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Gennarino Di Gennaro e la scoperta delle trame tenebrose
Gennarino Di Gennaro e la scoperta delle trame tenebrose
Gennarino Di Gennaro e la scoperta delle trame tenebrose
E-book635 pagine9 ore

Gennarino Di Gennaro e la scoperta delle trame tenebrose

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Info su questo ebook

Gennarino Di Gennaro è un Harry Potter napoletano, che non combatte Vol-demort e i maghi oscuri, ma lotta contro i cattivi di tutti i giorni, con corag-gio in difesa dei più deboli.
Quel coraggio che ciascuno di noi può scegliere di avere, in nome della giu-stizia e della verità, agendo così da vero supereroe.
Gennarino Di Gennaro nasce a Napoli da madre tossicodipendente e padre sconosciuto. È affidato a un convento, dove vive fino a 12 anni. Le suore, cui è stato dato dal tribunale dei minori, decidono di affidarlo a loro volta, in modo illegale, all’unica parente che fino a quel momento l’ha seguito: zia Carmela. Il ra-gazzo è minuto, magro come un chiodo, di carnagione scura e con un cespuglio per capelli. È silenzioso, gentile, timido, ma intelligente e molto ben istruito. Scopre, in modo fortuito, di avere doni extrasensoria-li: muovere oggetti a distanza, vedere, parlare e interagire con i defunti, udire e captare oggetti oltre gli ostacoli, poter separare la parte spirituale da quella materiale del suo corpo. Abituarsi a queste capacità straordinarie non è per niente semplice, Gennarino, pian piano, inizia a controllare i suoi poteri grazie ad una Maestra, Donna Drusiana. La più grande maestra rimane però la vita. I drammi e i traumi che pur giovanissimo deve affrontare, fanno nascere in Gennarino una incrollabile voglia di giustizia, man mano che si sente forte, difende i più deboli, scontrandosi con bulletti locali, dapprima, per poi ritrovarsi a com-battere la prepotenza della criminalità organizzata, dei loro complici al potere, che sconvolgono la vita di brave persone. Gennarino non vive questo da solo: in compagnia di un gruppo di ragazzi della sua età, vive le fasi dell’adolescenza normalmente e quando rivela ai suoi amici dei suoi poteri, trova in loro un legame di amicizia che si rivelerà determinante per affrontare le battaglie della vita quotidiana.
LinguaItaliano
Data di uscita11 gen 2022
ISBN9788831381994
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    Anteprima del libro

    Gennarino Di Gennaro e la scoperta delle trame tenebrose - Giovanni Fusco

    Fusco Giovanni

    Gennarino Di Gennaro e la scoperta delle trame tenebrose

    ISBN: 9788831381994

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    https://writeapp.io

    Indice dei contenuti

    Ricordi

    Incipit

    Capitolo Primo

    Capitolo Secondo

    Capitolo Terzo

    Capitolo Quarto

    Capitolo Quinto

    Capitolo Sesto

    Capitolo Settimo

    Capitolo Ottavo

    Capitolo Nono

    Capitolo Decimo

    Capitolo Undicesimo

    Capitolo Dodicesimo

    Capitolo Tredicesimo

    Capitolo Quattordicesimo

    Capitolo Quindicesimo

    Capitolo Sedicesimo

    Capitolo Diciassettesimo

    Capitolo Diciottesimo

    Capitolo Diciannovesimo

    Capitolo Ventesimo

    Capitolo Ventunesimo

    Capitolo Ventiduesimo

    Capitolo Ventitreesimo

    Capitolo Ventiquattresimo

    Capitolo Venticinquesimo

    Capitolo Ventiseiesimo

    Capitolo Ventisettesimo

    Capitolo Ventottesimo

    Capitolo Ventinovesimo

    Capitolo Trentesimo

    Capitolo Trentunesimo

    Capitolo Trentaduesimo

    Capitolo Trentatreesimo

    Capitolo Trentaquattresimo

    Capitolo Trentacinquesimo

    Capitolo Trentaseiesimo

    Capitolo Trentasettesimo

    Capitolo Trentottesimo

    Capitolo Trentanovesimo

    Capitolo Quarantesimo

    Capitolo Quarantunesimo

    Capitolo Quarantaduesimo

    Ringraziamenti

    … A Brigida e Renato,

    luminescenze d'amore

    Ricordi

    Gli capitava che al risveglio, la mattina, i ricordi lo invadessero come invisibili serpi.

    Sfilavano come su d’una passerella i primi dodici anni della sua vita passati in convento perché il tribunale aveva deciso che sua madre non era adatta, ma quelle suore lo erano state ancora meno. Eppure era bastato un anno fuori da quelle mura, un anno a casa di sua zia Carmela, per sconvolgere tutta la sua esistenza, rivoltarla come si rivolta un calzino.

    Gli veniva in mente puntuale, come la voglia di fare pipì, che s’era detto, arrivando in quella casa, di non dover pesare sulle spalle di sua zia che aveva sempre fatto tanto per lui, non ultimo accoglierlo come un figlio e abbandonare il mestiere più antico del mondo, che faceva da sempre. S’era fiondato alla ricerca d’un piccolo lavoretto, qualsiasi cosa pur di non gravare e aveva trovato come commesso/factotum in una pasticceria nei dintorni, accettando le angherie del barista, don Carlo, i dettami del padrone, don Pasquale, rivelatosi poi un bonaccione e i piccoli benefici riservatigli dal pasticciere, don Ciccio.

    S’era ritrovato gettato tra quei vicoli ch’erano un dedalo, un labirinto inestricabile, ai quali aveva dovuto adattarsi per forza se voleva continuare a portare per i negozi e le case il caffè mattutino, i pasticcini alla crema e altre prelibatezze. Questo il lavoro a cui sottostare, più pulizie di bancone, vetrine, tavolini, lavaggi di pavimenti, bicchieri, tazzine, messa in ordine di masserizie varie e compiacere in ogni cosa il barista: un despota più del proprietario.

    Ma i ricordi gli viaggiavano in testa leggeri come nastri svolazzanti.

    I bulli di quartiere capitanati da Salvatore Aprea, gli avevano fatto conoscere il lato peggiore di quei vicoli, gli avevano rubato le prime mance, ma soprattutto gli avevano dato l’opportunità di scoprire i suoi doni, perché di fronte a quei violenti, arroganti teppisti, quelle strane, oscure, misteriose capacità di fare cose fuori dall’usuale erano venute a galla suo malgrado, erano salite dal profondo, con determinazione, quasi avessero un’autonomia propria: muovere oggetti a distanza, guardare al di là di ostacoli, leggere la mente della gente.

    Che paura.

    Fu come guardare in un pozzo senza fondo e il pozzo era la sua mente, quell’oscuro, misterioso abisso in cui si sarebbe perso se non gli fosse venuta in aiuto la Maliarda, Drusiana d’Aquitonia, la sua mentore.

