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La Sindrome di Stoccolma
La Sindrome di Stoccolma
La Sindrome di Stoccolma
E-book335 pagine5 ore

La Sindrome di Stoccolma

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Info su questo ebook

Sara, vittima di un sequestro, è riluttante a coinvolgere nelle indagini uno dei suoi rapitori; l'unico ad averle riservato un trattamento umano. Il suo atteggiamento fa nascere il sospetto che sia vittima della Sindrome di Stoccolma, un particolare stato di dipendenza psicologica nei confronti dei propri carnefici. In questi casi, nonostante i possibili maltrattamenti, le vittime provano nei loro confronti un sentimento positivo e solidale. Ad avvalorare il sospetto che Sara sia vittima della Sindrome di Stoccolma, contribuisce il fatto che sembra aver cambiato personalità rispetto a ciò che era prima della traumatica esperienza. Sembra che il timore di una conclusione tragica della propria vita, abbia spinto Sara a riflettere.

Una serie di indagini private volte a identificare i carcerieri prima che vi giungano i carabinieri, si propone di applicare una giustizia mirata e 'fai da te'. Sara scopre però che non è per nulla facile controllare le proprie emozioni dinanzi ai suoi carcerieri, presunti o reali che siano, e indipendentemente dal comportamento che essi avevano adottato nei suoi riguardi. Infatti, l'identificazione stessa del carceriere che si era dimostrato benigno con lei, sarà carico di emozioni di ogni genere e Sara resterà a lungo in bilico tra le varie possibili azioni da intraprendere nei suoi confronti.

Un momentaneo stato di amnesia della protagonista, conseguenza di un trauma subito durante la prigionia, lascia spazio alla descrizione della concezione agostiniana della memoria.
LinguaItaliano
Data di uscita24 mag 2017
ISBN9788892663572
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    Anteprima del libro

    La Sindrome di Stoccolma - Michela Pugliese

    Indice

    BIOGRAFIA

    PREFAZIONE

    La Sindrome di Stoccolma

    Michela Pugliese

    LA SINDROME DI STOCCOLMA

    Innamorarsi del proprio carnefice

    Io sono una parte di tutto quello che ho incontrato

    Anonimo

    BIOGRAFIA

    Michela Pugliese nasce a Vibo Valentia il 18 gennaio 1963 ma vive e lavora a Milano. Nel 2011 scrive il suo primo saggio dal titolo Dio creò l’uomo.

    Nel 2015 pubblica il saggio Pedine di un gioco contraffatto, nel quale analizza i successi e i fallimenti del partito fascista, ma soprattutto descrive le cause della sua ascesa al potere. Segue Messer Cicco milanese eccellentissimo, un saggio storico sul personaggio Cicco Simonetta, il calabrese che fu segretario di Francesco Sforza, condannato alla decapitazione dall’usurpatore Ludovico il Moro.

    Lo stesso anno è la volta del suo primo romanzo, La Sindrome di Stoccolma, che ha come tema quel particolare stato di dipendenza psicologica che s’instaura nei confronti dei propri carnefici. Il tema lascia spazio alla descrizione agostiniana della memoria e al dibattito filosofico sull’identità personale.

    L’anno successivo pubblica due romanzi a sfondo storico: Dea di Seduzione e Benvenuta a Milano. Dea di seduzione ruota intorno a Bastet, antica dea egizia dalla testa di gatta simbolo di seduzione. La protagonista, vittima di un narcisista che dopo aver sedotto si annoia, tradisce e mette a distanza, impara a interpretare e utilizzare le varie sfaccettature della seduzione per instaurare una relazione soddisfacente.

    Benvenuta a Milano, un intreccio di voyeurismo, amore, antichi castelli e vie d’acqua, consiste in un intreccio tra passato e presente. Un misterioso intrigo unisce la protagonista, gli antichi signori di Milano, il Castello di Cusago e il duplice delitto-suicidio commesso dal marchese Casati Stampa di Soncino che spingeva la bella moglie ad avere rapporti sessuali con sconosciuti sotto il suo sguardo voyeuristico.

