Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Sogni pericolosi
Sogni pericolosi
Sogni pericolosi
E-book330 pagine4 ore

Sogni pericolosi

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

E se i tuoi sogni fossero quelli di qualcun altro?

Parker Chipp ha paura dei suoi sogni. È un ragazzo come tutti gli altri, ma ultimamente gli sta accadendo qualcosa di molto strano: appena si addormenta, entra nei sogni dell’ultima persona di cui ha incrociato lo sguardo. E quasi sempre si tratta di incubi, terribili segreti, paure e angosce che ogni notte lo tormentano e gli impediscono di riposare. Poi Parker incontra Mia. I suoi sogni sono sereni, limpidi, tranquillizzanti. Finalmente Parker può trovare pace dopo tante notti inquiete. Talmente dolce è questa nuova sensazione, che il ragazzo non può più stare senza Mia. La cerca ogni sera prima di addormentarsi, percorrendo anche lunghe distanze pur di incrociare il suo sguardo. E a scuola tutti pensano che sia impazzito, persino il suo migliore amico. Fino a quando, un giorno, Mia racconta di essere minacciata da uno stalker. Molti credono che si tratti di Parker, e neppure lui, che ha cominciato a soffrire di vuoti di memoria, è sicuro di essere davvero innocente…

Non ti farà chiudere occhio

Il peggiore incubo è quello degli altri...
J.R. Johansson
vive a Orem, nello Utah, con suo marito e i loro due figli. Durante il corso di studi in Relazioni Pubbliche, ha sostenuto anche alcuni esami di psicologia, da cui ha tratto ispirazione per i suoi personaggi. Sogni pericolosi è il suo libro d’esordio.
LinguaItaliano
Data di uscita28 gen 2015
ISBN9788854156753
Sogni pericolosi

Correlato a Sogni pericolosi

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Fantasy per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Sogni pericolosi

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Sogni pericolosi - J.R. Johansson

    realizzassero.

    Capitolo uno

    Ormai erano quattro anni che non dormivo davvero, e temevo che la mancanza di sonno stesse iniziando a uccidermi.

    Quella notte, trovare qualcuno che non fosse Mr Flint con il quale scambiare l’ultima occhiata prima di andare a dormire sembrava un’impresa impossibile. Inoltre, Mr Flint era solo un vecchio, custode della biblioteca di Oakville. Avevo già visto i sogni di uomini come lui. Di solito la parte più interessante era il nuovo tagliaerba che si erano procurati.

    Ma nell’istante in cui il suo sogno iniziò, capii di essermi sbagliato. Quell’uomo non era affatto come gli altri.

    Una donna era distesa di traverso sul letto con un braccio esile appoggiato sugli occhi, i jeans troppo lunghi laceri sul fondo. La canottiera bianca era rimboccata su un lato, lasciando la pancia nuda, esposta. Pensai fosse piuttosto attraente finché non notai le rughe attorno alla bocca, l’anello al dito, e ciuffi di capelli grigi che le incorniciavano il volto. Sospirai: sognare mamme sexy non faceva per me.

    La scena si congelò davanti ai miei occhi per un attimo e mi guardai intorno. Le pareti erano verde chiaro; sulle lenzuola erano disegnati piccoli fiori rosa e blu. Sentii il tuono, poi il profumo del legno umido mi riempì le narici. Tutti i sensi mi pervasero all’improvviso, schiantandomisi addosso come un’onda.

    La pioggia entrava dalla finestra aperta, riversandosi nel cassettone in cedro. Le pesanti tende verdi frusciavano senza sosta, cornici al buio della notte.

    Sapevo che presto avrei visto Mr Flint. L’artefice del sogno arrivava sempre per ultimo, come se il cervello avesse costruito la scena prima di spingercelo dentro. Mi ci era voluto parecchio tempo prima di capire anche solo in modo superficiale come funzionano i sogni. Non pensavo che avrei mai compreso il mistero del tutto. Ci avevo messo mesi prima di capire che i sognatori non potevano vedermi. Anche quando mi ci piazzavo davanti e urlavo a pieni polmoni, nessuno sapeva che ero lì.

