ragazza inizia a cambiare e a crescere, rendendosi conto che ciò che dava per scontato è molto differente da come l’aveva immaginato. Nel suo viaggio all’insegna delle droghe, della sessualità e del difficile rapporto con Dio, Laura arriverà a scoprire una verità che va ben oltre la sua immaginazione
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Anteprima del libro
Al Dio che non conosco - Valeria Cassini
Cover
Parte prima
La dimensione azzurra
Antefatto
Scivolavo via.
Una strana sensazione.
A stento riuscivo a ricordare il mio nome. Mi era sempre piaciuto, aveva un suono mite.
Laura.
Ero una ragazza ordinaria, posata e inconsapevole di quanto la mia vita stesse per cambiare. E, soprattutto, in un modo che non mi sarei mai aspettata.
Nel corso dei mesi avrei imparato ad accorgermi di quanto la realtà dei fatti fosse diversa dalla concezione che avevo delle cose. Certezze che i miei genitori avevano impiegato una vita per trasmettermi, incoscienti del fatto che in pochi giorni le avrei viste distruggersi per sempre.
Sarebbero state fin troppe le domande che mi sarei posta, fra le quali:
Perché proprio io?
Perché proprio l’essere più anonimo e meno consapevole della razza umana?
Avevo vissuto nella convinzione che Dio non si sarebbe mai interessato a me, che mi avrebbe lasciata morire nel mio buco, abbandonata alla mia inettitudine.
Conoscete il mito della Caverna di Platone?
Gli uomini sono prigionieri, incatenati in una grotta, con il capo rivolto verso la parete. Non riescono a vedere le persone che passano dietro di loro, devono accontentarsi delle ombre proiettate sullo sfondo della caverna.
Fino a quel giorno avevo vissuto in mezzo alle ombre. Figure indistinte, che non conoscevo, ma che accettavo come tali perché in fondo non potevano essere tanto diverse da come mi erano state descritte.
Cosa succede, però, quando un prigioniero viene liberato?
All’inizio rimane abbagliato dalla luce, dai colori. Da tutto ciò che non gli era mai stato possibile vedere.
Poi, giorno dopo giorno, impara ad adattarsi. Passa dalle ombre alle cose riflesse nell’acqua del fiume, poi alla luce della luna, alle stelle e infine al sole.
Una volta scoperta la verità, non vorrà più tornare nell’oscurità.
Perché lo fa, invece?
Per salvare i suoi compagni dall’ignoranza.
Al mondo esistono così tante menzogne. La vita di tutti i giorni ci bersaglia di messaggi subliminali che ci ritroviamo costretti ad accettare.
La cosa peggiore è che spesso i primi a mentirci sono proprio coloro che consideriamo più cari. La nostra famiglia, quella che dovrebbe guidarci per la retta via, permettendoci di fare quante più esperienze possibili di modo che possiamo provare sulla nostra pelle cosa significhi commettere degli sbagli.
Solo in questo modo si può imparare a distinguere ciò che è buono da ciò che non lo è.
Ero stanca di vivere di solo pane. Stanca di essere tenuta sotto custodia.
Stanca di ogni cosa.
Ero disposta a tutto pur di cambiare.
E intanto continuavo a scivolare via, mentre i volti dei miei familiari si facevano sempre più oscuri e confusi.
Non ero più in grado di riconoscerli, li stavo abbandonando.
Ricordo di essermi guardata intorno non riuscendo a vedere nient’altro che tenebre.
Pensavo fosse la fine, e invece era l’inizio di ogni cosa.
1
La bambina dai capelli biondi proseguiva incurante delle persone che la stavano chiamando alle sue spalle. Portava scarpe malconce, con le quali tentava in ogni modo di comprimere la terra fredda e scura. Dietro di lei, una ragazza dalla voce squillante continuava a gridare il suo nome.
Quella ragazza ero io.
La situazione si stava facendo sempre più strana e io non potevo fare a meno di pensare a quanto bizzarri fossero gli avvenimenti che ci stavano accadendo.
Cercando di raggiungerla, le domandai dove avesse intenzione di andare e se sapesse dove ci trovassimo.
Lei si girò, mostrando il volto impermalito. I suoi lunghi capelli biondi cadevano piatti sulle spalle e notai come l’oscurità del tunnel facesse risaltare i suoi occhi blu cobalto.