    PREFAZIONE

    La protagonista, vittima di un sequestro, è riluttante a coinvolgere nelle indagini uno dei suoi rapitori; atteggiamento che fa sorgere il sospetto che sia vittima della Sindrome di Stoccolma; un particolare stato di dipendenza psicologica nei confronti dei propri carnefici. Ad avvalorare tale sospetto, contribuisce il fatto che sembra aver cambiato personalità rispetto a ciò che era prima della traumatica esperienza.

    Una serie d’indagini private volte a identificare i carcerieri prima che vi giungano i carabinieri, si propone di applicare una giustizia mirata e ‘fai da te’. La protagonista scopre però che non è per nulla facile controllare le proprie emozioni dinanzi ai suoi carcerieri, presunti o reali che siano.

    Durante lo svolgimento del racconto, si assiste a un’evoluzione psicologica dei personaggi che li spinge ad accettare situazioni altrimenti inaccettabili. Un momentaneo stato di amnesia della protagonista, conseguenza di un trauma subito durante la prigionia, lascia spazio alla descrizione agostiniana della memoria e al dibattito filosofico in merito all’identità personale.

    Io sono una parte di tutto quello che ho incontrato, lessi un giorno sulla pagina apertasi a caso di un libro caduto fatalmente da un ripiano. Ne feci oggetto di meditazione, ma non ne afferrai il pieno significato finché non compresi quanto fossero sterminati i campi della mia memoria.

    In principio sembrava solo un brutto sogno, poi divenne un incubo. Infine l’incubo divenne il mio sogno. Ciò che è stato ha contribuito a rendermi ciò che sono: ora è conservato in qualche angolo della memoria, e a volte ancora si presenta; ma solo su mia richiesta. Non irrompe mai di prepotenza; avanza con passo misurato: penso, mi spavento, mi rassereno; infine ripongo tutto nello scrigno della mia memoria, dove ogni cosa si conserva, finché nuovamente l’animo non la richiama.

    Tutto ebbe inizio come uno spettacolo non preparato: il sipario si sollevò d’improvviso, e braccia impietose mi spinsero sul palcoscenico, senza sapere chi mi avesse ingaggiata, né per quale commedia né parte, né da quale copione dovessi attingere per la mia recita.

    Lo scenario, in verità scarno, sarebbe potuto essere il preludio di ogni cosa: il silenzio era assoluto, il cielo stellato, l’alba sbiancava una parte dell’orizzonte. Ero distesa su una superficie rigida e fredda e l’aria tutt’intorno era pervasa da un’umidità che penetrava in profondità, invadendo le ossa fino a scuoterle. Com’ero giunta in quel luogo? Non ricordavo! Non ricordavo né quello, né altro! Il silenzio si ruppe: ora si udiva il ticchettio insistente dei mie denti.

    Attesi che si diradassero le ombre di quello che pareva un orribile sogno; invece si moltiplicarono come in un gioco di rifrazioni e rimbalzi infiniti, su una serie di specchi colpiti da ogni angolazione. Mi sollevai. No, dovetti di nuovo chinarmi a terra. La testa non voleva saperne di condurmi altrove. Mi rimisi supina; e così restai, non so per quanto tempo ancora.

    A scuotermi fu un delicato fruscio che mi fece ipotizzare la presenza di qualcuno che si avvicinava di soppiatto. Ormai la luce del sole penetrava attraverso le palpebre che tenevo ostinatamente serrate, come per stabilire un limite invalicabile a chissà quale tremenda visione.