    Era piuttosto ironico, saperne tanto dei sogni degli altri quando io stesso non dormivo mai. Be’, il mio corpo dormiva, il mio cervello invece… non proprio. Il mondo dei miei sogni non era più mio. Era proibito, distante. Io ero soltanto uno spettatore, una presenza passiva nella mente di qualcun altro. Vedevo quello che loro vedevano, sentivo quello che sentivano. Conoscevo i loro sogni come conoscevo la mia stessa pelle. Tutti i sogni hanno diversi livelli, questo l’avevo imparato in fretta. Come se il cervello si annoiasse nel creare un sogno solo alla volta. Accadeva sempre qualcosa in più, sotto la superficie. Il mio cervello tendeva a lasciarmi nel livello più vicino alla realtà, il resto lo dovevo indovinare. Non ne ero sicuro, però era l’unica spiegazione che fossi riuscito a darmi del perché vedevo spesso dei ricordi. Vedevo anche cose stravaganti, anche se erano meno frequenti. Stavolta attorno a me non c’erano folletti o mobili parlanti, quindi questo sogno era l’ennesima dimostrazione della mia teoria. Io non vedevo il significato sottinteso, le metafore. Vedevo la realtà.

    Il tuono risuonò di nuovo e io sussultai, in attesa che lui comparisse. Era evidente che quello di Mr Flint era un ricordo, e speravo sarebbe finito in fretta. Non mi piaceva assistere ai ricordi. In qualche modo mi sembrava più invadente che intrufolarsi nei sogni. In un ricordo tutti i dettagli erano chiari, non c’era la foschia che offuscava altri sogni. Dopo anni, avevo imparato che un tale livello di precisione e dettaglio significava soltanto una cosa. Questa non era una creazione della mente di Mr Flint: era la sua vita. L’analisi contorta che il suo cervello aveva fatto del passato aveva reso pesante l’aria intorno a me, come se avessi dovuto guardare la scena un milione di volte in una sola.

    E poi lo vidi. Mentre la guardava dalla porta della stanza. Quando le sue emozioni raggiunsero il culmine, mi schiacciarono togliendomi il fiato. I sentimenti disperati e turbolenti del custode mi travolsero, onde su onde di tristezza, rabbia, tradimento. Ciascuna mi colpiva più forte della precedente finché il dolore non le superava tutte, insopportabile, costante. Il dolore era diventato vita. Non era rimasta più alcuna speranza. Il male la riempiva, insieme a tutto ciò che puzzava di tempi felici.

    Mi accovacciai, premendomi un fianco e ansimando. Sapevo cosa stava per accadere.

    La stanza era carica di un’energia inspiegabile, mentre il dolore fisico sbiadiva verso sensazioni più minacciose: odio, e adrenalina che gonfia le vene, che si trasformarono nella rabbia più pura che avessi mai visto.

    Le mie mani artigliavano il pavimento mentre la furia di Mr Flint mi devastava. Il suo bisogno di distruggere, di fare del male, mi soffocava.

    Mentre si avvicinava al letto, qualcosa gli luccicò in mano. Strizzai gli occhi per vedere meglio. Stringeva uno scintillante tagliacarte d’argento dal manico blu scuro. Insieme alla triste intenzione dipinta sulla sua faccia, era l’arma più letale possibile.

    Lottai contro le sue emozioni e tentai disperatamente di muovermi, volevo nascondermi da ciò che sapevo sarebbe accaduto, ma era inutile. Non potevo andarmene. Potevo soltanto chiudere gli occhi, e comunque le emozioni del Sognatore erano la parte peggiore e da quelle non potevo fuggire. Anche se non avessi guardato la scena, la mia immaginazione avrebbe colmato le lacune. Troppo spesso ciò che la mia mente produceva era peggio dell’incubo in cui ero intrappolato.

    Le schiacciò un cuscino in faccia e affondò tre volte la lama. Urli gorgoglianti squarciarono l’aria. Insieme ai grugniti di lui, la morte della donna creava una spaventosa melodia, finché il suono si spense in un sussurro. L’improvviso silenzio mi divorò. Mi sforzai di controllare il respiro, mentre il suo sangue si riversava dal triangolo di ferite sulla canottiera e poi giù sulle lenzuola a fiori. La testa mi faceva male e il cuore mi batteva all’impazzata.