    La fattucchiera di quartiere che però della strega aveva poco o niente: elegante, signorile, nobile l’aveva aiutato a risalire dal baratro, insegnandogli come gestire i suoi doni, come farli crescere, svilupparli, renderli per davvero dei doni e non delle maledizioni.

    Era divenuta la sua seconda zia, un altro punto di riferimento.

    Lo metteva in conto la mattina appena sveglio e la sera prima di dormire: cosa avrebbe fatto senza quelle due donne? Dove sarebbe andato a nascondersi? Soprattutto come avrebbe potuto gestire la scoperta di percepire i morti, quelle luminescenze eteree che viaggiavano di fianco ai vivi, come in un mondo parallelo? Ma di più: come avrebbe fatto a non impazzire quando tra quelle luminescenze aveva incontrato lo spirito di sua madre, che gli aveva rivelato d’essere stata uccisa. Lo ricordava come se ogni giorno fosse quello della rivelazione. Una devastazione. Gli aveva frantumato le ossa e l’aveva gettato in uno sconforto indicibile. S’era sentito come accartocciato e gettato tra i rifiuti, peggio di tutti gli anni che aveva dovuto passare in orfanotrofio, tra le Pie suore del beato Cristobaldo del deserto. Molto peggio. Ma per fortuna donna Drusiana s’era fatta carico di quel dolore, l’aveva aiutato a supportare quel peso immane e lui dal canto suo, grazie ai suoi doni, era riuscito a scovare gli assassini, i balordi che l’avevano uccisa, rendendosi conto, come poi aveva intuito anche l’ispettore che s’era interessato al caso, che non si uccide una tossicodipendente qualsiasi senza un motivo valido, che alla spalle, di quella strana macchinazione per eliminarla doveva esserci qualche altro motivo, che a costruire il tutto c’era qualcun altro: un mandante.

    Qualcun altro da portare sotto la luce.

    Tra i balordi assassini, anche Salvatore Aprea, il suo bullo di quartiere, che aveva fatto da palo, ma senza conoscere lo scopo a cui sarebbero dovuti arrivare.

    Ogni volta quei ricordi erano come uno stillicidio che scavava fin dentro il suo animo e Gennarino soffriva d’un male infinito, ma ogni volta continuava a ripetersi ch’era come se avesse scoperto la punta d’un iceberg, che sotto ci doveva essere molto di più, qualcosa di più pericoloso.

    Si svegliava, si vestiva, faceva le pulizie, preparava la colazione per sé, sua zia e poi si fermava a pensare a Nicola. Già Nicola, uno dei suoi vecchi amici di collegio, che aveva ritrovato per caso, anche lui un po’ sbandato, un po’ disorientato in quel caos di fuori e dopo un po’ sua zia s’era affezionata anche a lui accogliendolo spesso in casa a rimpolpare le fila di quel nido che sembrava essere diventato il refugium peccatoribus. Ci pensava ancora un po’ e sorrideva per quel fratellone che l’aveva inondato di allegria.

    Andava a sedere di là in cucina e di fronte al caffellatte un’altra immagine si faceva viva, quella della nipote di don Pasquale, Giorgina, la ragazzina dalla chiacchiera irrefrenabile e che dal primo incontro gli aveva fatto un buco nel cuore. Che carina.

    Quanto materiale, quante cose, quante novità e ognuna ne trascinava altre cento che facevano da strascico. Avrebbe resistito a quelle pressioni? Non lo sapeva, ma come sempre, in quei mesi così densi, l’unica cosa immediata da affrontare era scappare al lavoro altrimenti don Carlo l’avrebbe ammazzato.

    Incipit

    I freddi riflessi dei neon erano stati spenti e gli uffici immersi nel buio. Unico barlume la fioca lampada d’un corridoio attiguo dove lavoravano gli addetti al turno di notte. In quella semioscurità, dei passi felpati avanzarono lenti senza far rumore, sicuri della direzione da prendere. Si fermarono solo un attimo, in attesa che le voci, provenienti pigre dall’altro corridoio, si allontanassero. Erano voci conosciute, ma non opportune in quel momento.

    I passi ripresero spediti il proprio percorso senza più incertezze. Si avviarono verso un ufficio la cui porta era socchiusa e mani ricoperte di guanti la spinsero delicatamente.

    L’individuo poggiò una borsa nera su uno scaffale, l’aprì e ne trasse un voluminoso raccoglitore che andò a posizionare, in bella mostra, nella libreria di fronte, dove già ve ne erano altri tre simili.

    Chiusi i battenti della vetrina, mise la borsa nera sotto il braccio e si avviò all’uscita. In quel momento le pigre voci di prima, in un andirivieni lento, tornarono sui propri passi.

    L’uomo fece appena in tempo a sgattaiolare in un angolo buio, prima d’essere scorto dagli altri che si avvicinavano. Li sentì arrivare, sempre più vicini, quasi a un soffio dal suo incerto nascondiglio. Si appiattì contro il muro, sperando di non rientrare nel sottile cono di luce che filtrava dalla parte opposta della porta divisoria. Un brivido gelido gli percorse la schiena. Non era il momento di farsi scoprire.

    Attese in silenzio, quasi senza respirare, finché le voci furono passate oltre. Solo allora si concesse un leggero respiro.

    Sgusciò via come una lepre, gettò la borsa di pelle in un cassonetto della spazzatura e prima di uscire all’aperto tolse i guanti e la sciarpa e li ripose all’interno del cappotto.

    Alzò il bavero, per confondere i tratti della fisionomia, salutò il custode assonnato, che a stento ricambiò dalla sua guardiola, e fu definitivamente per strada.

    Capitolo Primo

    Il buio era quasi totale. Vagavano a tentoni ma contenti di essere assieme.

    Ogni tanto Gennarino si girava per vedere se l’amica lo seguiva, non aveva alcuna intenzione di perderla, non se lo sarebbe perdonato dopo le tante raccomandazioni di don Pasquale.

    Poi d’improvviso l’inatteso.

    Bastò appoggiarsi al pilastro, a quel pilastro un po’ strano, un po’ diverso dagli altri e la follia sembrò scatenarsi. Non capì più niente. Avvertì solo uno spaventoso risucchio, come essere catapultato altrove, lontano, in uno spazio separato, dove non c’era storia, dove l’assenza regnava sovrana. Solo una frenesia sfrenata, un furore non umano. Non fu più padrone dei suoi gesti, della sua volontà, qualcun altro li manovrava. La sua essenza venne rapita e straziata in un vorticoso turbinio di paura.

    Non capì, non seppe comprendere, non era possibile sapere, solo una sensazione di deliquio si diffuse per tutto il corpo, poi per la mente e per lo spirito fino a renderlo incapace anche solo di pensare, perché in quell’altrove non vi era alcuna logicità di pensiero, solo assenza e follia.

    ~ * ~

    Arrivata per le vacanze di Natale, nonna Brigida aveva deciso di fermarsi qualche altro giorno. Sembrava che Gennarino fosse più disponibile, pronto per una chiacchierata che portasse buoni frutti.