    Attesi col fiato sospeso, finché non udii un nuovo fruscio, poi un battito d’ali. Infine due uccellini intonarono un duetto proprio accanto a me. Aprii gli occhi, e vidi uno dei due passerotti che con i minuti artigli serrava la fronda di un piccolo arbusto che si stagliava sopra di me contro il cielo sereno. Da lì, un po’ cinguettava, e un po’ mi osservava curioso. Poi, con un atto che mi parve di consapevole provocazione, lasciò cadere una pallottola che si spiccicò sul mio petto: fu premonizione. Sollevai la mano e scacciai stizzita quel piccolo pennuto che spiccò il volo, facendo vibrare il tenero ramoscello. Compì un breve giro d’ispezione, poi tornò ad ancorarsi a quella medesima fronda, e ancora una volta, chinò il beccuccio indiscreto.

    Ignorai quel piccolo caparbio ed estesi lo sguardo tutt’intorno: ero distesa su uno di quegli stretti lembi di terra che delimitano le risaie allagate a primavera, conferendogli l’aspetto di piccoli laghetti. Mi drizzai in piedi e vidi l’azzurro espandersi in ogni direzione: il cielo terso si specchiava in sterminati campi allagati che si stendevano a perdita d’occhio. Era impossibile comprendere dove finisse l’acqua e dove iniziasse il cielo. Era l’acqua, in se stessa priva di ogni carattere, a dare consistenza a quella sublime visione.

    Mi avvicinai alla sponda per bagnare la mano e ripulire il petto, ma riversai nell’acqua l’intero contenuto del mio stomaco, insozzando quel piccolo angolo di paradiso. Mi sollevai facendo attenzione a non seguire io pure parte di quella cena di cui avevo perso ogni ricordo, e posai lo sguardo oltre la macchia sul petto. La camicetta era sprovvista di alcuni bottoni. Poi chinai lo sguardo sui piedi malfermi. Ecco già mi pareva: erano nudi! Dov’erano finite le mie scarpe? E i miei bottoni?

    Indagai con lo sguardo il vicino lembo di terra in cerca delle mie calzature. Nulla. Indagai uno spazio più ampio. Nulla di nulla. Avevo perduto bottoni, scarpe, borsa, ricordi! Non proprio una cosa da poco… Ma sì, in fondo ero viva!

    Viva? E per fare cosa? Da dove venivo, dove mi trovavo, dove dovevo andare? Cercavo affannosamente delle risposte; ma nella mia mente si affollavano solo domande. Scrutai i dintorni alla ricerca di qualcosa che mi fosse familiare, e notai un paio di cascine in lontananza. M’incamminai verso quella che pareva più vicina, pensando a quanto fosse stolto passeggiare a piedi nudi tra le umide risaie della Pianura Padana.

    All’improvviso colsi la scintilla che mi aveva attraversato la mente. Come sapevo di essere proprio in quel luogo se non ricordavo come, quando e perché vi fossi giunta? Poi rammentai che il mese corrente era aprile; ma perché proprio quel particolare mese? Forse perché aprile corrisponde al tempo in cui i campi devono essere allagati, prima che su di essi si possano spargere i piccoli semi bianchi delle graminacee destinate a emergere dall’acqua? Ma da quale angolo del mio cervello erano spuntate quelle informazioni, se non ricordavo null’altro?

    Mentre mi ponevo tali domande, come per magia, alcune parole iniziarono a presentarsi come una poesia impressa nella mia mente: Nelle tante caverne della mia memoria giacciono innumerevoli cose d’ogni genere che la memoria conserva anche quando l’animo non le sente. Mi sforzai di ricordare dove le avessi apprese, e altre simili ne seguirono. La mia mente mi stava forse rassicurando che benché non ricordassi, da qualche parte teneva pure ben custodite tutte le informazioni? E che ne sarebbe stato di me se non avessi più saputo condurle fuori dai loro segreti nascondigli? Senza ricordi, non ero nessuno! Al contrario, qualora me ne fosse tornato il ricordo, sarei potuta essere chiunque!