    La sua rabbia cessò bruscamente com’era iniziata, lasciandosi dietro soltanto disperazione. Riuscivo a sentire quanto la odiava, quanto odiava se stesso. La sua assoluta certezza che la vita non valesse più la pena di essere vissuta mi piombò sulle spalle con tutto il suo peso. Mr Flint prese le mani della donna fra le sue e iniziò a singhiozzare. Le sfilò la fede d’oro dal dito e se la portò alle labbra. Gemiti esasperati gli facevano sobbalzare il corpo, seppellendoci entrambi nello squallore di quel momento, rendendo l’aria pesante, irrespirabile.

    Ero inorridito da me stesso: perché provavo pietà per lui? Il contrario mi era impossibile, perché sentivo le sue emozioni. Il sogno poteva anche essere un ricordo, ma Mr Flint era addormentato, sospeso in quel luogo dove i confini fra ciò che è giusto e sbagliato si confondono. Io invece no. Dispiacersi per un assassino mi disgustava, ma non aveva importanza: la sua autocommiserazione mi travolse, dominando la mia repulsione.

    Guardai lui e poi la donna, sua moglie. Non era lo stesso uomo dell’inizio del sogno. In lui c’era qualcosa di diverso, così forte che riuscivo a percepirlo con chiarezza. Ora era un omicida. Non sarebbe più stato la stessa persona. Non poteva più tornare indietro.

    Mr Flint era il riflesso della mia capacità: la mia maledizione. Dopo aver visto i suoi ricordi, nemmeno io sarei più stato lo stesso.

    Mi alzai tossendo. Ero sudato. Mi raggomitolai mettendo un braccio attorno alle ginocchia e cercai di riprendere fiato. Perché mi era toccato proprio lui? Perché proprio un assassino?

    Essere Spettatore faceva schifo, specialmente quando tutti attorno a me erano Sognatori. Non sapevo se ci fosse qualcun altro come me là fuori, però sapevo che se un qualunque fortunato Sognatore avesse incrociato per ultimo il mio sguardo, non me ne sarei liberato. Non importa quanto volessi sfuggirgli, ero bloccato con quella persona per la notte.

    Un colpo forte alla porta mi fece rotolare fuori dal letto.

    «È il fine settimana, mamma». La mia voce era roca ed esausta. Barcollai verso il bagno, respirando profondamente e sforzandomi di non pensare al sogno di Mr Flint.

    Dentro e fuori.

    Dentro e fuori.

    «È quasi mezzogiorno, sua maestà», urlò dalla cucina.

    Mi fermai a metà corridoio e mi strofinai gli occhi. «Sono quasi le undici. Smettila di esagerare o dovrò assumere qualcun altro».

    «Sì, sì», borbottò lei.

    Dovetti sforzarmi di non svelare a lei, né a nessun altro, quello che avevo visto. Sarei tanto voluto andare dalla polizia e raccontargli che avevo visto Mr Flint assassinare la moglie in un sogno, ma sapevo che nessuno mi avrebbe creduto, e il reparto di psichiatria non mi sembrava il miglior posto per passare il tempo.

    Presi il giornale dal tavolino all’ingresso e lo portai in bagno. Il freddo delle piastrelle mi pizzicava i piedi mentre sfogliavo le pagine. Ed eccolo lì:

    Marie Flint, nata il 9 maggio 1971, morta la notte scorsa in quel che sembra un tentativo di rapina finito male. Gli amici e la famiglia potranno porgerle l’estremo saluto al mortuario di Oakville martedì.

    Domani.

    La Flint non era morta da molto, ma era troppo tardi per salvarla. Non c’era nulla che potessi fare ormai, nulla che avessi potuto fare prima. La polizia era sulla pista sbagliata, ma sarebbero arrivati da soli alla verità, anche senza il mio aiuto. Almeno lo speravo.

    Per un lunghissimo momento mi domandai: se avevo ragione, e questa maledizione mi avrebbe pian piano ucciso, cosa ci sarebbe stato scritto sul mio necrologio? Parker Daniel Chipp, studente sedicenne alla Oakville, ucciso dall’insonnia. Oppure qualcosa di generico tipo cause naturali? In ogni caso sarebbe stato patetico.