«Non ne ho idea, Laura. Sto cercando una via d’uscita. Dovresti ringraziarmi, perché se fosse stato per te saremmo ancora bloccate dall’altra parte della galleria a piangere dalla disperazione. Sempre che di galleria si tratti.»
Spostai una ciocca di capelli dietro l’orecchio, voltandomi con espressione spaventata. Avevo bisogno di conforto, che in quel momento nessuno era in grado di darmi.
Non potevo certo biasimarli, chi sarebbe stato capace di rassicurarmi in una situazione del genere?
Da un lato ero ancora convinta fosse tutto un sogno, dall’altro non mi ero mai sentita così sveglia come in quel momento.
L’atmosfera era talmente tetra e bizzarra che arrivai a pensare si trattasse di un’illusione.
Lo dissi a Heather, la quale scrollò le spalle con disinvoltura. La sua precoce maturità le impediva di farsi prendere dal panico anche in situazioni assurde come quella. Ricordo quanto non riuscissi a fare a meno di invidiarla, con il suo carattere sveglio e vispo. A differenza sua, io continuavo a sentirmi a disagio.
Proprio così. Nel mio universo malato, una ragazzina di dieci anni aveva più buon senso di una di sedici.
Eppure, quando ero piccola, mia madre era solita ripetermi quanto fossi matura e intelligente. Mi elogiava spesso, risollevandomi il morale e facendomi credere che lo fossi davvero.
Assurdo quanto la realtà dei fatti possa essere diversa dall’idea che ci creiamo di noi stessi.
Mi guardai alle spalle, aspettando con pazienza che Olga ci raggiungesse.
Era accaduto tutto così in fretta. Io, Heather e Olga ci eravamo trovate sommerse da una grande quantità d’acqua senza sapere bene come. Nel momento in cui gli occhi avevano cominciato a bruciarmi, con il liquido che si faceva strada nelle narici, avevo davvero pensato di morire.
C’era molta gente attorno a noi. Figure indistinte, come le ombre della Caverna di Platone. Gridavano, chiedevano aiuto.
La testa girava, mi sentivo come rinchiusa in una grossa bolla d’aria che mi impediva di respirare. La vista si era appannata, tossivo e ansimavo.
Avevo cercato di ripescare nella memoria cosa fosse accaduto, senza riuscirci. Gli ultimi ricordi di quell’orribile esperienza riguardavano il mio svenimento e i volti dei miei amici che tentavano in ogni modo di farmi rialzare.
Mi ero risvegliata fra le braccia di Heather, con Olga alle sue spalle che piangeva, terrorizzata.
Avevo sputato acqua per diversi minuti, fino a che il mio stomaco ne fu svuotato del tutto.
Ero ancora viva.
Da quel momento in poi non avevamo fatto altro che camminare.
Camminare nel buio, lungo una galleria che sembrava scavata apposta per noi. Una realtà della quale non ero mai stata a conoscenza, che la vita non aveva deciso di mostrarmi fino a quel giorno.
Forse si trattava di una dimensione di mezzo, fra la vita e l’aldilà.
Forse eravamo morte sul serio.
Quante risate che si starà facendo adesso il lettore. Starà pensando che quanto appena narrato sia puro frutto della fantasia. Neanche noi sapevamo cosa ci stesse accadendo, e vi chiedo umilmente perdono se racconto tutto questo senza descrivere lo stupore e le domande che ci stavamo ponendo.
Sappiate però che questa storia è stata scritta per voi.
Ho deciso di mettere su carta parte della mia vita. Quella più folle, sporca e della quale mi vergogno; interrotta di tanto in tanto da brevi, miseri spiragli di luce visti per pochi istanti.
Quando sentii una mano toccarmi la spalla mi riscossi dai miei pensieri. Mi girai e scorsi il volto familiare dell’altra mia amica. Più la guardavo, più tutto appariva strano e incomprensibile.
Era proprio lei, Olga. Lunghi capelli biondi e grandi occhi azzurri pieni di stupore e preoccupazione.
Doveva aver compreso il mio disorientamento, dato che mi strinse tra le braccia, appoggiando la testa sulla mia spalla. Mi lasciai trasportare da quella sensazione di familiarità, dimenticandomi per un istante di trovarmi sperduta in qualche misterioso luogo del cosmo.
Eravamo sempre state insieme, io e lei. Per anni le uniche persone al di fuori della mia famiglia che mi era stato concesso di frequentare erano Heather e Olga, e in quel momento ci ritrovavamo nella stessa situazione.