    Facendo tali riflessioni, giunsi nei pressi della cascina creando grande scompiglio. Un gallo, che perlustrava i dintorni appollaiato su uno steccato, balzò a terra e corse via, appoggiando a ritmo alternato le sue due smilze zampette e trascinandosi appresso una schiera di sottomesse gallinelle starnazzanti. Un puledro scosse la testa nitrendo e un cagnolino m’intimò l’arresto abbaiando. No, nessuno di essi riconosceva in me la propria padrona.

    Neppure gli elementi sparsi disordinatamente per l’aia avevano nulla di familiare, ma ne ero certa; era quella la mia dimora: tra gli animali da cortile che razzolavano liberamente e i cavalli che attendevano impazienti la propria biada. Perché nessuno si era accorto della mia assenza durante la notte? Se mi avessero cercata, mi avrebbero trovata: quasi non c’era vegetazione sui lembi che delimitavano i tratti allagati.

    Mi addentrai nel cortile preceduta dal cagnolino che aveva abbandonato il proposito di fermarmi e, anzi, si era deciso a scortarmi. Così, sgambettando e scodinzolando, mi anticipava voltandosi di tanto in tanto, per verificare se dovesse adattare il suo andamento. Un uomo magro, con capelli chiari e radi, mi venne incontro richiamato dallo scompiglio che avevo provocato tra i suoi animali: non sembrava attendere qualcuno. Tantomeno me. Aveva i pantaloni infilati negli stivali infangati, le maniche rimboccate, un tridente in mano.

    - Mi scusi… - sussurrai con un filo di voce.

    Poi dovetti fermarmi a riprendere fiato. L’uomo col tridente si scisse in due, in quattro, in otto… In pochi istanti mi ritrovai dinanzi un intero schieramento di fantasmi che osservava contrariato i miei piedi nudi. Infine mi parve che tutti, come diavoli spuntati dall’inferno, puntassero il proprio tridente per punzecchiarmi. Poi il mondo al di fuori della mia testa iniziò a roteare con tutti i suoi fantasmi, mentre al suo interno ogni cosa si spense.

    Quando ripresi conoscenza, ero distesa supina. Portai una mano oltre il capo e percepii il freddo metallo di tante aste schierate ordinatamente. Avevo la lingua incollata al palato e la gola ostacolata da chissà quale sbarramento.

    - Tornate all’inferno! - urlai nella mia mente a quell’ipotetica schiera di tridenti allineati.

    Poi odorai l’aria intrisa dall’odore di farmaci e volsi lo sguardo verso la barriera metallica. No, non era un’infernale barricata; era la testata di un letto. In preda a un inspiegabile tremore, scossi le braccia per accertarmi che non fossero immobilizzate da qualche legame. Poi mi guardai intorno. Ero distesa sul letto di un pronto soccorso: perché mai qualcuno avrebbe dovuto immobilizzarmi con dei legami? Guardai di nuovo. Sì, avevo inteso correttamente quel che avevo inteso.

    - Come si sente? - chiese un’eterea figura in camice bianco.

    Ero felice di trovarmi tra angeliche figure anziché tra diavoli dell’inferno.

    - Cosa le è accaduto? - chiese ancora l’eterea figura che avanzava incarnandosi in un giovane medico.

    Deglutii, e la lingua si staccò dal palato:

    - Non so, mi sono svegliata tra i campi allagati... - risposi con voce che andava scemando.

    Il medico non sembrava stupito da una risposta tanto vaga. Forse fu più sorpreso dal fatto che gliene avessi fornito una.

    - Come si chiama?

    Rimasi allibita. Non mi ero ancora accorta di non ricordare il mio nome. Perché ricordavo alcune cose e altre no? Perché sapevo cosa fosse una risaia, una cascina, un cane, un pronto soccorso; ma non sapevo cosa mi fosse accaduto né quale fosse il mio nome? Il medico rimase a scrutarmi alcuni istanti in silenzio: forse si poneva le mie stesse domande.