    Mi trascinai nella doccia e girai la manopola in modo che l’acqua scendesse così fredda da pugnalarmi la pelle come migliaia di schegge di vetro. La maggior parte delle volte era l’unico modo per tenermi sveglio. L’acqua mi scorreva in rigagnoli sulla pelle, portandosi via i frammenti del sogno. Le docce calde appartenevano al passato ormai. Dopo essermi strofinato con forza, chiusi l’acqua.

    Mi misi un asciugamano intorno alla vita, sforzandomi di pensare ai sogni più felici cui avevo assistito. I sogni degli altri occupavano una parte così grande della mia vita – e del mio cervello – che non fu difficile trovarne uno. Ciascuno di essi era unico, e ugualmente snervante.

    I livelli erano la parte più difficile. Mi provocavano un mal di testa terribile che poteva andare avanti per ore dopo il mio risveglio. Era come se la parte subconscia del cervello del Sognatore si allungasse come un muscolo per ammassare dentro il mio cranio più roba possibile, forse per torturarmi. A volte, i livelli di sfondo erano una specie di nebbia, che copriva la parte dominante del sogno come un velo. Di rado capitava che i diversi livelli che si sovrapponevano avessero una consistenza fisica – alcuni basati sulla realtà, altri più bizzarri delle allucinazioni da LSD. Il Sognatore rimbalzava su e giù come una pallina da ping-pong, come se il suo cervello non riuscisse a decidere cosa sognare.

    E poi c’era una specie di foschia che volteggiava nei sogni più vividi. Se te ne stavi lì, nei riccioli di fumo del vapore argentato, potevi perfino sentire il cervello del Sognatore pensare, rivivere una situazione, decidere. Le parole e i pensieri erano buttati alla rinfusa e così intricati che in pochi secondi potevano farti girare la testa. Dopo la mia prima esperienza con la foschia, cercavo sempre di evitarla.

    Il peggio accadeva quando i livelli erano così annebbiati che sembravano un rumore di fondo e producevano il ronzio di un milione di api. Il giorno dopo essere capitato in un sogno di questo tipo avevo sempre mal di testa, il tipo di dolore che nessuna medicina poteva scalfire.

    Tirai un respiro profondo e cercai di concentrarmi. Mentre mi asciugavo, sentivo attorno agli occhi dei cerchi profondi, come se fossero stati lì abbastanza a lungo da scavarsi nella faccia. Rabbrividii, mi spostai gli scompigliati capelli neri dalla fronte e controllai allo specchio se l’immagine riflessa fosse messa peggio del giorno precedente. Un paio di occhi blu ghiaccio mi fissava. Sì, avevo un aspetto merdoso. Potevo farci qualcosa? No.

    Mi infilai i jeans e una felpa e andai in cucina. Profumava di limone e frutti di bosco. Frutta fresca: la colazione preferita di mamma. Mi salutò con un ampio sorriso, ma io distolsi lo sguardo quando i suoi occhi incontrarono i miei. Sapevo cosa stava pensando. La sua preoccupazione continua era la ragione per cui guardavo i suoi sogni solo quando non avevo altra scelta.

    «Hai dormito bene?»

    «Certo». Annuii, ignorando la sua inquietudine.

    Mamma mi si piazzò davanti e mi mise una mano sulla fronte. Con un sospiro, la abbassò e fece una smorfia con le labbra. «Be’, ti senti bene…».

    La presi per le spalle, sorrisi e la fissai dritto negli occhi. Non importava con chi incrociassi lo sguardo di prima mattina. A quell’ora ero ancora al sicuro.

    «Perché sto bene».

    Appoggiò il mento al pugno e camminò avanti e indietro per la cucina mentre io andavo a caccia di qualcosa per colazione. Conoscevo il gesto. L’avevo vista guardare papà in quel modo così tante volte prima che lui se ne andasse che non l’avevo dimenticato.

    Il primo anno senza di lui, mamma era così arrabbiata che si gettò a capofitto nel lavoro. Non mi faceva mancare niente, ma non si accorse mai di quanto ero stanco. Ormai erano passati tre anni. Mi mancavano ancora quei giorni, quando lei non era in casa e io non dovevo fingere di essere normale.

