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In nomine Patris
In nomine Patris
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E-book124 pagine1 ora

In nomine Patris

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Info su questo ebook

"Dimenticarti sarebbe facile, come vedere insieme alba e tramonto". C'è sempre un mistero fitto dietro ogni amore possente, viscerale, fuori da ogni logica strutturata. Cosa spinge una nota pittrice, solita vivere nel cuore di Roma, al fianco di personaggi famosi, ad innamorarsi di un "fantasma" che la rifugge? Quale forza oscura la prende per mano sino a portarla in un paesino incastonato tra i monti, a cercare un nuovo dissesto per il suo cuore? Una storia dipinta con il carattere dei profumi, su una tela bianca che stenta a prendere forma, vittima e protagonista del misticismo nelle tinte dell'oblìo.
LinguaItaliano
Editorestefano
Data di uscita28 apr 2019
ISBN9788832592658
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    Anteprima del libro

    In nomine Patris - Roberta Hidalgo

    Roberta Hidalgo

    IN NOMINE PATRIS

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    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

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    Indice dei contenuti

    Roberta Hidalgo

    IN NOMINE PATRIS

    ED. STEFANO CRISTOFANI

    - 2019 -

    Prefazione

    Ogni storia, ogni idea di scrittura, proietta l’autore in dimensioni sconosciute. O probabilmente sopite. Roberta Hidalgo, in questo romanzo, racconta dell’importanza di una relazione di coppia, anche se dipana in maniera asincrona rispetto all’esigenza dell’individuo. E per questo arriva a sfiorare il parossismo, sino a mistificare il garbato incedere dei momenti che l’amore richiede. I luoghi ameni che fanno da cornice allo scritto, insieme alla dovizia di particolari, ci fanno respirare un contesto montano ove, come riporta l’autrice, le fasi della vita sono scandite da luce e buio, sole e pioggia, freddo e caldo, e l’incedere del tempo fisico poco influisce su quell’attività bucolica e fluttuante che sembra obbedire solo ai dettami della religione.

    Stefano Cristofani - giornalista

    Sulle montagne s’udivano i campanacci appesi ai collo di vacche, muli e capre e nel paese echeggiava a morte, la singola campana dell’unico campanile diroccato e solenne.

    Il morto adagiato su di un letto foderato di bianche lenzuola ricamate che era stato improvvisato dalle donne del paese, serrava tra le mani un rosario e quattro ceri laterali sembravano puntellare il catafalco nella piccola stanza che fungeva da cucina, ingresso e sala da pranzo con una ripida scala che portava nella camera dove era morto nel sonno.

    Un uomo di settantacinque anni aveva vissuto da sempre in quella casupola.

    Vi era nato.

    Non c’era acqua, non c’era mai stata. Non c’era il gas ed il portone vecchio quanto lui, aveva lasciato entrare tutta la tramontana dei settantacinque inverni.

    Cucinava nel camino sempre acceso durante le quattro stagioni, ed era il solo segno vita in tutto quel gelo.

    Ora dopo la morte, rimaneva ancora simbolo di vita, l’unico. Quell’uomo era mio zio.

    Io restavo attaccata al lato del camino per lasciare lo spazio al paese che visiva a rendergli l’ultimo saluto.

    Intanto, avanzava strisciando il tramonto.

    Ogni persona che entrava, dopo il segno della croce recitava il rosario. Rosari che si accavallavano e mi annullavano.

    Un paese che pregava tra il fuoco del camino ed un vecchio portone dal quale entrava il crepuscolo del freddo dicembre.

    Ero là con le mani gelate e, nello stesso momento, ero lontana: non capivo quel mormorío lamentoso.

    Guardavo i loro volti, le donne, gli uomini, vestiti pesanti e poveri, mani stanche che avevano appena accompagnato nelle stalle gli animali che avevano pascolato il giorno sulla montagna e nelle valli.

    Erano tutti accanto a lui e fra di loro io non c’ero.

    Con il buio arrivarono altri uomini.

    Lo spazio all’interno era finito e gli ultimi si sedettero sulla scala o rimasero sull’uscio ed in quel momento una voce maschile si alzò sopra il lamento e mi riportò dov’ero.

    Era un qualcuno con grandi occhi chiari, un viso segnato dal sole e dal vento con uno strano berretto che gli nascondeva i capelli ed un maglione rosso e logoro come il giaccone che teneva buttato sulle spalle.

    Restando in piedi, con voce decisa e calda, iniziò il rosario.

    Ascoltavo e lo guardavo mentre pregava. Non era più un lamento ed un poco di calore mi scese dentro.

    Pensai poteva essere un prete, ma gli abiti erano quelli di un montanaro.

    Seduto sulla scala c’era l’uomo che era entrato con lui: una sciarpa rossa ed un cappello di feltro marrone, il viso tra le mani e gli scarponi coperti di fango.

    Nel contesto sembrava un personaggio uscito da un dipinto fiammingo del Seicento.

    Mi tornarono in mente le scene dell’olandese Adrian Brouwer, dipinte con la stessa atmosfera, gli stessi colori: le pareti annerite dal fumo, il basso soffitto coni travi di castagno ormai color ruggine, dove appesa ad un filo nero pendeva una lampadina. La finestra, piccolo dado dorato incorniciato di legno s’affacciava sull’arco di pietra gelata dove rifletteva il gioco tremolo dei ceri accesi.

    Passò quasi un’ora prima che le ultime preghiere fossero consumate e che lentamente tutti uscissero con la testa china e io restassi sola con mio zio ed il fuoco del camino.