    - Non fa nulla, non si preoccupi: capita nei casi di trauma come il suo. Potrebbe anche manifestare difficoltà nel controllare le emozioni, nel muoversi, nel parlare, nel vedere e nell’udire. E a qualcuno capita anche di non riuscire a pensare in maniera sistematica. Per quanto riguarda il mal di testa e la nausea, sono certo che li abbia già sperimentati.

    Un trauma, pensai sconcertata, perché mai dovrei aver subito un trauma?.

    - Ha una ferita sulla parte posteriore del capo - aggiunse il medico come se stesse leggendo i miei pensieri.

    Portai la mano sulla nuca e percepii il ruvido rigonfiamento delle garze:

    - Dio mio! - esclamai confusa: - non mi ci raccapezzo…

    - Suppongo che sia inutile chiederle come se l’è procurata.

    Attese qualche istante una risposta che non arrivava, poi proseguì:

    - Avremmo voluto avvisare i suoi familiari che si trova qui, ma è priva di documenti d’identificazione.

    Che importanza poteva mai avere l’assenza di documenti in un momento simile? Anche dimostrando di possedere un nome, una casa, una famiglia… avrei forse potuto sostenere di essere qualcuno? Era l’assenza di memoria a privarmi dell’identità e della famiglia, non i documenti!

    Mi sollevai sui cuscini e pressai scuotendo la testa fra le mani:

    - Non è possibile! Non può essere vero… - mormorai confusa.

    Poi sollevai gli occhi verso il medico che mi guardava pensieroso:

    - Dica dottore… sono pazza?

    - Ma che va pensando! Non volevo dir questo!

    - Se il non saper chi io sia, non è pazzia; cos’altro può essere?

    - Gliel’ho detto: ha subito un trauma!

    - Ma… il problema è qui dentro! - dissi percuotendo la testa.

    - Capisco il suo disagio; ma un trauma non equivale a divenire pazzi. La differenza è che un pazzo rivela di non sapersi adattare alla società, e neppure se ne accorge; lei, invece, non rammenta che posto occupa in essa.

    - E dice niente! Dio che assurdità!... E ora? Cosa devo fare ora io?

    - L’aiuteremo noi! Siamo qui per questo, no?

    - Aiutarmi? E come? - eruppi gesticolando agitata: - può lei pompare nella mia testa un’intera vita vissuta e dimenticata come si pompa acqua in una piscina?

    Poi, premendo nuovamente le mani contro la testa:

    - Non è possibile… non è possibile!

    - Tranquilla! Deve stare tranquilla…

    - Tranquilla? Non è mica facile, sa! Come pensa che io possa stare tranquilla…

    - Ora che le si è sciolta la lingua, vedo che riesce a stento a trattenerla! - disse con un sorriso che voleva essere di conforto.

    Abbandonai la testa e congiunsi le mani. Poi le appoggiai sulle labbra, come se stessi recitando una fervida preghiera:

    - Ma lei capisce che io non capisco… Che non so quel che dovrei sapere… Che non so nulla di nulla!

    Il medico strinse le mie mani congiunte con una delle sue:

    - Vedrà… tutto tornerà a posto da sé.

    - Quando! Voglio sapere quando!

    - Quando sarà il momento.

    Lasciò libere le mie mani e aggiunse:

    - Nel suo caso, però, ci sono altre cose da chiarire. In tali circostanze, siamo costretti a fare rapporto ai carabinieri; lei capisce...

    Aggiunse qualche altra cosa ancora, ma non prestai attenzione a ciò che seguì. In quel momento rammentai la scintilla che aveva attraversato repentina la mia mente tra i campi allagati, e mentre già stava per uscire dalla stanza, domandai:

    - Mi dica… siamo per caso in Pianura Padana?

    Alla mia domanda sembrò dimenticarsi dell’uscio:

    - Sì, si trova presso l’ospedale di Novara. E’ stata prelevata da un’ambulanza in una cascina sperduta nella zona limitrofe.