    Molta acqua era passata sotto i ponti dal loro primo incontro. Il ragazzo aveva fatto un grande salto in avanti. Ciò che prima sembrava appena percepibile, ora era divenuto dirompente, come una cascata che ti investe. Quasi fosse sbocciato a vita nuova.

    Brigida sapeva che non bisognava forzare, che l’iniziativa spettava a suo nipote, che lei avrebbe solo dovuto esserci per un’eventuale proposta d’incontro.

    Ci sono cose che necessitano della giusta occasione, ma soprattutto della dovuta maturazione. Aveva imparato che, specialmente nel campo che li accomunava, era necessario usare i guanti bianchi, una delicatezza che andasse oltre quella usuale.

    L’occasione sembrò presentarsi una sera in cui Gennarino rientrò prima dal lavoro e zia Carmela sembrava tardasse. Nonna Brigida aveva già preparato la cena. Era una di quelle vecchiette arzille. Di quelle che non riescono a stare ferme un solo istante. Come se non volesse sciupare neppure un attimo di quelli che la vita mette a disposizione.

    Il ragazzo andò in bagno a lavarsi, poi si sedette nell’ingresso dove anche sua nonna s’era messa a lavorare a maglia. Stava facendo una cosa complicata, a quattro ferri, che non si riusciva a capire cosa fosse. Gennarino aveva già visto lavorare ai ferri. Era l’attività preferita dalla suora portinaia, suor Epaminonda della leggiadra attesa, che, non avendo altro da fare dalla mattina alla sera, date le poche visite che arrivavano al convento, s’era trasformata in una vera esperta del campo. Armeggiare con quattro ferri però, non gli era mai capitato di vederla.

    Restò per un momento incantato a scrutare quelle piccole mani scheletriche che si muovevano agili come quelle d’una ragazzina, si passò l’indice tra le sopracciglia, com’era solito fare quando rifletteva, poi non resistette e fece le sue domande:

    «Come sei veloce a lavorare.»

    «Già.» Rispose lapidaria nonna Brigida.

    «Che cosa stai facendo?» continuò il ragazzo.

    «La calza.» Ancora una volta scarna di particolari, quasi a sollecitare altre domande, che arrivarono puntuali.

    «Che significa la calza?»

    «Significa che sto facendo un paio di calze di lana per l’inverno. Sai a Ischia, sulla collina dove abito, d’inverno fa veramente freddo e un paio di queste aiutano a superare la cattiva stagione.»

    «Vuoi dire che da quello che stai facendo verranno fuori delle calze?»

    «Be, per il momento una, la seconda la farò dopo.»

    «Sì, insomma… volevo dire…»

    «Ho capito cosa volevi dire, stavo scherzando. Proprio così, da questo intreccio incomprensibile verranno fuori delle calze.»

    «Ma è straordinario e tu sei bravissima. È bello stare qui a guardarti mentre lavori. Suor Epaminonda della leggiadra attesa per fare un solo giro di ferri impiegava una vita, tu sei velocissima.»

    «Già, me lo diceva anche mia madre ma lei sapeva bene il perché, e tutte le volte mi raccomandava d’andare più lentamente. Io ho impiegato anni a capirlo. Non riuscivo a rendermi conto come mai tutte le mie amiche per fare una sciarpa ci mettevano delle settimane, io in un paio d’ore l’avevo già finita.»

    Gennarino stavolta non fece alcuna domanda. Rimase in silenzio, quasi ad attendere che sua nonna proseguisse nel racconto, ma la vecchia non aggiunse altro. Aveva vissuto molto e gli anni le avevano insegnato tante cose, una delle più importanti, di cui aveva fatto tesoro, era di non sostituirsi agli altri, né di anticiparli nelle richieste. Se Gennarino avesse voluto chiedere era liberissimo di farlo, lei avrebbe risposto con gli approfondimenti dovuti, ma se la cosa non gli interessava, perché imporgliela? Questa era la sua filosofia, ormai da tempo.

    Il ragazzo attese qualche istante, poi la curiosità la fece da padrona: «Come mai sei così veloce nel lavorare?»

    «È un dono. Un regalo speciale che la natura ha voluto farmi e di cui all’epoca non ero ancora a conoscenza.»

    «Lo stesso… mio?» Si fece coraggio nell’azzardare. «Sì, insomma… tu sai vero che anche a me è stato regalato qualcosa di speciale, dei doni, come li chiama anche la signora Drusiana?» Concluse Gennarino timoroso.

    «Già, proprio così, lo stesso tuo. Ma mentre oggi le cose che tu fai le puoi realizzare liberamente, almeno senza essere perseguitato, la tua bisnonna, la prima cosa che mi insegnò fu quella di non fare le cose speciali, lei così le chiamava, davanti a qualcuno. Di tenerle ben nascoste, guai se gli altri fossero venuti a saperlo.»

    «Perché?»

    «Perché quando io ero ragazzina, le cose non erano tanto facili come lo sono oggi. All’epoca la gente era bigotta, ignorante.»

    «Ma tu non facevi niente di male.»

    «Proprio così, ma l’ignoranza e la superstizione creano la paura per tutto quello che le persone non riescono a capire. Vedere una che riesce a finire la calza in un quarto d’ora o che guarisce qualcuno con la forza della propria energia, ti fa fare un sacco di domande. Come hai fatto tu. E se non si trovano le risposte, allora chi sta sbagliando è l’altro, quello che fa le cose speciali. È molto più facile fare quello che fanno tutti, adeguarsi al pensiero che pensano gli altri, nessuno si sente a disagio.»

    «E allora non la facevi la calza tanto veloce come la fai adesso?»

    «Già. La mia povera mamma, pace all’anima sua, mi impose di tenere nascosto questo dono. Diceva ch’era meglio così. Sua madre, per avere la testa dura, era stata cacciata di casa dal marito e s’era dovuta arrangiare alla men peggio per il resto dei suoi giorni, con una figlia da sfamare. Aveva dovuto girovagare di paese in paese, su di un carro a vendere le belle cose che faceva di nascosto, di notte, quando nessuno la vedeva. Ma questi doni fanno parte di te e vengono fuori quando meno te lo aspetti. La gente si rende conto che sei strana, che fai robe particolari, diverse dagli altri, cose che non erano limitate solo a un paio di calze fatte in fretta o a una bella sciarpa finita in cinque minuti. Lei aveva la capacità di… parlare con i morti. Ne avvertiva la presenza. Riusciva a percepirne il dolore, la gioia, la mancanza di soddisfazione per quello stato in cui si trovavano e che spesso non avevano ancora compreso. Così, ogni volta che questa cosa veniva a galla, le persone avevano terrore, pensavano fosse posseduta dal diavolo e la cacciavano in malo modo.»

    «Ma non c’era nessuno che l’aiutava, i preti, le suore?»