    Tagliai a fette una mela con il coltello più grande che trovai e lottai contro quel misto di frustrazione e rabbia che mi invadeva ogni volta che pensavo a mio padre. Avevo già abbastanza problemi, di certo non volevo occuparmi del peso che si era lasciato alle spalle.

    Poi la guardai, pronto a gestire la situazione come avevo sempre fatto, cambiando argomento.

    «Allora, hai qualche appuntamento oggi?».

    Mamma prese il cellulare dal bancone e diede una scorsa al calendario. «Devo far vedere un paio di case nel pomeriggio e altre stasera. Potrei fare un po’ tardi. Te la caverai da solo?»

    «Sì, forse mi vedo con Finn».

    «E basta? Non viene nessun altro? Solo Finn?». Strizzò gli occhi. Ancora una volta, non mi credeva.

    Mi infilai uno spicchio di mela in bocca e andai alla finestra. Quella conversazione doveva finire. «Sì, solo Finn», gracchiai.

    Lei annuì e tornò a concentrarsi sul telefono.

    Mi trascinai in camera da letto e mi infilai un paio di scarpe da ginnastica che mi sembrarono di piombo. La forza di gravità era il mio peggior nemico ormai. Ogni mattina braccia e gambe – e persino le ciglia – erano più pesanti. Rimasi sorpreso quando la bilancia indicò lo stesso peso, o poco meno, della settimana precedente. Quando ci salivo, mi aspettavo sempre che la mia testa pesasse un po’ di più perché era diventato molto difficile tenerla dritta.

    Quando avevo compiuto sedici anni, il mese prima, avevo esaurito la mia ultima trovata. Mi ero fermato alla stazione di servizio sulla via di casa, ogni sera per due settimane, cercando un contatto visivo con il ragazzo del turno di notte nella speranza di riuscire a dormire se il Sognatore fosse rimasto sveglio. Ma quando mi addormentai, non fu un sonno vero. Guardare i sogni era come stare svegli tutta la notte e vedere film coinvolgenti; se dormivo mentre il mio Sognatore era sveglio mi sembrava invece di assistere a uno spettacolo immobile e muto. Era rilassante fino a un certo punto, il mio cervello però non dormiva davvero. Era solo una sensazione di vuoto.

    Notti come quelle mi aiutavano a concentrarmi meglio durante il giorno, ma nemmeno troppo. Perciò quando mamma iniziò a sclerare perché restavo fuori fino a tardi la sera, decisi di lasciar perdere. Il niente, notte dopo notte, era diventato noioso, era come stare seduti nella mia stanza ovattata. L’ironia mi fece sorridere, perché era proprio quello che cercavo disperatamente di evitare.

    Le provai tutte. Cercai persino di non incrociare lo sguardo con nessuno durante il giorno, e non è facile come sembra. Ma anche così, assistevo comunque al sogno dell’ultima persona che avevo incontrato il giorno precedente.

    Mentre spostavo lo zaino verso la parete con il piede, notai che la tasca principale era aperta a metà e che da lì sbucava l’angolo di un libro. Lo sollevai e chiusi la cerniera, poi diedi un’occhiata alla stanza. Sembrava… diversa. Un paio di cose erano state spostate, anche se non potevo giurarci. Sospirai. Era entrata di nuovo, forse mentre facevo la doccia. La determinazione non manca, in famiglia.

    Tornai in cucina. «Hai trovato della droga stavolta?».

    Mamma non alzò la testa dal cellulare, ma la vidi chiudere gli occhi per un attimo prima di parlare. Si sforzò così tanto di restare calma che le tremò la voce. «No».

    «Questo non ti impedirà di intrufolarti di nuovo, giusto?». Mi sedetti al tavolo e la fissai. Avevo già troppi problemi, perché doveva peggiorare la situazione?

    Si girò e si appoggiò al bancone incrociando le braccia. «Cosa dovrei pensare? Non mi parli, perdi peso e… hai un aspetto terribile, tesoro».

    «Ottimo modo per aumentare la mia autostima, mamma». Mi strofinai la mano sull’occhio e guardai fuori dalla finestra.

    «Hai una spiegazione migliore?». Attese un attimo prima di continuare. «Perché credimi, non voglio trovare droga, ma non so cos’altro pensare».

    «Te l’ho già detto», dissi scuotendo la testa. «Non dormo bene».