    Attese per verificare se le informazioni fornite avessero prodotto un qualche effetto, poi aggiunse:

    - E’ possibile che la sua famiglia si trovi qui in città: lei non ha l’aria di una mondina.

    Guardai le mie mani. Aveva ragione, non erano mani da contadina. Come avevo potuto supporre di appartenere al mondo della cascina?

    Nel tardo pomeriggio ricevetti la visita di un uomo di mezza età. Indossava una giacca di velluto marrone a coste, con spalle cascanti e rinforzi sui gomiti. Dalla giacca sbottonata emergeva una camicia a quadretti priva di cravatta. I suoi abiti non erano all’ultima moda né freschi di tintoria. Nel vederlo supposi che fosse mio padre o un familiare in grado di aiutarmi a districare la matassa aggrovigliata dei miei pensieri.

    - Salve, sono Bonfanti: maresciallo dei carabinieri, - disse avvicinandosi al mio letto.

    Non provai solo delusione. Al solo udire la parola ‘carabinieri’, i miei pensieri si aggrovigliarono ulteriormente, accompagnati da un aggrottarsi della fronte e un istintivo sollevarsi verso la testata del letto, come se volessi allontanarmi da un pericolo. Lui estrasse una mano dalla tasca deformata e la sollevò a mezz’aria, esclamando:

    - Non si allarmi!

    Non si allarmi consigliava lui! Ma era colpa mia se al suo presentarsi fui assalita dal dubbio di essere complice di qualche malvivente? Il suo gesto, poi, più che bonario, fu interpretato da me come l’alzata di una paletta sul ciglio della strada, per intimare l’arresto a qualche trasgressore della legge! Eppure, non avevo supposto nulla del genere prima della sua comparsa; proprio come non avevo supposto di aver subito un trauma prima che il medico lo evidenziasse!

    - Lo so che quando la gente ci vede si sente colpevole anche senza motivo, - disse riponendo nuovamente la mano in quella sua tasca imbruttita: - ma la mia è solo una visita di cortesia. Come vede, non indosso neppure la divisa

    - Io non mi sento colpevole di nulla, - dissi mentendo: - so di non essere una delinquente.

    - Se ha perso la memoria, come fa a saperlo? - rispose con aria scrutatrice.

    Fece una breve riflessione, poi aggiunse:

    - Ma sì! Su questo le do ragione: chi viene colpito alla nuca, in genere è vittima, non autore di un reato.

    - Come, come? Perché pensa che io sia vittima di un reato?

    - Appunto per la sua ferita alla nuca!

    - Perché? Non è possibile che me la sia procurata cadendo?

    - Uhm… questo, veramente, dovrebbe dirmelo lei; ma considerato il fatto che ha perso la memoria… Perché l’ha persa, giusto? - chiese con aria dubbiosa.

    - Che fa, dubita?

    - No, no… e’ che…

    - Contrariamente a quanto sta facendo lei, - interruppi - il personale ospedaliero non l’ha affatto messo in dubbio!

    - Suvvia, le ripeto che non le sto dando dell’imbrogliona; tanto meno della delinquente!

    - Ma sì, è lo stesso! - dissi irritata: - coltiva il sospetto che io conosca fatti incomodi e intendo schermarmi dietro una menzognera perdita di memoria! Ma che è venuto a fare, si può sapere? Vorrei vedere che mi facesse incriminare perché non ricordo nulla!

    - Oh bella! E’ questo che pensa? Che sia venuto a farle visita per accertarmi di persona se è riuscita a ingannare il personale medico?

    - Mi scusi… - dissi ritornando in me: - non volevo aggredirla; ma sono stanca, scossa e dolorante. Il fatto che lei si sia presentato aggiungendo l’inquietudine di farmi sospettare di essere una delinquente, mi è parso fuor di misura.