    «Bravi quelli, te li raccomando». Rispose nonna Brigida in modo brusco, interrompendo per un istante il lavoro, ormai quasi finito. «Erano i primi a recitare giaculatorie riparatrici, fare scongiuri, a pronunciare condanne, e non solo quelle. Mia madre mi raccontava sempre che una volta le presero a sassate e che sua madre le salvò un occhio per miracolo. Bloccò una pietra a mezz’aria e la fece tornare indietro con la stessa violenza con cui era arrivata. La gente si spaventò a morte. Scappò a gambe levate, con il prete in prima fila che continuava a segnarsi col gesto della croce gridando al demonio. Quella volta furono fortunate, ma non sempre le cose ti vanno lisce. Quando la paura è più forte e l’ignoranza più profonda allora sono guai. In un’altra occasione un sasso lanciato con più violenza e determinazione la colpì in piena faccia. Morì sul colpo.»

    Gennarino rimase di stucco, non disse niente, non c’erano parole per commentare una cosa del genere.

    «Vedi piccolo, quelli erano altri tempi. Il diavolo sembrava che non avesse mai niente da fare, che stesse dietro a ogni angolo pronto a saltarti addosso. Dopo la morte di mia nonna, mia madre rimase sola, ma il buon senso diceva che una ragazza non poteva girovagare sola per il mondo, perciò fu messa in un orfanotrofio di suore.»

    «Come me.»

    «Già, come te, così tutti si misero la coscienza a posto e l’omicidio fu dimenticato. Lei non aveva le cose speciali come sua madre, ma appena si accorse che le avevo io, fu irremovibile. Mi impose, nella maniera più assoluta, di non praticarle. Non voleva perdere anche me. Mi permetteva di farle unicamente quando eravamo sole, nemmeno davanti a mio padre o ai miei fratelli. L’esperienza le aveva insegnato brutte cose.»

    Gennarino stette un attimo a riflettere, triste per questa storia amara, poi aggiunse: «E non eri dispiaciuta di non poter fare le cose speciali liberamente?»

    Anche nonna Brigida non rispose subito. Ultimò la prima calza che aveva cominciato cinque minuti prima, posò i ferri sul tavolo e poi alzò lo sguardo verso il nipote.

    « Piccirì’, io sono sempre stata un poco capa allerta, ma pure io ero ignorante e avevo paura di quelle cose speciali che facevo. Credevo che per davvero il diavolo stesse dietro l’angolo pronto a portarmi via e la mia scusa per non fare quelle cose e tenere così la paura lontana, era che dovevo obbedire a mia madre e basta.»

    «Ma proprio mai, mai le facevi le cose speciali?»

    «Te l’ho detto, solo quando stavo con lei e poi tanti anni dopo, da grande, quando ormai ho capito che il diavolo in queste cose non c’azzeccava proprio niente.»

    «Come ti sei accorta che anch’io avevo il dono delle cose speciali?»

    Nonna Brigida riprese di nuovo i ferri e preparò tutto il necessario per cominciare la seconda calza. La lana era d’un altro colore, tanto che Gennarino rimase per un attimo interdetto. Poi capì che quella vecchietta era particolare non solo per le cose speciali che faceva, ma anche per quelle normali, quelle quotidiane.

    «Tu emani una forza che fa paura.» Disse senza guardarlo e cominciando a lavorare. «Il tuo calore è tale, la tua energia è così forte e potente.» Posò sulle gambe quello che aveva tra le mani e si fermò a fissare negli occhi il ragazzo. « Guagliò’, io non ho mai immaginato che ci potesse essere una cosa così. Vieni qua.» Il nipote si avvicinò e lei lo abbracciò con tutto il trasporto. «Qualunque cosa succederà, non ti scoraggiare e non abbandonare mai questi doni, sarebbe come sputare in faccia a Dio. Hai capito? Non fare come me che ho dovuto sciupare tante cose per l’ignoranza e l’imbecillità della gente. E’ capit’?» Ripeté.

    Sì, fece Gennarino con la testa, commosso per l’intensità con cui sua nonna gli aveva detto quelle parole.

    L’anziana donna non lo liberò dall’abbraccio. Lo tenne stretto al petto e aggiunse lentamente: «Ora mi devi dire… cos’è successo a tua madre. Io lo so, lo sento che è successo qualcosa di brutto, non so di preciso che cosa, ma è come se non avvertissi più la sua presenza.»

    Gennarino si divincolò piano dall’abbraccio, guardò più d’una volta sua nonna, abbassò lo sguardo e poi le disse che sua madre non c’era più, ch’era morta, ch’era stata uccisa.

    Quelle parole gli pesarono come un macigno. Era la prima volta che qualcuno glielo chiedeva ed era la prima volta che lui lo aveva dovuto dire. Sua madre era stata uccisa e solo grazie ai suoi doni, alle sue cose speciali, come le chiamava sua nonna, erano riusciti a risalire ai colpevoli per consegnarli alla giustizia.

    Poi timidamente aggiunse che grazie a lui sua madre aveva recuperato la serenità persa o… mai avuta, di questo sì che era orgoglioso.

    «Lo sapevo» sbottò nonna Brigida «lo sapevo. Era come se si fosse interrotto un contatto. Come se fosse partita, andando molto lontano senza lasciare l’indirizzo.» Poi cambiò tono, vagò con lo sguardo quasi a seguire un lontano ricordo. «Tua madre e io eravamo molto legate. Quand’era ragazza veniva sempre a trovarmi, passavamo ore a passeggiare, a chiacchierare delle cose più stupide, a farci un sacco di risate. D’estate non mancava mai. Luglio e agosto li trascorreva a Ischia, tanto che io le avevo preparato una piccola cameretta tutta per lei. Mi confidava le cose intime perciò pensai che anch’io dovevo confidarle le mie, le dissi delle cose strane che facevo e gliele feci anche vedere. Lei ne fu entusiasta. Le piaceva vedermi lavorare ai ferri in quella maniera particolare, diceva che le sembrava di vedere una comica di Ridolini, come se qualcuno avesse accelerato la velocità. Me la faceva vivere come la cosa più naturale di questo mondo.»

    A Gennarino un leggero sorriso si intrufolò tra le labbra.