    Abbassò il mento e alzò le sopracciglia. «Parker, tu dormi un sacco».

    Un’ondata di rabbia mi travolse. Perché continuava a ripeterlo? E comunque non mi credeva mai. Mi alzai e mi voltai. «Be’, allora sarà colpa della droga».

    «Aspetta, per favore». Mi afferrò per il gomito prima che potessi uscire dalla cucina, e non mi parlò finché non mi girai. «Allora, se si tratta di insonnia, andremo da un dottore. Oggi. Il dottor Brown riceve anche il fine settimana. Preparati subito».

    «Oggi?». Mi accigliai. «Ma hai degli appuntamenti».

    «Li sposterò. Non preoccuparti. Questo è più importante».

    Mi sentii raggelare. Speravo di evitare i dottori, perché temevo che i miei sospetti sarebbero stati confermati o, peggio, che mi avrebbero preso per pazzo e sbattuto in un manicomio, ma dovevo essere onesto. Da Internet avevo già raccolto tutte le informazioni possibili, e le risposte che avevo ottenuto non mi piacevano. Era arrivato il momento. Dovevo solo essere furbo. Non gli avrei raccontato tutta la verità, piuttosto avrei trovato un modo per farmi dare le risposte di cui avevo bisogno.

    «Okay, mamma, se pensi che possa essere utile, ci sto».

    Capitolo due

    Il dottor Brown era il nostro medico di famiglia da quando avevo memoria. Dopo un’attesa di qualche minuto nella saletta all’ingresso, la sua assistente ci guidò verso la stanza delle analisi, con pareti color giallo mostarda e fotografie di pesci appese ovunque. Ora che eravamo lì, non riuscivo a stare fermo. Mi misi seduto, tamburellando con le dita sulle cosce, poi mi alzai, guardai le foto e mi sedetti di nuovo.

    La porta si aprì e il dottor Brown entrò. Era sempre stato magrissimo e serio, e quando entrava in una stanza riusciva subito a stabilire la propria autorità. Sorrise a mia madre e mi diede una stretta di mano prima di accomodarsi su uno sgabello con le rotelle.

    «Bene, Parker, è da un po’ che non ti vedo». Si piegò sulla mia cartella clinica e tutto quello che riuscii a vedere furono i corti capelli castani in cima alla sua testa. «Con i teenager, di solito è un buon segno. Cosa ti porta qui, oggi?».

    Incrociai le braccia. «Ho dei problemi a dormire».

    «Non è tutto», intervenne la mamma. Perché non era rimasta in sala d’attesa? «Negli ultimi tempi è dimagrito».

    Il dottore mi squadrò e poi tornò alla mia cartella. «Gli adolescenti oscillano parecchio. Giochi ancora a calcio?».

    Annuii.

    «Posso darti delle pillole che aiuteranno il tuo corpo a tornare a un ritmo naturale, ma non voglio che tu le prenda troppo a lungo. E devi assicurarti di mangiare abbastanza, per stare al passo con gli allenamenti». Diede uno sguardo all’orologio.

    «Okay», risposi, cercando di non far trasparire la mia frustrazione. Ovviamente avevo già provato a prendere sonniferi. Roba per cui non serviva una ricetta medica, e comunque anche con questi mi sentivo ancora più stanco. A malapena riuscivo a camminare dritto il giorno dopo perché mi stordivano. Così non saremmo arrivati da nessuna parte, e con la mamma presente non avrei potuto chiedergli niente. Che perdita di tempo.

    Il dottor Brown mi rivolse un’occhiata intensa e poi si rivolse a mia madre. «Potrebbe compilare il nuovo modulo dell’assicurazione mentre faccio due chiacchiere con Parker? Giusto per assicurarmi che non ci sia nient’altro, se siete d’accordo».

    Mamma mi guardò e io la tranquillizzai. «Non preoccuparti, mamma, vai pure».

    Si alzò e seguì il dottore all’ingresso. Cercai di concentrarmi: avevamo solo pochi minuti da soli. Di certo aveva le sue buone ragioni per liberarsi della mamma, e comunque dovevo essere io a dirigere la conversazione.