Mia coetanea, era la sola che riuscisse a capirmi e con la quale potevo condividere ogni mio disagio.
Eravamo due pedine gemelle mangiate dalla stessa regina.
Per anni avevo pensato che il nostro incontro non fosse stato un caso, che Dio stesso avesse fatto in modo che ci conoscessimo per sentirci meno sole. Anche perché la solitudine era oramai divenuta una compagna di viaggio che mi portavo dietro da molto tempo.
La voce di Heather mi riportò alla realtà: il tunnel stava per terminare.
Aveva ragione. Non ci trovavamo più in mezzo alla buia galleria, eravamo circondate da solide mura, talmente alte che quasi mi tolsero il respiro.
2
Lo stretto passaggio si affacciava su un’altra galleria, della quale riuscivamo con facilità a intravedere la fine. In fondo c’erano delle scale che, con ogni probabilità, portavano all’uscita di quel posto così strano.
Mi affrettai a raggiungerle, con Olga sempre al mio fianco ed Heather che, incuriosita, continuava a guardarsi intorno.
Sperai che fosse impaurita almeno quanto me, ma che, semplicemente, non lo desse a vedere. Non riuscivo a sopportare di essere sempre la più emotiva, anche se, in quel caso, si trattava di una reazione del tutto umana.
Olga si muoveva con cautela, come un gatto appena liberato dalla gabbia che inizia a esplorare l’ambiente che lo circonda.
Avevamo vissuto entrambe come animali intrappolati, incapaci di reagire agli stimoli offerti dal mondo esterno.
«Dove pensi che ci troviamo, Laura?» mi domandò la mia amica, stringendomi il braccio fino a farmi male.
«Non ne ho idea», sospirai. «È tutto così assurdo.»
«Saliamo le scale e vediamo dove portano», si intromise la bambina. «È l’unica soluzione.»
Decidemmo di seguire il suo consiglio, rendendoci subito conto, dopo appena sei scalini, di aver già raggiunto la fine.
Riconoscere qualcosa di familiare era del tutto impossibile. Ci trovavamo in una grande sala che dava l’impressione di appartenere a un’altra epoca.
Lo stile ricordava un palazzo medioevale, adorno di colonne variopinte e addobbato con quadri raffiguranti il Cristo crocifisso.
Doveva trattarsi di una chiesa, anche se molto diversa da quella che eravamo soliti frequentare.
Sentivo il bisogno di uscire da quel luogo, e sapevo che anche Olga la pensava allo stesso modo. Heather aveva iniziato a ignorarci e aveva preso a esplorare la grossa stanza con interesse, toccando ogni cosa le capitasse davanti.
La osservai mentre correva da un quadro all’altro, fermandosi qualche secondo per ammirarlo e passando poi a un altro.
Sembrava tanto eccitata da essersi quasi abituata all’assurda situazione nella quale ci trovavamo.
Fin da piccola Olga si era sempre mangiata le unghie, ma in quel momento il vizio era peggiorato. Sembrava quasi volesse strapparsi la pelle dalle dita.
Fisicamente eravamo molti simili, tanto che spesso la gente ci scambiava per sorelle. Eravamo entrambe alte, con la pelle chiara e i capelli biondi. Solo che, a differenza dei suoi, i miei erano più corti e più mossi.
Sentendo dei passi che si avvicinavano, mi lasciai assalire dall’ansia e mi nascosi subito dietro a una panca. Olga mi seguì, sempre più intimidita e impaurita.
Anche Heather aveva trovato riparo, non lontano da me.
Alzai la testa per vedere cosa stesse accadendo. Vidi una dozzina di monaci che entravano nella sala e si disponevano a cerchio. Al loro arrivo le luci si accesero, dando alla sala un aspetto più elegante e meno antiquato.
I monaci iniziarono a intonare un canto, muovendo a tempo braccia e gambe e tenendo gli occhi chiusi. Con la coda dell’occhio scorsi Heather, aveva l’aria sempre più stupita.
«Questo posto non mi piace, Laura. Voglio uscire di qui», mi sussurrò Olga, senza smettere di tenermi il braccio.
Non avevo mai visto riti religiosi di quel genere. La chiesa che frequentavo io, quella cristiana cattolica, era ben diversa.