    «Con lei non mi sono mai sentita fuori posto. Tra di noi c’era una grande differenza d’età, eppure era come se fossimo due amiche. C’era un filo che ci univa, qualcosa di particolare. Non ho mai saputo se anche lei avesse i doni, ma non credo, me l’avrebbe detto. Poi d’improvviso non venne più. Sparì. Come se non ci fosse mai stata. L’aspettai con ansia, ma niente. Fu l’unica volta che venni meno alla mia regola di non intrufolarmi nella vita degli altri. Telefonai a tua nonna, lei però non mi volle dire niente. Solo che era andata via di casa e basta. Cominciai a preoccuparmi, non potevo permettermi di non sapere. Così mi vestii, presi il primo vaporetto e venni a Napoli. Quando arrivai da tua nonna, continuò a non volermi dire niente, per lei sua figlia era morta. Allora convinsi tua zia Carmela, così l’andammo a cercare da qualche amica, ma sembrava proprio che non ci fosse più. Nessuno sapeva che fine avesse fatto. Passai giornate intere a girare per Napoli insieme a quella povera creatura di Carmela, ma non ci fu niente da fare. Provai a cercarla col pensiero, ma sentii come una barriera, come se lei non volesse essere trovata, allora capii che dovevo rispettarla, che non dovevo più andare oltre. Me ne tornai a Ischia sconsolata, afflitta e per anni non seppi più niente di lei.» Fece una piccola pausa. «Parecchio tempo dopo, quando ormai non l’aspettavo più me la ritrovai davanti. Era incinta di te. Sempre bella come me la ricordavo, ma sciupata da far paura. Un fiore appassito. Stette tutta la giornata con me, parlammo di tante cose, dei bei tempi andati, di quel bambino che stava per arrivare. Mi disse che t’aspettava con ansia. Si vedeva che era l’unica cosa a renderla serena, ne parlava con passione, ma nemmeno per un momento accennò a quello che era successo a casa, né di quello che stava facendo. Le offrii di restare con me, la sua stanzetta era sempre in ordine, ma non volle. Quella stessa sera riprese il vaporetto e se ne tornò. Da allora non l’ho più vista, ma nel mio cuore c’è sempre stato un angolino per lei. Tua madre era una brava figlia, un poco sfortunata, ma tanto una brava figlia. Le ho voluto bene come se fosse mia.»

    Gennarino sentì che doveva pacificare l’animo di quella vecchietta.

    «Non ti devi preoccupare più per mia madre, ora è serena.»

    «Vuoi dire…?» Fece nonna Brigida confusa.

    «Sì», continuò suo nipote «ha deciso di rimanermi a fianco, dopo quello che è successo e la cattura dei suoi assassini, per cercare di recuperare un po’ di quanto non abbiamo vissuto.»

    La luminescenza di Elena gli si fece presente, si fece percepire da Gennarino nella maniera speciale che s’era creata tra loro e gli comunicò di esprimere a quella vecchina tutta la tenerezza che aveva sempre provato per lei.

    «È qui?» Chiese stupita nonna Brigida a bassa voce.

    Sì. Fece Gennarino con la testa. Elena emise un soffio della sua energia che invase la donna facendole avvertire quella sensazione profonda di pace che Gennarino aveva già sperimentato.

    In quel momento zia Carmela aprì la porta.

    «Scusate per il ritardo, al negozio con i saldi non si capisce niente.»

    «Non ti preoccupare Carmè’,» disse Brigida con lo spirito pacificato «noi ne abbiamo approfittato per fare quattro chiacchiere.»

    E si guardò intorno quasi con la speranza di percepire altro.

    «Ecco, bravi. Mo mi lavo e mangiamo.»

    «Fai con calma, che io già ho cucinato.»

    «Che bella quella vecchierella.» E detto fatto andò in bagno a lavarsi.

    Nella testa di Gennarino un milione di pensieri s’erano assiepati con ferocia. Sua madre continuava a essere un mistero. Nonostante avesse deciso di restargli accanto, dopo quello che era capitato, non poteva azzardarsi a chiederle niente.

    La Maliarda gli aveva detto, e sua madre confermato, che i ricordi troppo negativi venivano offuscati, quasi per proteggerli nella nuova condizione in cui si trovavano. Soprattutto all’inizio del passaggio da questa vita alla nuova. Bisognava fortificarsi, equipaggiarsi per rinnovare le energie, per poter crescere, quasi si fosse tornati bambini. Tutte cose che il ragazzo ancora non riusciva a comprendere. Doveva metabolizzare pian piano quei misteri che tuttora apparivano frutto della fantasia.

    Gennarino non aveva cercato nulla di tutto quello che gli era capitato quell’anno, alcune cose continuavano a sembrargli inverosimili. Raccontarle a qualcuno avrebbe significato essere tacciati di follia. Lo aveva fatto con zia Carmela, per necessità. Le aveva fatto vedere quello che riusciva a fare: sollevare una tazzina a distanza, con la mano della mente, come la chiamava lui, versare del caffè e aggiungervi dello zucchero e per poco la povera donna non era svenuta, immaginarsi dire una cosa del genere a qualche estraneo che non ti conosce. Persino lui non riusciva a essere certo che tutto fosse vero, figurarsi gli altri.

    Sembrò che nonna Brigida gli leggesse nella mente: «Non preoccuparti troppo. Non farti troppe domande, fai diventare questo regalo, che il buon Dio ti ha voluto fare, come una cosa sempre più bella. Vedrai che quando ci avrai fatto l’abitudine ti sembrerà naturale, come bere un poco d’acqua.»

    In effetti quanto detto da sua nonna cominciava ad avvertirlo.

    Le cose che gli capitavano all’inizio per caso e che lui leggeva come incomprensibili o fortuite, adesso rientravano nella normale routine. Se ne rese conto solo ora che ci rifletteva.

    «Bene, allora com’è andata la giornata?» La voce di sua zia venne a interrompere il decorso dei pensieri.

    «A me in maniera ottima.» Fece la vecchietta.

    «Anche a me.» Aggiunse il ragazzo.

    «Così siamo in tre.» Chiuse il cerchio zia Carmela. «Sono proprio contenta di come sta andando il negozio, e sempre più contenta d’aver deciso d’aprirlo.»

    Intanto s’era andata a lavare le mani e aveva apparecchiato, mentre nonna Brigida ultimava la seconda calza e Gennarino s’era chiuso di nuovo per un attimo nei suoi pensieri.

    «Sembra che la gente vuole spendere per dimenticare i guai. Sotto le feste è sempre così.»

    «Già.» Disse l’anziana donna. «Oggi sono andata a fare un giro qui intorno e ho notato proprio questo. Come se le persone andassero in giro con una frenesia spropositata, quasi per colmare un vuoto antico. Sulla mia montagna tutto è fatto con calma, senza correre. Le cose le puoi rimandare anche a più tardi, a domani. Non c’è la preoccupazione di fare in fretta. Qui invece sembra un manicomio. Me ne sono tornata subito a casa. Le urla e la confusione, il rumore delle macchine mi hanno messo addosso tanta di quella agitazione che non ricordavo più dov’ero.»

    «Purtroppo per noi è così normale che non ce ne rendiamo conto.»

    «Già. Però è brutto. Così facendo si perdono i contatti umani.»

    «Un poco di pazienza.» Concluse Carmela. «Ma ora mangiamo altrimenti si fa tutto freddo.»

    Prese le cose che aveva preparato nonna Brigida e le portò in tavola. Mangiarono con appetito e soddisfazione. D’improvviso Gennarino si interruppe come se gli fosse balzato in testa un pensiero a cui non aveva badato prima: «E Nicola?» Zia Carmela non rispose, tanto che Gennarino pensò non avesse sentito: «Come mai Nicola non c’è?» Aggiunse.

    Stavolta la donna non poté fare orecchie da mercante e si vide costretta a dire al ragazzo quanto invece avrebbe rimandato volentieri.