    Quando tornò nell’ufficio, il dottore mi allungò un opuscolo: Le droghe e gli adolescenti. Emisi un sospiro e scossi la testa.

    «Non ti sto accusando di nulla, è che dopo tanti anni di professione medica impari a leggere i segni». Quell’uomo aveva occhi gentili. Sembravano comprensivi, compassionevoli… ma ciò non cambiava il fatto che fosse sulla strada sbagliata, come tutti gli altri. «Sai che qualunque droga assumi può influenzare anche il ritmo del sonno?».

    Lo guardai negli occhi. «D’accordo, diciamo che prendo droghe che non mi lasciano dormire».

    Le sue folte sopracciglia si alzarono. Chiaramente la mia risposta lo sorprese. «Di che droga si tratta?»

    «Io non ho ammesso niente, e comunque non ha importanza». Mi chinai in avanti appoggiando i gomiti sulle ginocchia. «Quello che ho bisogno di sapere è cosa succede al cervello di un uomo quando non dorme».

    Il dottore scosse la testa. «Quando proprio non chiude occhio?»

    «Già».

    «Be’, innanzitutto diventerebbe stanco, irritabile, emotivo». Fece spallucce, in attesa di una mia reazione. «Poi subentrerebbero i tremori, e il cervello inizierebbe a perdere il controllo del corpo. Alla fine collasserebbe con un esaurimento e va da sé che il problema si risolverebbe da solo».

    Non importava quanto fossi stanco, io non ero mai collassato e il mio cervello non dormiva. Non ero normale. «Supponiamo che non ci sia nessun collasso, e che il corpo per qualche ragione resista a lungo alla fatica. Cosa succede dopo?».

    A questo punto si fece serio. «Ciò non sarebbe possibile senza interferenze esterne, e senza un forte stimolo».

    «Okay». Non mi ero reso conto di essermi alzato, ma i suoi occhi ora erano spalancati. «Quindi che succede dopo?»

    «Non capisco. Perché queste domande?». Allontanò leggermente il suo sgabello.

    Feci un passo verso di lui e tenni la voce bassa. Volevo a tutti i costi una risposta. «Cosa può succedere, dottore?».

    Si alzò in piedi, ma lo superavo ancora di qualche centimetro. «La persona in questione diventerebbe uno psicopatico, andrebbe incontro a una serie di pericolosi sintomi psicologici, e poi… insomma… morirebbe».

    Mi sentii come se mi avesse appena dato un pugno nello stomaco. La stanza girava e mi lasciai cadere di nuovo sulla sedia. Fissai gli occhi sul tappeto davanti a me. Le mie ricerche… avevano ragione. Io avevo ragione, e non volevo averla.

    Il dottor Brown si sedette sullo sgabello e si spinse più vicino. «Perché queste domande, Parker? Non mi stai dicendo che tu…».

    «No», lo interruppi, calmandolo con un sorriso forzato. «È per un progetto di scienze a cui sto lavorando».

    «Oh».

    Mi fissava in silenzio. Ora avevo la sua piena attenzione, però non mi serviva più. Ero andato lì per ottenere una risposta, e lui me l’aveva data, ora non mi restava che andarmene senza che mi creasse problemi.

    Sentii bussare e mamma si affacciò dalla porta. «Avete finito?».

    Anuii e mi alzai. Poi mi accorsi che avevo ancora l’opuscolo in mano e me lo infilai in fretta in tasca, non prima che mia madre riuscisse a notarlo. Fantastico. «Penso che i sonniferi mi aiuteranno».

    Le spalle di lei si abbassarono in modo impercettibile e guardò il dottor Brown con aria inquisitoria. «Lo pensa anche lei?»

    «È un buon punto di partenza». Assunse un’espressione preoccupata, poi continuò. «Vorrei controllare comunque i suoi valori… per essere sicuro».

    Dopo dieci minuti in cui io non feci che dire «Ah», e lui mi controllò riflessi e dilatazione della pupilla, mi ascoltò il respiro e il battito, il dottor Brown mi allungò una ricetta per un sonnifero e il nome di uno strizzacervelli. La sua fronte si aggrottò e mi sembrò che volesse dire qualcosa, invece mi strinse la mano.

    «Abbi cura di te, Parker. Sono qui, se hai bisogno di qualcosa».

    Io

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1