    - Deve ammettere, però, che qualche cosa di strano è realmente accaduto, - insisteva lui; - ma ne riparleremo quando si sarà un po’ ristabilita. Intanto, se le viene in mente qualcosa, mi chiami.

    Frugò in un taschino interno ed estrasse una penna e un biglietto, al quale fece compiere uno sfarfallio:

    - Tranquilla, non è l’occorrente per farle una multa! - disse accennando un sorriso tra l’ironico e il rassicurante.

    Diamine, lo vedevo bene che era solo un biglietto da visita! Il suo mi parve un tentativo maldestro di sdrammatizzare e non lo apprezzai.

    - Può rintracciarmi in qualsiasi momento! - disse porgendomi il biglietto dopo avervi scritto a penna il secondo numero.

    Poi ripose la penna nel taschino interno e si avviò verso la porta; ma, prima di varcare la soglia, si girò verso di me e, puntandomi contro il dito indice, disse:

    - Oh! a proposito… Su quel ricordino che si porta impacchettato dietro la nuca, è necessario fare chiarezza!

    Questa volta non accompagnò la frase con alcun sorriso. Forse volle vendicarsi del fatto che ero rimasta impassibile dinanzi a quel suo maldestro sdrammatizzare; così, più che una semplice affermazione, il suo gesto mi parve un’espressione di minaccia.

    La visita del maresciallo dovette farmi sentire colpevole di qualcosa che neppure ricordavo di aver commesso molto più di quanto pensassi. Quella notte, infatti, sognai di essere tenuta prigioniera in una cella oscura con le braccia legate a qualcosa sopra la testa. Il sogno era talmente angoscioso, che al mattino mi svegliai con un gran formicolio alle braccia. Ce ne volle di tempo per rendermi conto che mi trovavo in un letto d’ospedale e non sulla brandina di qualche prigione! Strano. Era la seconda volta che, in una maniera o nell’altra, avevo temuto di essere immobilizzata.

    Quando il giovane medico fece la sua prima comparsa, lo aggiornai sui fatti della sera precedente. Sorvolai però in merito alla natura del mio sogno: non volevo certo spargere il sospetto che fossi una possibile delinquente!

    - Lo sa? Sono certa di non essere originaria di questa zona!

    - Oh! Bene, bene! Le sta dunque tornando la memoria!

    - No. E’ che ieri, all’ora di cena, ho scoperto di provare avversione per la cucina novarese.

    - Ah sì? E cosa hanno servito da provocare tanto disgusto?

    - Risotto, riso in brodo, riso al burro, semolino di riso… riso e solo riso… Guardando quei piccoli chicchi bianchi, ho pensato che avessero la stessa forma dei parassiti che se ne nutrono. Dal formaggio, invece, si sprigionava un odore orrendo. Se io fossi originaria di Novara, apprezzerei le specialità della zona come tutti gli altri; invece ho preferito saltare la cena.

    Il medico non comprendeva se parlassi seriamente. Aveva appena aperto la cartella dei referti, ma subito la richiuse: si udì lo sbuffo dell’aria spinta fuori dai fogli che si comprimevano. Poi si avvicinò per pormi la mano sulla fronte e verificare se una forte febbre mi stesse facendo delirare. Solo allora rispose:

    - Bah! Direi che come indizio per rifiutare le proprie origini, è un po’ pochino, non crede?

    Riaprì la cartella e terminò di leggere i referti; poi s’impegnò nel dimostrare che lui, delle proprie origini, era orgoglioso:

    - Mi creda, molte specialità novaresi sono dei veri capolavori! C’è persino un formaggio che deve la propria origine a una dimenticanza: meno grave della sua, s’intende!