Mi venne quasi da sorridere al pensiero di mia madre in mezzo a quelle persone. Si sarebbe spaventata, avrebbe iniziato a pregare, invocando Dio di far uscire il diavolo fuori da quella povera gente.
Era incredibile con quanta facilità il cattolicesimo riuscisse ad associare qualsiasi comportamento strano a entità demoniache.
Non avendo altra scelta, decidemmo di muoverci verso l’uscita, approfittando del fatto che tutti tenessero gli occhi chiusi.
Fu allora che ci rendemmo conto di non essere le sole spettatrici. Lungo un lato della stanza c’erano diverse persone, che assistevano al rito come se si fosse trattato di una vera e propria cerimonia.
Era tutto così assurdo. Quando erano entrate? E da dove, poi?
Le amiche mi seguirono, mentre io mi avvicinavo adagio alla gente con la speranza di confondermi in mezzo alla folla.
Non potevano certo definirsi un gruppo numeroso, almeno non come quello che frequentava la mia chiesa. Individuai delle persone anziane sedute in fondo, mentre sulle panche davanti c’erano bambini e ragazzi che a occhio e croce avevano la nostra età. Decidemmo dunque di unirci a loro e aspettare per vedere cosa sarebbe accaduto.
Mi sedetti accanto a una ragazza alta e magra, la quale mi rivolse un sorriso che mi affrettai a ricambiare. Aveva i capelli castani mossi e indossava una camicia a righe bianche e blu.
Appena la vidi, mi resi conto di quanto fosse bella, sorprendendomi di me stessa per quel pensiero così spontaneo. Spinta dalla curiosità, iniziai a osservarla; dalle labbra carnose al naso a punta, dai lineamenti infantili al fiore bianco che portava fra i capelli.
Quando la ragazza si rese conto dell’intensità con cui la stavo fissando, mi prese la mano e iniziò a stringerla senza smettere di sorridermi.
«Io sono Claudia», disse a bassa voce.
«Laura, piacere», risposi, poi le presentai anche Olga e Heather, che la salutarono con un cenno del capo.
«Siete arrivate piuttosto in ritardo, la cerimonia è già iniziata da un po’», continuò lei, legando i capelli dietro la schiena e lasciando che una ciocca le ricadesse sul viso.
«Veramente non siamo di qui», affermò Heather prima che potessi fermarla.
«In effetti non vi ho mai viste da queste parti. Da dove venite?» rispose lei, incuriosita.
«Abitiamo a Melrose», dissi. «Un minuscolo e sconosciuto paese del Regno Unito. Viverci non è poi così brutto, anche se a volte vorrei fosse un po’ meno tranquillo, se capisci cosa intendo.»
Evitai di raccontarle l’esperienza vissuta nel tunnel, in quanto non potevo essere certa che mi avrebbe capito e, a dirla tutta, non avrei nemmeno saputo da dove cominciare.
Non riuscivo ad accettarla io, che ci ero passata, come avrebbe potuto farlo una sconosciuta?
«Infatti non credo di averlo mai sentito.» Fece passare una ciocca di capelli dietro un orecchio. «Siete in vacanza qui in Toscana?»
«Toscana? in Italia?» intervenne Olga, adesso di nuovo preoccupata.
«Certo, dove altrimenti?» disse ridacchiando.
Heather mi sussurrò in un orecchio, in cerca di una qualche spiegazione plausibile.
Non sapevo cosa rispondere, perché io per prima non riuscivo a ricordare nulla. La mia mente era vuota e scollegata, tanto che quasi faticavo a ricordarmi della vita che avevo vissuto fino a quel giorno.
Molte domande mi tormentavano. Cosa avremmo dovuto fare?
Mi sforzai di ricordare cosa stessimo facendo prima di essere sommerse dall’acqua, e come fosse mai stato possibile raggiungere quel luogo.
Inoltre, per qualche assurda ragione, il significato stesso di quel linguaggio non mi appariva lontano e sfuggente. Riuscivo a comprendere il gergo di quei ragazzi, nonostante in Toscana avrebbero dovuto parlare italiano, idioma che io non conoscevo affatto.
Oppure erano loro a parlare in inglese?
Mi era impossibile comprenderlo.
Un rumore di passi interruppe i miei pensieri. La cerimonia
era conclusa e la gente iniziava a muoversi. Claudia si alzò e si fermò a conversare con gli altri ragazzi. Teneva le mani in tasca, e notai che, quando sorrideva, il naso le si arricciava, dandole un’aria ancora più infantile.