    «Nicola non è potuto venire perché… inzomma… ieri sera tornando a casa, quando è andato via di qua, si è messo a scalciare con tutto quello che gli capitava davanti ai piedi. Ha colpito un botto che non era esploso bene e lì è successo il guaio. Lo scoppio è stato molto violento. Per fortuna Nicola ha avuto la prontezza di mettere le braccia davanti alla faccia, così lo schianto non l’ha investito. Adesso sta in ospedale con diverse bruciature in varie parti del corpo. Niente di grave, ringraziando il cielo, però ci dovrà rimanere altri tre o quattro giorni.»

    «Perché non me lo hai detto subito?»

    «Non volevo farti dispiacere.»

    «Ma Nicola per me è come un fratello. Adesso si sentirà solo. Potevo andare a fargli un po’ di compagnia. Quando stavamo in convento dalle suore era sempre premuroso con me, non dimenticava mai di portarmi qualcosa di buono dalla cucina, durante il suo turno di lavapiatti.»

    «Non ti preoccupare, ci sono passata oggi. Pure io l’ho saputo per caso. Chillo è ‘n’atu scumbinat’, che gli costava fare una telefonata, tene ‘a capa pe’ spartere ‘e ‘recchie [1] . Sono andata al negozio dove lavora per dirgli di non fare tardi stasera e lì mi hanno detto la cosa. Così ho fatto un salto in ospedale per salutarlo e sapere come stava. L’ho trovato sorridente, come sempre, che già aveva fatto amicizia con tutti quelli del reparto e pure con gli infermieri. Questi maledetti botti sono una tragedia.»

    «Era un problema già quando ero giovane io.» Si intrufolò nonna Brigida. «Figuratevi che a un ragazzino saltarono via tre dita della mano. Per noi che lo conoscevamo fu una catastrofe, la vivemmo come se la cosa fosse capitata a uno di noi.»

    «Il guaio è che ogni anno invece di diminuire aumentano. In ospedale già ce ne stavano un sacco, e non è ancora l’ultimo dell’anno. Mi hanno fatto un’impressione spaventosa. Alcuni avevano le bende sugli occhi e ci stava pure qualche criatura. Poveri figli.»

    «Domani ci possiamo andare nell’ora di spacco?»

    «Certo Gennarì’.» Ma si accorse che gli occhi del ragazzo luccicavano, quasi stesse per piangere. Allora gli si avvicinò e lo prese tra le braccia stringendolo forte. «Non ti preoccupare, ti ho detto, Nicola sta bene. È stata una fortuna, ma se l’è cavata nel migliore dei modi.»

    «Sicura?» Le fece eco il nipote quasi non credendo a quella rassicurazione, e intanto l’indice gli era partito per andare a strofinare tra le sopracciglia.

    «Certo che sono sicura. D’altra parte lo vedrai tu stesso domani.»

    «Già.»

    « E mo promettimi che fino a domani non starai preoccupato inutilmente».

    «Va bene.»

    «Ecco. Ora aiutami a sparecchiare che già è tardi e nonna Brigida vuole riposare un poco.»

    Passò la mano tra i capelli di suo nipote e si mise all’opera. Ma stavolta Gennarino decise che quei suoi doni dovevano pure avere un risvolto pratico. Invece di fare ciò che gli era stato chiesto, si allontanò nell’ingresso, con grande stupore di zia Carmela, e, appoggiatosi a uno stipite, lanciò le mani della mente. In un baleno i mestieri di casa furono sbrigati. Tazze, piatti posate e tovaglia si sollevarono e si spostarono nei cassetti e nel lavello, che si riempi d’acqua e sapone come per magia. La spugna si mise all’opera, lavò, scrostò e sciacquò, e dopo un minuto tutto era in ordine e al proprio posto, sembrava L’apprendista stregone di Walt Disney. Carmela era rimasta annichilita. Schiacciata contro la parete a strabuzzare gli occhi. Nonna Brigida invece seduta al suo posto sghignazzava in sordina, contenta nel vedere cose che lei non aveva mai potuto fare.

    Dovette intervenire Gennarino per scuotere sua zia dalla catalessi in cui era caduta. La scrollò delicatamente, e lei lo guardò come si guarda un marziano. Poi, senza dire una parola, si avviò in camera sua segnandosi con la croce in continuazione, poi finalmente ognuno andò a letto per il meritato riposo. Almeno per un momento l’aveva distratta dalla brutta notizia di Nicola. Ma a lui quella cosa gli era rimasta attaccata sotto pelle.

    Il ragazzo era contento d’avere sua nonna con sé, aveva da chiederle un mare di cose, ma l’episodio di Nicola l’aveva scosso. In quell’anno fuori dal convento, l’amico aveva avuto un ruolo importantissimo. Di fronte ai guai che s’era trovato ad affrontare, Nicola era stato un sollievo, come un’oasi nel deserto. Sempre allegro, giocherellone, anche se di veri motivi per esserlo non è che ce ne fossero tanti. Eppure, mai una volta che l’avesse visto triste o afflitto. Ora saperlo tutto solo in ospedale gli faceva venire il magone.

    L’indomani attese con ansia l’ora di spacco. S’era messo d’accordo con zia Carmela che si sarebbero incontrati fuori dal negozio. Con donna Drusiana invece avevano deciso, che per tutte le vacanze i suoi allenamenti potevano essere rimandati. L’anziana signora era una stacanovista, ma era anche intelligente e sapeva che il ragazzo necessitava d’un attimo di pausa. Le ultime vicende l’avevano stressato ed era giusto che ora si prendesse un momento di tregua. D’altra parte non c’era una scadenza da raggiungere, quindi gli allenamenti potevano procedere con calma.

    Quando Gennarino e Carmela si avvicinarono all’ospedale, il ragazzo cominciò a sentirsi stranito. Poi avvertì come se una mano gli accartocciasse le giunture e in men che non si dica si bloccò paralizzato. Sua zia pensò a un malore. Non aveva sbagliato di molto, solo che il malessere era dovuto alla sua condizione. Gli ospedali, i cimiteri, le camere mortuarie, erano per lui un vero bombardamento di energie d’oppressione. Le persone ferite, malate, ma soprattutto quelle morte emanavano flussi di dolore che continuavano a persistere nell’atmosfera. Se poi intorno vi erano delle presenze intermedie, creature che non avevano fatto pace con il loro trapasso, allora i problemi si duplicavano. Se li sentiva nel cervello come una folla che preme per entrare. Aveva dimenticato quello che gli aveva raccomandato tante volte la Maliarda, e cioè di crearsi intorno un isolamento protettivo, una sorta di schermo che lo mantenesse immune da quella valanga d’energia negativa che lo assaliva. Così prima di proseguire chiese a sua zia di fermarsi un momento.

    La donna lo guardò preoccupata, ma il ragazzo la rassicurò con un sorriso. Le disse che aveva solo bisogno di schermarsi. Carmela non capì cosa volesse dire, ma sapeva che si riferiva a quelle sue cose strane, che lei non avrebbe mai metabolizzato del tutto.