    Poi andò ad armeggiare con delle fialette riposte su un tavolino e, parlando di gastronomia ma atteggiandosi alla maniera in cui era avvezzo diagnosticare le malattie, spiegò:

    - Tutto ebbe inizio per colpa di un casaro che mise in disparte una cagliata, ossia della caseina coagulata. Quando se ne ricordò, la cagliata era stata aggredita dalle muffe. Cercò di rimediare aggiungendo caseina, ma il sentore di muffa persisteva. Tuttavia assaggiò e…

    Abbandonò le fialette, si volse verso di me col braccio alzato, fece schioccare le dita:

    - … Voilà! Nacque il Gorgonzola! Il luogo esatto in cui si verificò l’incidente non è certo: sta di fatto che Piemonte Lombardia disputano da secoli per attribuirsene la paternità.

    - Insomma, non tutte le dimenticanze sono negative.

    - Già. Nella mente, a volte servono quale mezzo di protezione. Se non c’è un danneggiamento vero e proprio della materia cerebrale, può capitare che si perda la memoria quando la mente non è pronta a sopportare notizie troppo sconvolgenti.

    - Ah, ma non è il mio caso! - esclamai. - Io non…

    Mi fermai e lo guardai sconcertata: non mi avevano comunicato alcun danno alla materia cerebrale; possibile che la mia mente stesse custodendo eventi troppo sconvolgenti?

    - Ma… mi pareva di aver capito…

    - Non mi fraintenda! - interruppe: - non voglio dire che il suo sia un trauma psicologico piuttosto che fisico, o che non possa essere attribuito a entrambe le cose. Le sto semplicemente illustrando come funziona la mente…

    - Entrambe le cose…? Come? Perché?

    - Si tranquillizzi! Stiamo indagando…

    Non volevo né parlare né pensare alla possibilità che mi fosse capitato qualcosa di sconvolgente. Se ne accorse e rimediò:

    - Se non è di Novara, - disse con aria meno seria: - spero che non sia neppure della Sardegna. In quella regione, più che la muffa, nel formaggio apprezzano i vermi.

    - Sul serio? Che Schifo!

    - Eh, sì! Si tratta del ‘Casu Marzu’, nella cui pasta vengono fatte riprodurre larve di mosca!

    - Spero che prima di mangiarlo, quelle almeno le tolgano!

    - Macché! Con tanto di vermi deve essere gustato: senza di loro, non sarebbe la stessa cosa!

    Poi, dirigendosi verso l’uscio, aggiunse:

    - Se non le piace il formaggio, le farò portare le rane: sono un’altra specialità di questa zona; anni fa venivano pescate abbondantemente nelle risaie allagate.

    Detto ciò scomparve tirandosi dietro la porta.

    Il giorno successivo, quando si presentò per la consueta visita giornaliera, lo informai:

    - Lo sa che la sua lezione sulla produzione del formaggio sardo, la scorsa notte ha scatenato in me un incubo?

    - Oh, ne sono addolorato! Non era mia intenzione…

    - Nel sogno la situazione non era ben definita, - iniziai a spiegare: - ero fuggita da una condizione di pericolo, ma qualcuno continuava a inseguirmi. Correvo attraverso campi infangati e infestati da creature viscide e nauseabonde: era buio e cercavo di evitarne il più possibile. Il solo pensiero di schiacciarle m’incuteva ribrezzo. A volte percepivo qualcosa che si dibatteva sotto i piedi e cercavo di sollevarli. Infine si aprì una voragine nel terreno e fui risucchiata. Il fango m’invase la gola e non potei più respirare.

    - Davvero terribile! - disse guardandomi come se avesse udito una trama peggiore di quella che avevo raccontato.

    - Mi sono destata boccheggiando e l’ansia è perdurata per un certo tempo. A mezzogiorno non ho potuto pranzare: avevo sempre davanti agli occhi le viscide creature del sogno.

    - I sogni… Che mistero! Ricombinano e associano cose lecite e illecite, ricordi e invenzioni. I personaggi, essendo distaccati dalla razionalità, possono fare ciò che gli pare.

    - Sembra che lei non sottovaluti il potere dei sogni.

    - Perché dovrei sottovalutarli? Durante i sogni si possono trovare soluzioni a problemi che

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