Mi avvicinai a Olga ed Heather e le scrutai con fare interrogativo, senza sapere bene cosa fare. Continuavo a guardarmi attorno con disinvoltura, nella speranza di non essere notata.
«Credo sia meglio unirci al gruppo degli amici di Claudia, in modo da uscire da questo posto senza dare nell’occhio. Poi cercheremo di capire cosa diavolo stia succedendo.»
«Sono d’accordo», mi appoggiò la bambina.
Olga sembrava l’unica ad avere un’altra opinione. L’idea di fare nuove amicizie mi allettava, nonostante fossi consapevole di non esserne poi così capace. La mia amica era diversa, cresciuta nella convinzione di dover vivere per sempre assieme a me, lontano da tutti gli altri.
Quella cortina di ferro che ci avevano costruito attorno negli ultimi anni iniziava ad asfissiarmi.
Nel frattempo i presenti avevano cominciato a riempire i tavoli in fondo alla chiesa con dolci e vivande di ogni tipo e gran parte di loro si era radunata attorno al bancone per prendere parte al rinfresco. Mi domandai il motivo dei festeggiamenti, ma il quesito si ammassò insieme alle mille domande che mi frullavano per la mente.
Osservai Claudia dirigersi verso di noi con il piatto colmo di cibarie. Si era sciolta i capelli, che adesso le ricadevano impetuosi sulle spalle.
Notai che la ragazza era ancora incuriosita dalla conversazione avuta poco prima. Eravamo state imprudenti a mostrarci sorprese quando aveva nominato l’Italia.
Non avendo alcuna intenzione di raccontarle quello che ci era successo, inventai una vacanza in Toscana con i nostri genitori, da cui ci eravamo separate qualche ora prima, avendoli persi di vista in un momento di distrazione.
Mi sentii subito in colpa per aver mentito, ma in fondo non potevo essere sicura che si trattasse di una vera e propria menzogna, dal momento che non riuscivo a ricordare nulla di ciò che era successo.
«È normale, non siete del posto, ma non possono essere andati lontano, il paese è piccolo, li troverete alla svelta. Devo ammettere che parlate bene l’italiano. In ogni modo, immagino che sarete affamate. Venite, c’è molta scelta.»
Nel momento in cui mi avvicinai al bancone per prendere qualcosa da bere, notai una donna con un vassoio in mano e quasi mi mancò il respiro.
3
Eccoci qua, pensai. Sperdute in un luogo sconosciuto con l’ultima persona che ci saremmo aspettate di incontrare. A pochi passi da noi c’era infatti la nostra insegnante, Patricia, con una bimba in braccio. Avevo passato con lei tutti gli anni della scuola elementare, e la ricordavo ancora con affetto.
La chiamai per nome, attirando l’attenzione di Heather e Olga, che nel frattempo avevano iniziato a mangiare.
La donna si voltò e mi rivolse uno sguardo del tutto sorpreso.
Si avvicinò a me, posandomi un braccio sulle spalle e fissandomi con occhi pieni di meraviglia.
«Laura!» esclamò infine.
«Anche lei qui?» domandò Olga, attenta a non mostrarsi troppo spaesata.
«Se devo essere sincera, è una storia lunga. Sono successe cose molto strane in questo periodo.»
Sentendo le sue parole, le raccontai di getto tutto quello che ci era capitato nelle ultime ore e osservai il suo volto divenire sempre più sconvolto. Avevamo avuto la stessa esperienza, perciò non restammo stupiti quando ci rivelò di non ricordare nulla di quanto le era accaduto prima di trovarsi in Toscana.
«È stato terribile», spiegò, in preda all’agitazione. «Ero con mia figlia e mi sono trovata all’improvviso sommersa dall’acqua, assieme ad altre persone che però non riuscivo a vedere. Con il passare del tempo ho recuperato la vista che credevo di aver perduto, risvegliandomi qui con Julie, che dormiva e che sembrava non essersi accorta di nulla.»
Continuammo a parlare per diversi minuti, nel tentativo di venire a capo di una situazione che oramai aveva dell’incredibile. Si trattava di un sogno o di qualcosa che stavamo vivendo sul serio?
«Cerchiamo di fare il punto della situazione», disse Heather. «Abitiamo tutti a Melrose, ma adesso ci troviamo qui, in Toscana. Non ricordiamo cosa sia successo, ma credo sia probabile che nel momento della perdita di memoria ci trovassimo tutti assieme.»