    Entrarono.

    Gennarino s’era concentrato nel modo migliore, creando l’isolamento protettivo di cui necessitava, ma appena mise piede nel corridoio d’ingresso, un marasma d’inquietudine lo investì e un conato di vomito gli salì alla bocca. Dovette fermarsi e sedersi sulla prima panchina. Sbiancò da far paura. Zia Carmela fece per chiamare qualcuno, ma Gennarino la bloccò: «Nessuno, ti prego. Vedrai che adesso passa». Però quella sensazione sembrava proprio non volesse abbandonarlo. Il luogo era troppo pregno di dolore e malessere e il lavorio di schermatura non gli fu di grande aiuto. Attese qualche istante, ma si rese conto che non ce l’avrebbe fatta.

    «Potresti vedere se Nicola ce la fa a venire giù?» Disse titubante e vergognoso a sua zia «Io non credo di riuscire a venire dentro… mi vergogno tanto ma il malessere è troppo acuto, devo per forza uscire.»

    « Gennarì’, ma così mi fai preoccupare. Non vuoi che chiami un dottore? Se non ci riescono in ospedale a farti stare meglio?»

    «No! Ti prego, fai come ti dico, devo solo uscire a prendere un poco d’aria e vedrai che tutto si rimette a posto.»

    «Ma ce la fai a stare tu da solo quaggiù?»

    «Certo, non ti preoccupare. Te l’ho detto, devo solo uscire a prendere un po’ d’aria. Scusami con Nicola.»

    «Non dire sciocchezze. Vedrai che appena sa che sei qui fa i salti di gioia. Allora vado?»

    «Sì, sì, va pure.»

    «Ci metto un minuto e se ti senti peggio, chiama qualcuno, me lo prometti?»

    «Va bene.» Acconsentì il ragazzo riluttante, sapendo che avrebbe fatto carte false pur di non rivolgersi a qualcuno in quelle condizioni. Come avrebbero potuto capire di cosa si trattava? Intanto il malessere cominciò a diradarsi, come una nebbia riscaldata dai raggi del sole, ma non la preoccupazione.

    Si rese conto che il lavoro fatto fino a quel momento non bastava. Bisognava intensificare il programma. Donna Drusiana glielo aveva detto, fintanto che i suoi doni erano rimasti latenti, tutto poteva filare liscio, niente sarebbe venuto a disturbarlo. Una volta risvegliato quel cataclisma interiore, non si sarebbe più potuto frenare. L’intensità sarebbe stata sempre maggiore e se non fosse riuscito a controllarla avrebbe preso il sopravvento, correndo il rischio di soccombere ai suoi stessi, meravigliosi doni.

    Gli venne spontaneo pensare che forse sarebbe stato meglio lasciare tutto com’era prima, così non ci sarebbero stati fastidi. Ma un attimo dopo si disse che se non fosse stato per i suoi doni, la presenza intermedia di sua madre starebbe ancora a marcire abbandonata in un vicolo buio dietro a dei cassonetti della spazzatura, così come l’aveva trovata la prima volta, scoprendo il suo cadavere. Questo lo rincuorò.

    Appena finite le vacanze natalizie avrebbe ripreso con entusiasmo e maggiore vigore quello che andava fatto. Si disse.

    Ma quei pensieri si dileguarono in un attimo vedendo apparire Nicola in compagnia di sua zia. Gli corse incontro e facendosi forza riuscì a varcare persino la soglia dell’ospedale, mantenendosi però intelligentemente proprio al bordo. L’amico era in pigiama e col giubbino che gli copriva le spalle. Alcune bende gli fasciavano le mani e parte delle braccia, ma per fortuna niente sul viso, tranne qualche piccolo cerotto. Nonostante il sorriso che gli incorniciava come sempre la faccia, si vedeva che l’espressione era velata da un rivolo di paura. La cosa gli era andata proprio bene.

    «Allora? Ci hai fatto prendere un bello spavento.» gli fece Gennarino dopo averlo abbracciato con trasporto.

    «Già, guarda che lo spavento me lo sono preso più io.»

    «Me l’immagino. Ma ora come stai?»

    «Bene, bene. I dottori hanno detto che domani posso uscire.»

    «Ma come, non ti tengono sotto osservazione? E se si dovessero verificare delle complicazioni?»

    « Gennarì’, guarda che non sono entrato in coma. C’ho solo dei graffi un po’ sparsi per il corpo, ma niente di più.»

    «Ah, ecco.»

    «Tu piuttosto, come mai non sei riuscito a venire su?»

    «Ehm… Niente di che. Forse il forte odore dei medicinali mi ha scombussolato un poco lo stomaco.»

    «Come sei delicato. E se ti dovevi ricoverare che succedeva?» Già, pensò Gennarino. In un’occasione del genere come si sarebbe risolta la faccenda? Ma forse non era il caso di pensarci.

    «Quindi esci domani?»

    «Proprio così.»

    «Allora facciamo una cosa, devi subito tornare a lavoro?»

    «No, il mastro ha detto che mi sto tutto il resto della settimana a casa. Tanto con queste mani fasciate lo stesso non posso fare niente. Però il furbo c’ha tenuto a sottolineare che mi scala due giornate dalla paga. Ci doveva essere per forza la fregatura.»

    «Ascolta», fece Gennarino, guardò un attimo sua zia prima di continuare, poi aggiunse «se zia Carmela è d’accordo e se a te va, in queste condizioni potresti venire a dormire un po’ da noi, che ne dite?»

    «Già.» Fece subito la donna.

    «Mi piacerebbe un sacco, ma devo prima vedere che cosa ne pensa il tizio del deposito dove dormo. Quello è un vero pidocchio e non vorrei che mi facesse casini.»

    «Va bene, allora domani, all’ora di pranzo, ti veniamo a prendere e andiamo insieme a parlare con questo tizio.»

    «Ok. Il programma me gusta. Ci vediamo domani.»

    «Ciao, Nicola.» E lo abbracciò di nuovo con la stessa intensità, senza badare alle bende e quindi ai dolori sparsi.

    Salutarono l’amico ed entrambi tornarono a lavoro, ormai s’era fatta l’ora di riaprire.

    ~ * ~

    L’indomani, come stabilito, Gennarino e zia Carmela si fecero trovare all’ingresso dell’ospedale. Nicola giunse bello e pronto. Come bagaglio una busta della spesa in cui aveva stipato un pigiama, un paio di pantofole, l’occorrente per la barba e un libro.

    Aveva cominciato a leggere. Voleva migliorare il suo italiano. Da quando al negozio l’avevano spostato dal magazzino, s’era un po’ vergognato di non saper parlare in modo forbito con i clienti.

    Pertanto decise di non smozzicare più solo qualche parola elegante per poi andare a cercare in un vocabolario vagamente abbozzato in testa. Dietro consiglio di Gennarino aveva cominciato con qualcosa di semplice e ora stava navigando un po’ più in là: Montediddio di Erri De Luca. Un libro relativamente breve, ma d’una profondità d’animo che avvinceva e ti teneva legato senza via di scampo. Nicola s’era appassionato più di quanto potesse immaginare. Aveva scoperto che in fondo leggere non era così palloso.