    Avevo respirato quell’ora in tutti i suoi particolari: dai diversi toni di voce, alla varietà dei colori antichi. Accostando il portone, ascoltavo il silenzio che mi avevano lasciato.

    Seduta accanto al fuoco ripensai a tutto quello che era successo fin dal mattino quando una telefonata mi aveva avvertito della sua morte. Il viaggio lassù e poi, era arrivata la sera. Era passato tanto tempo e un attimo.

    Qualcuno aveva lasciato del caffè e ne sorseggiai una tazza, intanto dovevo rimanere tutta la notte a vegliare, almeno così mi era stato detto e che queste erano le usanze. Usanza era anche non chiudere la porta in modo che chiunque potesse entrare, a qualsiasi ora, per una preghiera, una visita.

    Così, cercai di pensare al mio lavoro: alle mie tele incompiute dai colori smorti e odorosi di trementina. Eppure, il pensiero non riusciva a superare i confini di quel paese.

    Non ricordo quanto tempo passò prima che qualcuno, salutando sommessamente, entrasse accostando di nuovo l’uscio dietro di sé. Chiese se poteva sedersi ed io gli offrii la sedia guardandolo negli occhi: era colui che prima, con la sua preghiera, mi aveva dato calore e suscitato curiosità. Si presentò.

    Si chiamava Antonio come mio zio.

    Adesso era diverso. Senza berretto potevo vedere i lunghi capelli bianchi. I lineamenti perfetti. Indossava un completo grigio-marrone di lana e tra le mani rigirava nervosamente un berretto di lana rosso.

    Il suo italiano non aveva inflessioni dialettali, quando da una tasca tirò fuori un libriccino di preghiere e cominciò a parlare:

    «Mio fratello Giulio ti saluta, ora doveva dar da mangiare ai cani, ma prima era con me a recitare il rosario.»

    Si girò verso la scala: «Era lassù, lo hai visto?»

    «Non so. Come avrei potuto riconoscerlo? Io non conosco nessuno, anzi, ora conosco te.»

    «Vuoi pregare con me?»

    «Oh no! Ti prego. Io prego te. È quasi tutto il giorno che ascolto rosari e preghiere, preghiere e rosari. Sono stanca... Basta!»

    Antonio mi guardò in silenzio per qualche secondo, poi afferrò la mia mano, la strinse nella sua portandola sul suo petto e disse:

    «Prima di tornare qua, ho fatto un bagno nel lago...»

    «Ma è dicembre, come hai potuto! Il lago sarà gelato.»

    «Non è gelato e questo contatto mi trasmette un caldo che arriva fino al cuore. Nelle mie vene scorre il fuoco. Tu, mi hai dato il tuo.»

    Cercai di riprendermi la mano e lo fissai sbalordita.

    Per un attimo avevo avuto l’impressione che fosse pazzo.

    Lui, forse conscio del mio stupore, riprese subito a parlare:

    «Posso raccontarti la storia di questo mio berretto rosso?»

    Io annuii. «Mia madre lo preparò per me, maglia dopo maglia mentre aspettava la mia nascita, ed io lo amo. È tutto quello che mi rimane di lei, oltre il ricordo. Lo porto sempre con me ed è come se lei mi fosse accanto.»

    Dicendo questo, aveva tenuto gli occhi bassi sul berretto che rigirava nervosamente tra le dita.

    Dopo un lungo silenzio si alzò di scatto:

    «Tu vai a dormire, rimango io qua.»

    «Non puoi, io devo restare, è mio zio.»

    «Conosco meglio di te le usanze del paese Tu puoi andare, sei stanca e non sei abituata a vegliare la notte, io posso, non dormo di notte.» Lo guardai, e pensai che non sapeva che anch’io non dormivo la notte e, se succedeva, era con qualche sonnifero. In piedi, uno di fronte all’altra. Prendevo tempo, non sapevo bene cosa fare, dargli ascolto o no, ma sentii la stanchezza invadermi.

    Mi girai e, dal piccolo tavolo presi un bicchiere e mi versai dell’acqua; la mano mi tremava e si udì il tintinnio della bottiglia sul bicchiere. Bevendola, ingoiai due sonniferi tirati fuori dalla, tasca, poi mi girai dicendo:

    «Grazie Antonio, buona notte.»

    «Buona notte a te, ci vediamo domattina.»

    Uscii nel buio e andai verso la casa di Maddalena, una donna anziana, dalle gambe stanche e con le mani segnate dalla fatica di una vita, che si era offerta di ospitarmi per quella notte.

    Il vento mi trapassava la pelle e mi contagiava le ossa. Le mani erano gelate mentre guardavo il vicolo deserto ed i quattro lampioni che riflettevano una fioca luce gialla, solo sulle pietre delle case. Cento metri, in tutto erano solo cento metri ed il gelo mi fece sentire leggera, quasi mi fossi liberata di un peso caldo e terreno...

    Arrivata nella casa, dove una debole luce indicava la mia stanza, mi infilai nel letto matrimoniale e cercai di dormire, senza riuscirci. All’alba mi tornò in mente l’ultima scena della sera precedente. Ora sembravano solo fotogrammi di un film grigio-nero, e con quella spiacevole sensazione mi alzai.

    Guardandomi allo specchio vidi solo un volto bianco con grandi occhiaie messe in risalto dal maglione scuro.

    Scesi in cucina e Maddalena aveva già acceso la stufa. Senza dire nulla mi

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