«Sì, credo sia andata così», affermai. «Però come spieghi tutte quelle sagome nere che abbiamo visto sott’acqua? E quel tunnel?»
«Non me lo spiego», ammise la bambina.
Dalla finestra aveva iniziato a filtrare una forte luce, così invadente che mi ritrovai costretta a ripararmi gli occhi con una mano.
Avevo bisogno di uscire, di prendere aria. Iniziava a mancarmi il fiato, e così anche alle altre.
La nostra insegnante ci fece strada verso l’uscita.
Al posto del piccolo corridoio che avevamo percorso per entrare in chiesa, adesso davanti a noi c’era una lunga scalinata bianca che permetteva di scendere nei giardini sottostanti.
Mi fermai un istante sulla soglia della grossa porta di legno ad ammirare il panorama davanti a me. Avevo letto molto sulla Toscana e avevo sempre desiderato visitarla, nonostante i miei genitori fossero sempre stati contrari a viaggiare così lontano da casa. Cercando di non pensarci, scesi le scale con rapidità, desiderosa di sentire il profumo dei fiori nel prato.
Heather si avvicinò a me, prendendomi per mano, e io la guardai con sguardo intenerito.
«Credi che questa luce mi farà male agli occhi?» mi domandò, cercando di stare il più possibile all’ombra degli alberi.
«Non credo, Heather. Sei stata tu a dirmi che, secondo il medico, nonostante l’albinismo non sei mai stata un soggetto a rischio. Perché me lo chiedi?»
«Non lo so», ammise, abbassando la testa. «Non mi sento molto a mio agio.»
«Non darti pena», tentai di rassicurarla.
Essendo la più giovane del gruppo, era giusto che ogni tanto si lasciasse andare a qualche preoccupazione infantile.
«C’è una spiegazione logica a tutto», continuai. «Spesso si verificano casi di perdita di memoria collettiva, è un fatto scientifico e non c’è nulla di cui preoccuparsi. Prima di pensare a cosa fare, cerchiamo, per quanto possibile, di rilassarci.»
«Sì, ma il tunnel che è sparito?»
«Non lo so, tesoro. Magari eravamo scosse e ce lo siamo solo immaginato.»
La bambina annuì, anche se non troppo convinta.
La prima cosa che notai fu l’allegria delle persone intorno a noi. I bambini correvano e giocavano con spensieratezza, le ragazze e i ragazzi scherzavano fra di loro. Le famiglie si scambiavano teneri saluti per poi allontanarsi, forse verso la loro abitazione.
Strana sensazione. Tutto poteva definirsi regolare, ma allo stesso tempo non lo era.
Avrei potuto definirla un’insolita normalità.
Avevo la sensazione che l’atmosfera, gli odori e i colori non fossero più gli stessi.
Perfino l’aria che respiravo sembrava strana, diversa.
Heather mi lasciò la mano e io iniziai a studiare con più attenzione l’ambiente circostante. Davanti a noi si stendeva la piazza principale, circondata da diverse abitazioni colorate, mentre attorno alla chiesa c’erano i giardini ecclesiastici, dove i bambini giocavano e si divertivano. All’altro capo dell’edificio c’era invece un grande parco fiorito. Mi erano sempre piaciute le piante, perciò tentai in ogni modo di individuare qualche specie riconoscibile, senza successo.
Perfino i fiori avevano fattezze diverse.
Nonostante ciò, dovetti riconoscere di non aver mai visto un prato così colorato.
Il mio curiosare fu interrotto da Claudia, che mi aveva raggiunto di corsa per chiedermi se io e le altre avessimo intenzione di restare a lungo in Toscana.
«Non lo so, mi dispiace», le dissi con tono pacato. «Non siamo ancora riuscite a contattare i nostri genitori.»
«Potete cercarli dopo, non scapperanno mica. Avete voglia di venire a nuotare nel lago con i miei amici?»
Lanciai un’occhiata alle altre che, eccetto Olga, sembravano tutte d’accordo; in attesa di capirci qualcosa in più, non era una brutta idea fare due chiacchiere con qualcuno del posto.
La ragazza mi prese una mano e iniziò a tirarmi con forza perché la seguissi, come se avesse fretta di mostrarmi il suo paese.
Nonostante la memoria quasi del tutto azzerata, sapevo