    Tra una chiacchiera e l’altra su come andavano le ferite e su come invece procedeva il lavoro, si trovarono fuori dal deposito dove il ragazzo si rintanava a dormire ogni sera.

    Sia zia Carmela, sia Gennarino rimasero interdetti.

    L’ambiente era d’uno squallore inverosimile.

    Il pavimento in muratura, senza piastrelle. Le mura annerite da chissà che tipo di scarichi o altro. Un po’ ovunque c’erano pile di pneumatici, attrezzi da lavoro, carcasse di elettrodomestici semidistrutti e in un angolo, sotto un finestrone alto, incorniciato da ragnatele d’epoca, una brandina occhieggiava solitaria, affiancata da una cassapanca di legno che fungeva da comodino.

    Non c’era da commentare.

    Dietro a una vecchia scrivania, in perfetta sintonia col resto dell’arredamento, un anziano signore stava scartabellando qualcosa. Era sui sessant’anni, ben pasciuto e con una tuta unta. Un paio di occhiali a semiluna appollaiati sulla punta del naso, completamente canuto e con un grosso paio di baffi ingialliti. A rompere il silenzio fu Nicola: «Don Ci’, io sto qua».

    « …» rispose l’anziano signore alzando appena la testa da quello che stava scarabocchiando «… finalmente si’ asciuto. T’‘a si’ pigliata comodo eh?»

    «E, diciamo.»

    «E comme stai?» gli domandò senza mai guardarlo in faccia.

    «Bene, bene. Solo che devo ancora continuare a tenere le fasciature alle mani, perché non sono del tutto guarite.»

    «Ecco bravo.»

    «Don Ci’, vi volevo chiedere una cosa.»

    «Dici, dici… ma nun m’ chiedere soldi ca nun se ne parla proprio . I’ cca t’aggia tené’ sul’ ‘a durmì’. E patti so’ chisti.»

    Nel frattempo Gennarino e Carmela assistevano a quella scena per metà rimbambiti, per l’altra metà rintronati dal distacco con cui l’uomo si rapportava a un ragazzo appena uscita dall’ospedale.

    «No, no, non vi preoccupate.»

    «E allora?»

    «Volevo chiedervi: a voi vi dispiace se vado a dormire da questi amici, fintanto che non guarisco? Tanto si tratta solo di pochi giorni.»

    «Non se ne parla proprio. Già te l’aggio permis’ a Natale. E ch’è, pigliammo l’abitudine

    «Ma…» Mentre l’amico mercanteggiava, Gennarino si rese conto che non ci sarebbe stato verso, che l’uomo sembrava irremovibile. Pensò che bisognava fare qualcosa per convincerlo.

    «Nossignore!» In quel mentre, una pila di pneumatici rovinò per il pavimento del magazzino, come se qualcuno l’avesse spinta. Eppure oltre a loro quattro non c’era nessuno.

    «Ma che cacchio…» fece l’uomo interdetto, alzandosi finalmente dalla scrivania e avviandosi a raccogliere gli pneumatici. « Uè… ma che ffai… vienem’ a dàrm’ ‘na mano…»

    «Don Ci’ e come faccio con le mani fasciate».

    «A già…»

    «Allora?» Riprese Nicola «Per il fatto che vi ho chiesto?» Ma l’uomo preso da quello scatafascio, a stento riuscì a capire quanto gli aveva detto il ragazzo: «Che? Che bbuo

    «Vi ho chiesto se posso andare a stare a casa di questi amici per un paio di giorni?»

    « Ma si’ ssurdo? Che t’aggio ditto’?» E aveva appena finito di accatastare la pila di pneumatici rovinata in giro, che un’altra si rovesciò intorno, rotolando fin quasi fuori al magazzino. Carmela e Nicola si meravigliarono che la cosa si ripetesse per la seconda volta, Gennarino un po’ meno.

    « Ma che cazz’ sta succerenn’? Me pare ‘nu manicomio.» Tentò ancora di rimettere ordine, ma sembrò proprio che ci sarebbe voluto un bel po’ di tempo per riuscirci. E lui lì, preso dai turchi a non farsi travolgere.

    «Don Ci’, ma si tratta solo di un paio di giorni.»

    Inclemente Nicola non demordeva, e quasi come risposta, prima che don Ciro rispondesse in malo modo, un’ulteriore frana di pneumatici rovinò per l’ambiente, rendendolo più squallido di quello che era. «… ma sì, sì… vattenne… bast’ ca te liev’ a ‘nnanz ‘o…» e l’ultima parola gli si soffocò in gola per lo sforzo che fece nell’alzare due gommoni contemporaneamente. Nicola non volle approfittare troppo della sorte.

    Prese, il più velocemente possibile alcune cose dalla cassapanca, e fece cenno agli amici di scappare, prima che il vecchio ci ripensasse.

    «Certo che abbiamo avuto una bella fortuna, quasi come se il terremoto delle gomme fosse arrivato al momento opportuno.» Sentenziò Nicola appena furono a distanza di sicurezza.

    «Già.» Aggiunse zia Carmela. «È la prima volta che mi capita di assistere a una cosa del genere. Sembrava quasi che ci stava una mano invisibile che le spingeva quelle gomme.» E qui la donna si bloccò, come se qualcuno di nascosto le avesse suggerito la risposta.

    Guardò Gennarino di sottecchi, il quale fece finta che il fatto non lo riguardasse, ma un leggero sorriso gli increspò le labbra e zia Carmela capì. Fu divertita dalla cosa, ma anche un po’ preoccupata: se qualcun altro l’avesse scoperta, quella cosa, che sarebbe successo?


    [1] Un modo di dire napoletano: la testa per separare le orecchie, come se non servisse.

    Capitolo Secondo

    Nei giorni che seguirono, a cavallo tra Natale e Capodanno, per Gennarino il lavoro fu massacrante. La gente entrava a comprare, a consumare, a ordinare. I dolci tipici di quel periodo, quelli da spedire a qualche lontano parente, o da far portare via come dono a quelli che lavoravano fuori ed erano tornati per le feste.

    Sembrava che le persone mangiassero solo dolci.

    La folla che si accalcava dava l’impressione che non avesse altro da fare se non quello di compensare le tante mancanze con qualcosa di zuccheroso.

    Non ci furono soste, anche quella di mezza giornata fu abolita.

    Si sgranocchiava qualcosa di frugale e poi di nuovo a lavoro.

    La mattina, il ragazzo aveva solo il tempo di fare qualche pulizia, qualche consegna all’esterno, giusto i più fedeli e poi subito nel laboratorio di pasticceria a lavorare di gran lena.

    C’era da sbattere, montare, rimestare, separare i tuorli dagli albumi, frustarli fino a farli diventare soffici come neve e mescolare i gialli con lo zucchero tanto da renderli cremosi. Filtrare la farina più e

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